Modulo di contatto

Nome

Email *

Messaggio *

sabato 22 settembre 2018

Il sacco

Ecco una fiaba brevissima...
buona lettura.





Il sacco
Barbara Cerrone




Un giorno un uomo prese tutti i suoi dolori, li mise in un sacco e li gettò nel fiume.
Il fiume trascinò il sacco fino al mare dove poi lo lasciò.
Il mare non voleva saperne di tutte quelle pene, perciò decise di  dare il sacco a un pescatore che ogni giorno gettava le reti nelle sue acque.
Ma il pescatore era vecchio e stanco e rifiutò,  allora il mare prese il sacco e lo portò  a riva, dove rimase per diciassette giorni.
Il diciottesimo giorno passò di lì un uomo che camminava  per i fatti suoi, vide il sacco e, incuriosito, lo aprì.
Quando si accorse che dentro c’erano solo i dolori di un altro uomo era già troppo tardi per gettarli via: ormai  li conosceva, così prese tutte quelle sofferenze, le mise accanto alle sue e le portò con sé, fino alla fine dei suoi giorni.



mercoledì 19 settembre 2018

Eloisa, farfalla di...peso!




Un'altra filastrocca? Sì, ma solo per cominciare!
Poi segue una delle mie fiabe.
Buona lettura.







Queste fiabe sconclusionate…
indovina chi le ha pensate?
Se ci riesci te lo dico
ma non sei più mio amico.
Mi dispiace questo fatto
e fa rima con un gatto
che si prese la porzione
di formaggio provolone:
era gatto oppure topo?
Te lo dico, però…dopo,
ho da fare tante cose
devo coglier le mimose,
i garofani  e le rose,
se tu vuoi darmi una mano
non restar troppo lontano:
vieni, vieni qui da me
che ce n’è anche per te!
Questa fiaba è senza storia,
perché  io non ho memoria,
non ho più di che narrare
e mi voglio anche fermare
ho già detto troppe cose,
più importanti son le rose.
Vedi bene che non mento
è il tuo riso che ora sento?
Ridi o fingi, caro mio?
E chi piange sono io!
Torno a tutte le mie cose,
solo, prima ti dirò
ciò ch’io stessa più non so:
le mie fiabe sono storie,
sono piccole memorie
di una fantasia bambina
che non resta più in cantina,
esce fiera allo scoperto
ed accetta anche l’incerto,
si accontenta di un sorriso
che ora spunta sul tuo viso;
se ti parlo del mio gatto
o del glicine disfatto
da una strega malfattrice
che ha nome Pieralice,
tu dirai “Be’, ma chi è?”
Non lo vengo a dire a te!
Son segreti secretati,
nessun mai li ha rivelati,
se una timida falena
ora tu inviti a cena
chi mai lo verrà a sapere?
Il formaggio con le pere!
Certo lui lo scoprirà
ma mangiato resterà.
Tenga ognuno il suo segreto,
come un fiume nel suo greto
io che vivo nel roseto
da farfalla impenitente
dico “Non m’importa niente”
di saper segreti altrui
e di quei momenti bui
che attraversano la mente
di gran parte della gente,
sono fata anche se umana
perché sogno la magia
che ti dona l’allegria,
la felice situazione
della gioia a profusione
l’unica che può venire
dal tuo giovane sentire,
dalla fresca fantasia
che non devi mandar via.
Cresci in mezzo a questi sogni,
non avrai altri bisogni
che sognare la bellezza
e scacciare la tristezza.
Fiaba è il nome che io porto
e ora vado nel mio orto,
fatto sì di pomodori
e di tanti buoni odori
che solleticano il naso
e ti crescono nel vaso.
Coltivando anche il giardino,
resto sempre a te vicino:
mio simpatico bambino.











Eloisa

 Barbara Cerrone

Eloisa era una farfalla con una peculiarità.
Ne sapevano qualcosa le margherite quando si poggiava sulle loro corolle.
Eloisa, vedete, era una farfalla incredibilmente, inesorabilmente, irrinunciabilmente grassa, ed era felice così. Anzi. Una volta, specchiandosi in un torrentello, si era trovata un po' sciupata e il giorno dopo aveva succhiato il doppio del nettare dai fiori del parco per riprendere un po' di peso.
Quando volava, posandosi di fiore in fiore, in molti la scambiavano per un elefante ma lei sorrideva e diceva: "Non fa nulla, non si preoccupi, capita a tutti di sbagliare."
I suoi atterraggi li ricordavano per mesi i prati del suo paese perché, di solito, c'era un rimbombo che scuoteva la terra come un terremoto, e le onde sonore si propagavano per miglia e miglia generando scompiglio fra le popolazioni.
Era gentile, però, e questo la rendeva leggera, anche se nessun umano la voleva sul palmo della mano, né i fiori anelavano ad avere una sua visita, a meno che non desiderassero ritrovarsi incollati a terra come una decalcomania.
Per nutrirsi aveva bisogno di molto nettare, tanto che non le bastavano i fiori del parco reale a colazione e doveva spostarsi fino al villaggio delle rose, da dove, dopo aver spiaccicato un intero roseto, tornava quasi sazia al suo paese per sbrigare le faccende della giornata. Faccende di farfalla, naturalmente.
Era davvero molto rotonda, praticamente una sfera. Tutti le volevano bene, sì, ma... a distanza. Perché capite che abbracciarla voleva dire essere soffocati o giù di lì se si era insetti o simili.
Lei, però, sorridente e leggiadra, non se ne curava, e continuava a svolazzare come una vera farfalla di fiore in fiore, senza accorgersi che, dopo le sue visite, i giardini erano come rasi al suolo.
Una volta, un'ape anziana, magra e stizzosa, puntò verso di lei e le rivolse queste parole velenose:
"Buongiorno, palla di cannone, sei di queste parti?"
"Palla di... oh, che buffo! Ah, ah, ah!” rise Eloisa.
"Come, elefante volante, non ti sei offesa?"
"Offesa? Ih, ih, ih! E perché? Mi piacciono le battute. Da dove venite, buona ape?"
"Da dove vengo, non sono affari tuoi - rispose acida la vecchia – piuttosto, tu che razza d’insetto sei, grossa e grassa così?"
"E me lo domandate buona ape? Sono una farfalla, si vede, no?"
"No, no che non si vede! Le farfalle sono leggiadre, magrissime, colorate e belle e tu sei grassa, goffa e hai i colori sbiaditi.”
"Ho i colori sbiaditi, dite? Ah, be’, perché oggi ho indossato le ali da lavoro, di solito le mie colleghe mettono quelle da passeggio anche quando vanno per fiori, ma io no, sapete com'è, si sporcano subito... ma voi, buona ape, ditemi: che ne pensate di questo nettare? E' buono, vero?"
"Buono? Puah! Fa schifo, altroché! Eh, una volta c'era un nettare...una meraviglia! Oggi, invece, è tutto un grande schifo. Anche tu, una farfalla obesa... un vero orrore! Ai miei tempi non sarebbe successo, le farfalle erano leggere e delicate come piume.”.
"Oh, ma anche oggi, anche oggi, credete. Le mie care sorelle e colleghe sono tutte leggere, io no, ma è che sono d'appetito, mi piace mangiare, ecco tutto."
"Sì, sì, cicciona, ho capito, ho capito. Be’, adesso vado, torno al mio alveare. Ti saluto farfalla-cannone."
"Ciao, cara, che il cielo ti benedica!", rispose Eloisa, sempre sorridendo.
Eh, sì, Eloisa, era fatta così, non si arrabbiava mai, era sempre allegra e voleva bene a tutti, anche alle api dispettose. Non era stupida, sapete, anzi. Era una farfalla intelligentissima, aveva studiato nelle migliori università per farfalle, era solo molto molto allegra, ecco.
Un'altra volta un lombrico, invidioso perché lei poteva volare mentre lui strisciava e basta, si piantò in mezzo al campo e cominciò a tirarle palline di terra negli occhi. Lei, però, pensando a un nuovo gioco, si mise a ridere, a ridere e a ridere, e ridendo disse al lombrico:
"Uh, che bel gioco, che bel gioco, che bel gioco!", poi si sciacquò gli occhietti vispi in un rigagnolo d'acqua. Il lombrico ebbe un riversamento di bile, fu necessario portarlo subito in ospedale, (quello dei lombrichi infermi, ovvio) dove gli fu praticato d'urgenza un intervento difficilissimo che non riuscì, e il lombricaccio restò così, rabbioso e triste per tutto il resto dei suoi lombricheschi giorni.
Un'altra volta ancora, un uomo anziano che amava cacciar le farfalle per il gusto di vederle dibattersi in cerca di una via di fuga, dopo averla vista decise di catturarla e costruì un retino con le maglie d'acciaio perché ne sostenesse il peso.
E la catturò, infatti. Soddisfatto, pensando a come si sarebbe divertito, si trovò davanti ad uno spettacolo inaspettato: la grossa farfalla, per niente spaventata, saltava come un grillo su e giù nel retino, ridendo a crepapelle.
"Ah, ah, ah! Che divertimento! Bravo! Che bella idea! Bravo, bravo!"
L'uomo, deluso, la lasciò andare.
Eh, sì, Eloisa era proprio fatta così, non lasciava appigli alla malignità, del resto, lei stessa era troppo buona perché potesse attaccarlesi addosso qualsiasi bavoso umor di malvagità: semplicemente le scivolava via dalle ali possenti come la pioggerella d'aprile.
Chiunque l'abbia conosciuta, l'ha amata.
Oggi, lontana miglia e miglia causa matrimonio felicissimo con un giovin farfallo di un paese lontano, non la si vede più volare leggera (!!!) di fiore in fiore mentre canta la filastrocca dei lepidotteri operosi. Tutti la rimpiangono, davvero, infatti gira voce di un viaggio che starebbero organizzando i suoi amici per andare a trovarla. Spero tanto di poterci andare anch'io, se le mie ali mi porteranno, così potrò darvi notizie fresche della farfalla più grassa che c'è, la più gentile, la più brillante nonché la più intelligente: lei, l'unica, Eloisa de' Fiori.











martedì 18 settembre 2018

Filastrocca

Oggi mi va di scrivere una filastrocca...ma sì!
Buona lettura a chi tocca!





C’era una volta...oh! Non mi ricordo!
Forse una volta son stato anche sordo,
forse ho anche perso la settimana,
chiusa nel sacco della sottana.
Nemmeno a dirlo, nemmeno a farlo
Nella tua testa ci vedo un bel tarlo,
mandalo via, fai attenzione
o quel tarlaccio ti dà una lezione.
Io non ti dico che devi ammazzarlo,
basta soltanto che scacci quel tarlo,
solo così mi potrai rivedere,
dopo una vita o dopo un anno
senza che il tarlo ti faccia alcun danno.
Su, dammi ascolto, e prendi nota:
la nostra vita non è che una ruota!


domenica 9 settembre 2018

Miele


Un gatto e un lupo, eroi della bontà: nelle fiabe questo e altro!
Ma, chissà, forse anche nella realtà...
buona lettura.







Miele
Barbara Cerrone



C’era una volta un bellissimo gatto di nome Arturo.
Arturo era di colore bianco e nero, aveva il pelo lungo, gli occhi color verde prato e faceva sempre le fusa.
Viveva nel paese di Piuinlà, poco, ma davvero poco, lontano da qua.
Arturo era vivace, allegro,  affettuoso e dolce,  così dolce che i suoi amici lo avevano soprannominato Miele e col nome di Miele era conosciuto da tutti i gatti, che gli si attaccavano proprio come le mosche al miele.
Se andava in paese a fare un giro, tutti i mici  che incontrava, randagi o residenti, gli dicevano:
“Miele, dove vai di bello?”
E lui, che era un felino a modo, educato e gentile, ogni volta rispondeva:
“A spasso, amico mio. Vuoi venire con me?”
Ecco che allora, piano piano, di gatto in gatto, una lunga fila di mici si univa a lui, ognuno tenendo con la zampa la coda di quello che stava davanti; la gente che li vedeva passare si metteva a ridere per quanto erano buffi, così, in fila indiana.
“Guarda, guarda, c’è Miele che passa con tutti i mici dietro!” dicevano, e per farli passare si mettevano ai lati della strada, come fosse un corteo regale.
Ogni volta era uno spasso in paese quando arrivava Miele. Tutti, gatti e umani, lo amavano; nessuno resisteva, neanche Aurelio, gatto selvatico e  pieno di boria, che stava sempre solo e scacciava chiunque gli si avvicinasse.
Ma Miele no, non lo scacciava, e quando lo vedeva arrivare non perdeva occasione per unirsi alla fila dei felini.
Con tutti questi amici la vita di Miele scorreva serena nel paese di Piuinlà.
Ogni mattina si alzava dalla cuccia, si lavava ben benino, faceva colazione e poi andava a spasso nei boschi.
Una mattina si alzò come sempre di buon’ora, fece un’abbondante colazione e uscì come per andare in paese, dove si formò la solita fila dietro di lui e la gente che si sbellicava dal ridere.
Giunto a una svolta che portava dritti dritti verso il bosco, Miele  ebbe un dubbio: proseguire l’esplorazione o tornare indietro, dato che era tardi e la fame cominciava a farsi sentire?
Vedendo che si era fermato i gatti che lo seguivano cominciarono a protestare.
“Che fai, Miele? Ti fermi proprio ora? Noi vogliamo andare avanti!”
E tanto fecero e tanto dissero che Miele si convinse e proseguì, nonostante il buco nello stomaco.
La primavera stava arrivando e il bosco era tutto un fiorire di colori, fra il cinguettio degli uccelli che volavano da un albero all’altro.
Tutto questo piaceva a Miele, gli piaceva davvero, tanto che decise di fermarsi per godersi  lo spettacolo.
Il caso volle che proprio quel giorno si aggirasse nel bosco la strega Malfatta, una megera che odiava i gatti e soprattutto odiava Miele perché tutti lo amavano e lo seguivano ovunque andasse.
Vide i mici che si divertivano, contenti della bella gita e l’invidia, che sempre la rodeva come un tarlo, la fece avvampare al punto che quasi  si incendiava.
In un baleno le venne un’ideaccia:c’era una buca profonda proprio in mezzo alla strada, la strega pensò di nasconderla ben bene con della paglia presa dalla sua caverna, poi si mise in attesa dietro un albero.
Quando Miele arrivò in prossimità della fossa non si accorse di nulla e ci cadde dentro come un sasso, trascinandosi dietro tutti i suoi amici.
“Ahhhh!” gridarono i poveretti.
Nessuno poteva sentirli, tranne Malfatta, che se la rideva di gusto aspettando il momento giusto per farsi vedere.
“E ora che si fa?” chiesero i mici a Miele.
“E io che ne so? “ pensava Miele, grattandosi la testa.
Era solo un giovane micio caduto in una buca, ci sarebbe voluto un umano per aiutarli, o la volpe Aida, ma quella i gatti se li mangiava se aveva lo stomaco vuoto...no, l’umano era più sicuro.
Ad un tratto ebbe un’idea che lì per lì gli sembrò geniale: chiedere aiuto. Come? Ma gridando come un pazzo, è ovvio!
Si diede allora a miagolare a voce spiegata, tanto forte che lo sentirono dal bosco alto le civette addormentate.
“Uhh! Ma chi è il cafone che fa tutto questo rumore in pieno giorno? Silenzio, qui c’è chi sta riposando!” brontolò Amelia, la vecchia civetta che viveva sul platano più alto.
“Ehhh,  di sicuro sono  ragazzi! Ma se li prendo...” gli fece eco aprendo un occhio solo il gufo Orazio.
Miele capì allora che non era aria, finché non fosse passato da lì qualche umano gentile nessuno nel bosco li avrebbe potuti aiutare.
Tentarono, è vero, di arrampicarsi e risalire da quella fossa disgraziata ma inutilmente: il terreno era scivoloso per la pioggia recente e qualcosa, chissà cosa, ogni volta li faceva ricadere giù, giusto al punto di partenza.
Si fece sera, Miele e i suoi compagni di sventura avevano una fame da lupo, e a proposito di lupo...
“Uh, che appetito avrei, stasera, se solo ci fosse qualche animale gentile disposto a farsi mangiare da un vecchietto come me!” borbottava Amilcare, di professione lupo, anche lui in giro da quelle parti in cerca di un boccone da mandar giù.
“Ci mancava solo questa!” pensò Miele, ma non disse nulla ai suoi amici che intanto si erano addormentai e ronfavano a più non posso.
“Ucci, ucci, sento odore di gattucci! Non mi piace la carne di gatto ma stasera non posso far tanto il difficile, in questo boscaccio non ho trovato nulla da metter sotto i denti, perciò Amilcare accontentati. Vediamo un po’ dove sono nascosti questi teneri micetti.”
Cerca e ricerca, non senza qualche lupesca difficoltà perché il suo naso era afflitto da un tremendo raffreddore e non fiutava bene gli odori, Amilcare alla fine scovò la buca, con i nostri amici dentro.
“Ah, eccoli qua!” disse.” Ora vi tiro fuori io, bei micetti! Che ne dite di farmi da cena? Oggi non ho mangiato nulla, sapete?”
Detto ciò allungò la zampa per arraffarne uno ma la buca era troppo profonda e fu costretto a sporgersi, e a sporgersi, e a sporgersi così tanto che cadde anche lui, atterrando sul povero Miele.
“Ahhh!” urlò il lupo, e tutti i mici si svegliarono.
Il terrore si sparse come sabbia sui loro musi baffuti: un lupo! Ed era anche affamato! Peggio di così non poteva andare.
Fra i nostri amici fu tutto un affannarsi di zampe e code alla ricerca di una via di fuga che non c’era.
“Miaooo! Aiut...ahhh! Ohhh!” gridavano, mentre Miele quasi soffocava sotto il corpo spelacchiato del vecchio Amilcare.
“Ti vuoi spostare, sciocco di un lupo? Mi stai schiacciando, non lo vedi?” gridò  Miele che dolce era dolce ma con chi lo minacciava sapeva pur difendersi.
“ E secondo te mi diverto a star così? Io ti vorrei mangiare, mica schiacciare. Questa buca mi va stretta, perbaccolina!”
Amilcare tentava di girasi ma ogni movimento che faceva lo incastrava ancora di più, Miele avrebbe voluto essere una biscia per sgusciar via e liberarsi da quel peso.
Detto, fatto.
“Uh? Ma chi è che si è portato una biscia?” disse il lupo vedendola scivolare da sotto la sua coda striminzita.
“Sono io, Miele, non mi riconosci?”
“E come potrei se ti travesti da biscia? Tutto per non farti mangiare. Mi spieghi come hai fatto?”
“Non lo so.  Ero qui che pensavo vorrei essere una biscia, vorrei essere una biscia e poi eccomi qua, biscia scivolosa. Chissà com’è successo. Intanto io risalgo su, esco da questa buca  e vado a cercare aiuto.”
Ma la buca era scivolosa anche per le bisce che sanno bene cos’è scivolare, così più  Miele tentava di risalire più quella bucaccia  lo respingeva giù.
“Inutile, di qui non si esce” esclamò il nostro, sconsolato.
La notte calò scura e umida, come ha il vizio di fare sempre la notte, specialmente nel bosco, che da verde si fa nero nero.
Mille canti di uccelli notturni si levano allora, e occhi rotondi di civette e gufi guardano roteando se c’è in giro qualche succosa preda per i loro becchi affamati.
I mici intanto tremavano per il freddo.
“Neanche a scaldarci sei buono, lupo!” brontolò Aurelio che era proprio stufo di star là sotto insieme a tutta la marmaglia felina e a un vecchio lupo, per giunta senza un bocconcino da digerire con un lungo sonno.
“Che vuoi gattaccio? Ringrazia che quasi non mi muovo sennò parola mia ti avrei già mangiato.”
Andarono avanti così a litigare per un bel pezzo finché il sonno, padrone di tutti gli occhi quando finisce la giornata, vinse, e tutti finalmente si addormentarono.
Si svegliarono all’alba, Miele fu il primo, si ricordò di essere una biscia e pensò che era tempo di tornare gatto, visto che ad esser biscia non ci aveva guadagnato nulla.
Cominciò a pensare con intensità:”Vorrei essere un gatto, vorrei essere Arturo detto Miele.” e subito i suoi lunghi baffi bianchi gli fecero il solletico sul naso.
“Ecco il nostro Miele!” gridarono tutti.”Ora ci tirerà fuori di qui!”
“Magari!” pensò il nostro amico, che davvero non sapeva più che fare.
D’un tratto gli venne un’altra idea: perché non chiedere di diventare uccello? Di certo così sarebbe potuto volar via e andare a chiedere soccorso in paese. Perché non ci aveva pensato prima?
Vorrei essere un uccello, vorrei essere un uccello, prese a pensare, e più pensava più sentiva crescere le penne, e poi il becco; in  due minuti, eccolo là, il passerotto Miele.
A volte certi guai son proprio duri da superare. Miele sbatteva le ali, ma più le sbatteva più queste si facevano pesanti e lo tiravan giù, come sassi attaccati al collo.
“Ehhh, qui c’è un mistero” fece il lupo, che si credeva un gran cervellone.
“Proprio così, ed eccolo, il mistero!” disse Malfatta affacciandosi dall’imboccatura.
“La strega Malfatta!” gridò Miele.
 “Sì,  siete miei prigionieri, e per sempre. Ora andrò a prendere la pala, coprirò la buca  e addio a voi! Ah, ah, ah!”
La sua risata stridula echeggiò sinistra per tutto il bosco, i nostri amici ebbero i brividi dappertutto, anche sulla lingua.
Nel frattempo nel villaggio tutti si stavano chiedendo che fine avessero fatto Miele e i suoi amici,  spariti nel nulla dal giorno prima.
Dopo un’attenta valutazione, si decise di organizzare le ricerche e si misero in campo tutti i migliori cerca-gatti della contea: chi andava di qua, chi andava di là, ognuno aveva la sua zona da esplorare.
Nel bosco andarono i cerca-gatti di Nonsolastrada, i più ferrati nelle ricerche dei dispersi.
Malfatta li vide da lontano e si mise subito al lavoro per fermarli.
“Coda di cane, coda di gatto, che tu non possa trovar neanche un ratto. Coda di rospo, coda di uccello, possa cadere tu dentro il ruscello.”
Ed ecco che i cerca-gatto di Nonsolastrada, i più esperti, i più bravi cerca-gatto in circolazione, caddero come un solo cerca-gatto dentro un ruscello, dove una corrente fortissima li trascinò fino al fiume, e sarebbero annegati se non fosse stato per un pescatore di buon cuore e buona lenza che li ripescò uno ad uno.
La strega Malfatta, felice e contenta di essersene liberata, era già tornata dai nostri amici brandendo la sua pala rugginosa.
“Eccomi, carini, adesso vi sistemo io!” disse.
“Aspetta, Malfatta, noi non ti abbiamo fatto nulla, “fece Miele,” lasciaci andare, ti prego!”
“Uhm, no e poi no. Questo è il momento più bello della mia vita. Finalmente mi libero di te, dolce,  buonissimo, insopportabile gatto. Troppo buono per i miei gusti.”
“Libera almeno i miei amici, tu ce l’hai solo con me, non è vero?”
“Humm, questa proposta potrebbe anche interessarmi...e sia! Loro sono liberi ma tu resti nella buca e io ti sotterro, siamo d’accordo?”
“Sì, siamo d’accordo.” mormorò il povero Miele.
Uno ad uno i mici che lo accompagnavano furono fatti uscire da Malfatta, che li prendeva per la zampa e li tirava su.
“E io?” disse Amilcare quando fu il suo turno di essere salvato.
“Vieni anche tu, non ho niente contro i lupi.”
Amilcare, che in fondo era una buona pasta di lupo, proprio non se la sentiva di lasciar nei guai Miele, così tentò un’impresa disperata: fece segno al micio di star zitto, lo prese per la collottola e se lo mise nella tasca destra dei pantaloni, poi si lasciò tirar su dalla strega.
“Accidenti quanto pesi!” brontolò Malfatta.
“Eh, ultimamente ho esagerato con la carne, forse dovrei diventare vegetariano.”
La strega però era furba, e quando Amilcare uscì si accorse subito che la tasca destra dei suoi pantaloni era troppo gonfia e che doveva esserci qualcosa là dentro.
“Che hai lì, fammi vedere.”
“Niente, è solo un fazzoletto da collo, sai, la mia cervicale...”
“Hum, vuota subito quella tasca o ti rispedisco là sotto.”
Amilcare tentò di opporsi ma quella megera fu più svelta di lui, gli mise una delle sue manacce sporche nella tasca e ne tirò fuori Miele, tutto tremante.
“Ah, traditore di un lupo! Vuol dire che creperai insieme al tuo amico. Giù!”
E li rispedì dritti dritti nella buca tutti e due.
Infine, con la sua palaccia riempì di terra quel pertugio fino a coprirlo completamente, di Amilcare e Miele ormai  non si vedeva più neanche il naso.
Appena arrivati al villaggio, gli amici di Miele raccontarono quel che era successo.
Ben presto la gioia di tutti si tramutò in disperazione quando si seppe che Miele si era sacrificato per salvare i suoi amici, e  che ora era sepolto in una buca e nessuno poteva salvarlo perché c’era di mezzo la strega Malfatta. Contro di lei, nessuno, gatto o umano, poteva far nulla.
La tristezza si impadronì di quel borgo che pianse il suo Miele, e anche il lupo, già che c’era.
Per fortuna di Miele nel bosco le notizie corrono veloci: di farfalla in farfalla, di fringuello in fringuello passano da una creatura all’altra e presto presto giungono alle orecchie di chi le deve sentire.
Al limitare del bosco viveva un vecchio mago, molto buono, nemico acerrimo di Malfatta.
Il suo nome era Verde.
Appena  Verde seppe di Miele e Amilcare corse subito in loro soccorso.
Quando fu davanti alla buca, libro delle magie alla mano, si schiarì la voce, prese fiato e disse:
“Boffi, baffi e biffi, venite subito fuori da quegli abissi”.
In men che non si dica, un vortice di terra scura si sollevò, scoprendo le teste impolverate di Amilcare e Miele.
“Grazie, grazie di averci liberati” esclamò Miele uscendo dalla fossa.
Anche Amilcare ringraziò con un bell’inchino, entrambi chiesero al mago come potevano sdebitarsi per quel che aveva fatto ma Verde non voleva ricompense, gli bastava sapere che erano salvi e che la strega era stata sconfitta.
I nostri amici  si congedarono dal loro salvatore fra mille complimenti e presero la via del ritorno.
Quando in paese li videro arrivare non credevano ai loro occhi, la gioia superava ogni parola. E non parlarono, infatti, si abbracciarono e basta.
Andarono avanti a festeggiare per una settimana, Amilcare e Miele furono proclamati eroi, anche il lupo prima di tornare alla sua tana ebbe una medaglia che gli appuntarono sul gilé: da quel momento fu ufficialmente riconosciuto come lupo buono e nessuno, cacciatore o contadino, gli diede più la caccia, né lui cercò di mangiare gli animali del villaggio.
Miele riprese la sua vita di sempre ma con più gioia, perché ora sapeva quanto fosse bella la vita. E la libertà.
Appena Malfatta seppe che i due se l’erano cavata grazie a Verde, per la rabbia avvampò al punto che  prese fuoco per davvero, come un fiammifero.
Rimasero solo le sue ceneri, ma quelle nessuno le volle spargere sul terreno perché di certo erano stregate e neanche la terra le avrebbe sopportate.