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domenica 23 dicembre 2018

Buon Natale

Non è facile fermarsi a pensare quando tutto intorno gira vorticosamente: le luci, le vetrine, i regali...tutto ci invita a vivere il piacere della festa.
Per chi non crede forse Natale è una specie di fiaba, e come tale la vive, tornando malinconicamente alla realtà quando finisce. Per chi crede, invece, Natale non è una fiaba ma una bellissima realtà che  ci accompagna come una luce di speranza per tutta la vita.
Buon Natale a tutti, dunque, credenti e non: scegliete voi da che parte stare.




Auguri!

Barbara

domenica 16 dicembre 2018

Un buonissimo Natale

Natale. Tante luci e qualche ombra, dissiparla sarebbe il più bel regalo. Per tutti.




Un buonissimo Natale
Barbara Cerrone






C’era una volta un Natale, era piombato da un giorno all'altro come un ospite inatteso nella casa di una famiglia molto povera che non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena, figuriamoci se poteva organizzare il pranzo della festa.
Il Natale si rese subito conto di aver sbagliato indirizzo, era atteso in una bella casa nel bel mezzo di un paradiso tropicale, con un grande giardino e un  enorme albero pieno di luci colorate messo al centro della sala da pranzo.
“Per Santa Claus!” esclamò guardandosi intorno. “Come avrò fatto a finire qui, fra questi poveracci? Il navigatore...ma sì, è stato quello stupido aggeggio a farmi atterrare qui, non devo più seguirlo,  mi manda fuori strada! Devo  proprio tornare ai vecchi metodi, tanta tecnologia e poi fa cilecca”,
Mentre il Natale brontolava in questo modo, a  dire il vero poco natalizio, la famiglia poverissima si interrogava sul da farsi: come preparare una degna accoglienza ad un Natale che ormai non aspettavano più da anni? Che cosa mettere in pentola per fare onore all'ospite e festeggiare insieme? Un osso di nulla, un etto di poco, un piatto di vuoto e un bicchiere di aria?
 Troppo misero, si vergognavano di riceverlo così.
E allora? Pensa e ripensa il padre ebbe un’idea.
“Portiamolo a pranzo dai cugini ricchi, loro sì che festeggiano da signori! Il Natale sarà contento  e noi faremo bella figura”.
La famiglia ci pensò un attimo, tutta riunita intorno al caminetto spento, poi decise all'unanimità di far proprio così, era al’unico modo per salvare capra e cavoli e far contento anche il Natale.
I cugini ricchi abitavano dall'altra parte della città, dove vivono di solito quelli che i soldi ce l’hanno, la famiglia povera ci andò a piedi col Natale che si lamentava per il freddo e chiedeva almeno una sciarpa da mettere al collo visto che era uscito così dalla naftalina, senza nemmeno un cappottino sulle spalle.
“Scusi, signor Natale,” ebbe a dirgli la mamma,” ma lei è stato proprio imprudente a vestirsi con questi abiti leggeri, non ricordava più che la sua festa viene ogni anno in pieno inverno?”
“Certo, signora mia ma negli ultimi anni io mi sono visto festeggiare spesso in luoghi caldi e lontani, che so? Ai tropici, o in qualche isola dove è sempre estate e stavolta  mi sono confuso.”
“Capisco, capisco, ha sbagliato posto , mi pareva strano che fosse venuto proprio da noi. Si faccia coraggio, siamo quasi arrivati, dai nostri cugini troverà un bel fuoco caldo e tante buone cose da mangiare”.
I cugini appena videro la famiglia povera  si misero subito sul chi va là, tuttavia  fecero buon viso a cattivo gioco perché non volevano sembrare dei cattivi senza cuore davanti al Natale in persona, così  esibirono  il più bel sorriso che avevano e finsero di essere contenti.
“Chi si vede? Entrate, prego, siate i benvenuti. Signor Natale, che bella sorpresa, e che onore averla come ospite!”
Il Natale si accomodò subito nel salotto buono, la famiglia povera, invece, che sapeva di non essere gradita, rimase sulla soglia.
“Ecco, ora il Natale avrà un’accoglienza degna di lui. Noi andiamo, sappiamo che qui non c’è nulla per noi” disse il padre facendo segno agli altri di andar via.
I cugini ricchi per un attimo finsero di volerli trattenere, in realtà erano ben felici di liberarsi di loro e dedicarsi solo al Natale, venuto in casa loro a festeggiare.
La famiglia povera tornò mestamente a casa, chiedendosi cosa avrebbe mangiato quel giorno a pranzo, visto che in dispensa c’erano solo qualche uovo e un pezzo di pane.
“Idea! “ fece il figlio più grande.” Che ne dite di una bella frittata? La accompagneremo con quel buon pane e buon pro ci faccia”.
Tutti approvarono la sua idea e appena tornati a casa si diedero subito a preparare la frittata.
Intanto il Natale, seduto a capotavola, gustava piatti prelibati coccolato e vezzeggiato da tutti  come una star.
“Ne vuole ancora?” chiese la cugina madre porgendogli una fetta di panettone,” è di quello buono...”
“Non ne dubito, signora ma sono davvero pieno. Basta così, casomai gradirei un caffettino.”
La cugina si mise subito a prepararlo, felice di accontentare in tutto il suo ospite.
Il Natale, però, sentiva come un peso sullo stomaco.
“Forse ho mangiato troppo” pensò toccandosi la pancia piena.
La sua pancia, in verità, gli rispose che stava benone e non era questo che gli faceva sentire quel gran peso.
“Che sarà mai, allora? Cosa mi succede?” si chiese il Natale corrugando la fronte.
Rimugina e rifletti sentì salire dal profondo del suo animo natalizio una risposta che lì per lì lo disorientò.
“Quella povera famiglia. Saperli a piluccare qualcosa alla meglio mentre qui si gozzoviglia al caldo, è questo che mi pesa. Strano, ultimamente non mi ero affatto interessato di chi non può festeggiarmi, come mai oggi sento questa specie di rimorso? Forse  perché gli altri anni ero in trasferta ai tropici e oggi sono qui e li ho visti con i miei occhi? Sì, dev'essere per questo.  Che cosa posso fare, allora?”
Il Natale era indeciso: restare ancora al caldo a godersi un bel caffè oppure...oppure.
Oppure.
Era freddo, e lui aveva un abito leggero, ma camminava così in fretta che quando arrivò davanti  alla porta della famiglia povera era accaldato e quasi sudava.
“Eccomi, sono tornato” disse entrando con passo trionfale.
La famiglia povera non credeva ai propri occhi: il Natale era di nuovo lì e voleva festeggiare al freddo e senza nemmeno uno straccio di panettone!
Avevano appena finito di mangiare la frittata, non c'era nulla da offrire all'ospite, se ne rammaricarono ma Natale disse di non preoccuparsi, aveva già mangiato in abbondanza, voleva solo stare in compagnia.
Il figlio più piccolo, allora, prese la sua armonica e cominciò a suonare, si misero da un lato le sedie e senza porre tempo in mezzo si diede inizio alle danze
Fino a sera ballarono e cantarono, si divertirono come matti; il Natale, soprattutto, non aveva mai riso tanto nella sua lunga vita.
Tutti insieme passarono una giornata bellissima e quando, a tarda sera , il Natale disse che per lui era ora di tornare a casa, i suoi ospiti  ne furono molto dispiaciuti perché un Natale così bello non lo avevano passato da anni.
“Ci vedremo il prossimo anno,” annunciò il Natale, “spero che le cose vadano meglio per voi. Magari la prossima volta andremo insieme alla Messa di mezzanotte, che ne dite?”
Certo, dissero,  non desideravano altro.
Nonostante tutto avevano fede, molta, molta fede e il Natale era il momento giusto per dimostrarlo.













venerdì 14 dicembre 2018

Gatto Natale

Un gatto affamato, una città in pieno delirio natalizio e un'idea brillante...

Buona lettura


Gatto  Natale  
Barbara Cerrone



A Natale, si sa, la città impazzisce. Vortici di teste in frenetico circolo volteggiano in una danza di api industriose che succhiano il nettare delle vetrine illuminate a festa, bambini esaltati dalle luci e dai colori dei giocattoli esposti nei negozi,  si perdono poi fra gli scaffali dei supermercati,  mentre le madri  pagano il conto chiacchierando con le amiche. 
Un tripudio di allegria costruita per far sì che Natale sia Natale, e non assomigli a  nessun' altra festa.
In questa frenesia collettiva dove nessuno sembra accorgersi di ciò che gli succede intorno, come fa un gatto randagio, rosso di pelo e dal carattere iroso, a raccattare un’elemosina di cibo?
Mai come a Natale la gente sembra distratta dallo sfavillio della festa incombente e concentrata su di sé come un bambino in attesa di doni. Così pensava Gatto Rosso, un vero randagio, arruffato dentro e fuori, pieno di pulci che mangiavano, loro sì, senza ritegno, il suo sangue malnutrito dai pochi e magri pasti.
Come attirare su di sé l’attenzione di qualche signora in vena di buone azioni o di un bambino innamorato dei gatti e di ogni animale che assomigli a un peluche? Difficile. Nel calpestio, poi, dello shopping-arrembaggio, addirittura impossibile. Dunque, che fare? Guardandosi intorno alla ricerca della soluzione che non veniva, vide un uomo vestito di rosso che qualcuno chiamò Babbo Natale e si accorse che quasi tutti i bambini si fermavano davanti a lui e non volevano più andarsene, mentre le mamme, reduci da lotte furiose a colpi di scontrino, spendevano le residue energie nel tentativo di portarli via.
 “Buon trucco,” rimuginò Gatto Rosso,”se avessi anch'io un vestito come quello forse qualche bambino si volterebbe a guardarmi e allora…via col mio sguardo liquido da gatto senza tetto, un po’ di fusa ruffiane e...voilà! Ci scappa, magari, la salsiccia o il barattolo del supermercato.”
Ma come procurarsi quel vestito? Nella sua testa di felino ruminarono mille idee, quella giusta, però, si presentò soltanto a tarda sera, quando il Babbo Natale a due gambe si ritirò dal marciapiede e fece per andarsene.
 “E se lo seguissi?” si disse il gatto.”Così scopro come fa a vestirsi così.”
 E via dietro a quel bipede con la grossa pancia penzolante!
Si ritrovò in un posto curioso, pieno di tanti Babbo Natale che si slacciavano la pancia finta e ridevano tra loro scambiandosi le impressioni della giornata.
 Gatto Rosso si era nascosto dietro una colonna di cemento ma uno di quei Babbi lo vide e gridò:
 ”Guardate, abbiamo visite”.
Tutti i Babbi si voltarono e fu subito tutto un Micio, micio, vieni bello.  Gatto Rosso cercò di dirigersi come un fulmine verso l’uscita ma fu bloccato da un giovincello allampanato di nome Giosuè; con tante facce intorno che gli facevano le fusa (così gli parve) non gli rimase che arrendersi e sperare per il meglio.
Fu proprio quel Giosuè che ebbe l’idea.
 “Ehi, ragazzi, perché non vestiamo anche lui da Babbo Natale?”
Gatto Rosso capiva poco la lingua umana ma quando lo acconciarono alla meglio con un berretto rosso sulla testa e un campanaccio al collo non ebbe più dubbi: aveva raggiunto il suo scopo.
La mattina dopo era con loro davanti ai grandi magazzini.
 Così ebbe inizio la fulminante carriera di Gatto Rosso, subito soprannominato Gatto Natale. Un successo che finì sulle prime pagine dei giornali e perfino alla televisione.
 Gatto Natale divenne una star ed ebbe pappa e cuccia comoda assicurate per tutto il resto della sua vita felina.
Ricco e famoso, finì serenamente i suoi giorni in una pensione   a cinque stelle per mici  anziani, circondato dall'affetto dei suoi fans.

domenica 2 dicembre 2018

Salta, salta


Chiamiamola favola, anche se della favola mancano alcuni elementi, ecco la storia breve di un saltatore pentito...
buona lettura


Salta, salta
 Barbara Cerrone



Giuseppe saltava spesso di palo  in frasca  perché saltare era la sua passione.
Saltava i fossi facendo jogging la mattina,  per  dimagrire saltava anche i pasti. Una volta saltò la colazione ma fu uno sbaglio perché poi andò al lavoro con i nervi a fior di pelle e tutta la giornata gli andò storta, ebbe una nota dal suo principale e un collega gli tirò  un temperino.
Cose che capitano a molti saltatori.
Il suo animale preferito? Ovvio: il canguro! E fra gli insetti? Le cavallette senza meno, i grilli no, perché d’estate tutto quel cantare gli dava fastidio, disturbava la sua pennichella pomeridiana.
Quando leggeva un libro spesso saltava qualche pagina tanto per tenersi in esercizio,  col salto in lungo aveva vinto molti premi, il salto in alto era il suo sport preferito e cucinava sempre  i saltimbocca, erano quelli la sua specialità.
Il salto nel vuoto, invece,  non l’amava, quello nel buio lo faceva spesso quando la sera rientrava  a casa sua.
E gli piaceva anche saltar per aria sulla poltrona, vedendo un giallo,  davanti alla tv.
Ma salta salta un giorno vide sua moglie in compagnia di un amico e saltò subito alle conclusioni: finì così il suo matrimonio, da allora in poi non saltò mai più.

martedì 27 novembre 2018

Mani in acqua - seconda versione

Ecco la versione modificata di "Mani in acqua".
Buona lettura.



Mani in acqua!
  Barbara Cerrone

  


C’erano una volta due piccole mani che non si volevano mai lavare.
Quelle manine si sporcavano con le matite e con la cioccolata.
Sotto le unghie avevano la terra del giardino.
C’era la marmellata sulla punta delle loro dita.
L’acqua però non la volevano neanche vedere.
E se il sapone zitto zitto si avvicinava... aiuto! Le dita litigavano fra loro.
“Tu sei il più sporco, tocca prima a te!” urlava Mignolo
“Ma cosa dici? Sei sporco quanto me!” gli rispondeva subito Anulare.
 Poi Anulare spingeva avanti Medio.
 Medio  dietro il fratello Indice cercava di scappare.
 L’indice, poi, si nascondeva sotto il pollice.
 Il pollice?Eccolo sotto il palmo della mano per non farsi acchiappare.
 “Quattro? E dov'è il quinto ditino?’” chiedeva la mamma.
La mamma cerca cerca lo trovava sempre, quel birbante.
Ed eccoli finalmente tutti insieme, mogi mogi sotto al rubinetto.
“Avanti, un bel tuffo in acqua e poi subito a letto!”







lunedì 26 novembre 2018

Mani in acqua!

Questa volta ho voluto pensare ai più piccini.


Due piccole mani, nonostante si sporchino continuamente con le matite e con la cioccolata,  non ne vogliono proprio sapere di lavarsi.
Le dita litigano fra loro per sfuggire al sapone: il mignolo  vuole che vada prima l’anulare che invece  spinge il medio in fuga, l’indice si nasconde sotto il pollice e il pollice sotto il
palmo della mano.

La mamma, però, la sa più lunga di tutti e come un bravo detective scova tutte le dita e le mette sotto al rubinetto perché si lavino bene prima di andare a letto.
Questa è la prima versione, seguirà a breve la seconda.








Mani in acqua!
Barbara Cerrone


C’erano una volta due mani che non si volevano mai lavare.
 Si sporcavano con le matite colorate  e con la cioccolata ma... niente da fare.
L’acqua non la volevano sentire.
E se per caso in bagno il sapone si avvicinava,  le dita litigavano fra loro.
“Tu sei il  più sporco, tocca prima a te!” diceva il mignolo, che era il dito più piccino.
“Ma cosa dici? Sei sporco quanto me, non ci provare!” gridava l’anulare spingendo il medio che cercava di scappare.
L’indice, poi, un furbo che non vi dico! Si nascondeva sempre sotto il pollice e quello poi via sotto il palmo della mano per non farsi acchiappare.
“ Quattro? E dov'è il quinto ditino?’” chiedeva la mamma davanti al lavandino.
Ma a lei nulla sfuggiva e cerca cerca lo ritrovava sempre, quel birbante.
Ed eccoli tutti insieme, cinque di qua e cinque di là, mogi mogi sotto al rubinetto.
“Avanti, un bel tuffo in acqua e poi subito a letto!"



domenica 11 novembre 2018

Parole ingarbugliate

Quando parlare non è un gioco da ragazzi...
buona lettura.








Parole ingarbugliate
Barbara Cerrone



C’era una volta un bambino carino, simpatico e intelligente, il suo nome era Giovanni.
Questo bambino aveva un problema che gli creava grande disagio: balbettava.
Era come se la sua lingua si intrecciasse  al palato, e ogni volta doveva fare grandi sforzi per non mettersi a piangere.
A scuola c’era chi lo prendeva in giro ma c’era anche chi faceva il tifo per lui e lo sosteneva, insomma di amici ne aveva, tuttavia questo non bastava a dargli la fiducia che gli sarebbe servita per superare quell'incepparsi della lingua così ostinato e fastidioso.
“Ba-ba-babalbetterò tutta la vita, lo so” diceva, in preda allo sconforto.
Avevano un bel dire i suoi amici che non era così, lui scuoteva la testa piena di riccioli rossi e poi si voltava  dall'altra parte per non far vedere che aveva gli occhi lucidi.
“Non piangere, tesoro mio,” gli diceva la mamma, “ vedrai che un giorno avrai una lingua così sciolta che ti vorranno come speaker alla tv!”
“Speaker, come no!” pensava il bambino, che almeno nei pensieri non balbettava.”Altro che speaker, è già tanto se riesco a finire una frase”.
Il tempo passava e le sue parole erano sempre più ingarbugliate, tanto che un giorno, mentre studiava ripetendo ad alta  voce, due o tre di  loro uscirono  dalla sua bocca in fretta e furia e non vollero più tornarci.
Presto anche le altre seguirono il loro esempio e fu il caos.
“To-to-toto-tornate su-su-subito qui!” gridò Giovanni, ma quelle non lo ascoltarono nemmeno e scapparono volando qua e là per la stanza, come mosche impazzite.
Una addirittura gli si posò sulla testa e cominciò a tirargli i capelli mentre un’altra gli saltava sul naso. Giovanni cominciò ad agitar le mani per scacciarle, poi corse dietro alle parole fuggiasche  che volavano, volavano  in ogni direzione: una si era rifugiata sopra le mensole, un'altra penzolava  dal lampadario, un’altra ancora si era appesa al cordone della tenda in salotto e si divertiva a oscillare come un pendolo.
 In poco tempo la stanza si riempì di vocali, consonanti e poi addirittura di frasi, intere frasi col verbo al posto giusto che chiacchieravano fra loro come comari alla finestra.
Giovanni era  riuscito a prendere solo due consonanti, la z e la w, che essendo le più pigre si erano sdraiate sul divano a ronfare come ghiri e si erano fatte acchiappare senza quasi accorgersene.
Sua madre era uscita da poco per fare la spesa raccomandandogli di non aprire la porta a nessuno e di non combinare guai, cosa avrebbe detto se rientrando avesse trovato la casa  invasa  dalle parole? C’era di che esser punito, magari con il  divieto di vedere i cartoni animati per un’intera settimana!
Per complicare la faccenda suonarono alla porta. Era il suo amico Paolo.
“Vieni fuori a giocare? Facciamo un po’ di tiri con la palla”.
Che cosa poteva dirgli? Che era nei guai  perché alcune parole gli erano sfuggite di bocca e ora giravano per casa? Non ci avrebbe creduto e di sicuro avrebbe preteso di vedere con i suoi occhi, cosa che era molto meglio evitare, conoscendolo.
Era un ragazzo simpatico ma far confusione era la sua specialità, se avesse visto tutto quello scompiglio si sarebbe divertito un mondo a crearne ancora di più e chissà cosa avrebbe architettato. Allora sì che sua madre si sarebbe arrabbiata! No, bisognava mandarlo via  subito con una scusa.
“Non po-po-poposso uscire, ho male alla gola” disse Giovanni.
L’amico lo guardò come per dire Da quando in qua un mal di gola ti impedisce di uscire? Tuttavia, vedendo che Giovanni non voleva proprio saperne di seguirlo, si rassegnò.
Stava quasi per andarsene quando una parola, la più impertinente, fece capolino sulla soglia di casa.
“E questa che roba è?” chiese l’amico.
“E c-c-cche ne so?” mentì Giovanni. “ Gi- gi-gigirano strani insetti, oggi.”
“Ma quale insetto, questa...questa è una parola! Giovanni, tu non me la racconti: hai  perso le parole!”
“No, s-s-ssono  insettacci” disse chiudendo la porta senza nemmeno salutarlo.
Paolo non si arrese, il suo migliore amico era senza parole e doveva aiutarlo, anche se lui non voleva. Suonò il campanello una, due, tre volte. Finché Giovanni non aprì.
“C-c-ccosa c’è, ora? ”
“Ti aiuto a prenderle.”
“E v-vva bene, entra”.
“Eh, ma sembra uno sciame di mosche!” esclamò Paolo entrando in casa.
I due ragazzi si misero a rincorrerle insieme, le birbone sembravano foglie portate dal vento, un turbine di parole che neanche Paolo riusciva  a catturare.
Anzi, una di loro, una r bizzarra e capricciosa, si fece accanto a Paolo e cominciò a tirargli la manica del maglione per dispetto.
Nel bel mezzo di questa scenetta ecco arrivare la madre di Giovanni, di ritorno dalla spesa.
“Che succede, qui? Che state combinando voi due?” chiese.
“Nulla, signora, giochiamo a prendi la parola” rispose Paolo, che aveva la scusa sempre pronta.
Prendi la parola?  Che gioco è? E poi che ci fanno qui tutte queste mosche? Ce le avete portate voi due, eh? Le voglio subito fuori di qui, alla svelta!”
Per fortuna la madre di Giovanni era presa da mille pensieri e non si accorse che quelle cose scure che giravano per casa non erano affatto mosche. Comunque si era arrabbiata e in un modo o nell'altro bisognava risolvere la faccenda.
Farle uscire? No, sarebbero andate perdute per sempre. E allora?
“Giovanni, conto fino a tre, se al mio tre quelle mosche non saranno uscite stasera niente cartoni.”
Intanto quelle vigliacche delle parole avevano sentito tutto ma neanche ci pensavano a rientrare al loro posto, macché! Anzi, tanto per fare più dispetto si misero a girare intorno alla testa della mamma che si infuriò ancora di più.
Paolo e  Giovanni non sapevano più che fare.
“Dille la verità, è l’unica” sentenziò Paolo.
Allora Giovanni si avvicinò alla madre che stava sistemando la verdura in frigorifero, le fece segno di porgergli l’orecchio e mormorò:
”Non s-s-ssono mosche, mamma”
“No? Dio mio, e che insettacci sono, allora?”
“Non s-s-ssono insetti, mamma.”
“E allora che cosa sarebbero, sentiamo?”
“S-s-ssono le mie parole. Mi sono uscite dalla bocca e non vogliono rientrarci.”
“Questa poi! Come ti è venuta una bugia così fantasiosa? Guarda, è così originale che quasi mi passa la voglia di arrabbiarmi. Comunque sia voglio quegli insetti fuori di qui, subito.”
“Ma...mamma, guardale bene...non s-s-ssono insetti, sono pa-pa-paparole”.
La madre, finalmente, fissò l’attenzione su quella nuvola nera e brulicante e  quel che vide la fece restare a bocca aperta, tanto che non ebbe  neppure  la forza di arrabbiarsi con Giovanni.
La nuvola nel frattempo si era ricomposta, parole sparse avevano formato  racconti, poesie, perfino un romanzo che finì appiccicato sul soffitto,  la mamma lo lesse tutto d’un fiato.
"Appassionante" esclamò, quando ebbe finito.
I tre, tutti insieme,  lessero fino a tarda sera e ancora non ne avevano abbastanza.
Quando arrivò il padre di Giovanni era già ora di cena, li trovò che dormivano uno accanto all'altro sul divano con un’espressione beata sulla faccia.
Le parole, intanto, come l’acqua di un fiume in piena quando ritorna nel suo letto, si erano ritirate nella bocca di Giovanni che ora le teneva ben strette dentro di sé.
“Ehi, svegliatevi, voi tre!” disse il papà scuotendoli dolcemente.” Che cosa avete combinato per essere così stanchi?”
“Niente, papà,” rispose Giovanni, “ avevo perso le parole e ora le ho ritrovate.”
“Ma tu non balbetti, te ne sei accorto?”
“Io? Non so, io...è vero. Mamma, Paolo, sentite come parlo? Non balbetto, non balbetto più!”
Che cosa era successo? 
E chi lo sa? A volte, le parole fanno scherzi che neanche si possono immaginare, fatto sta che da quel giorno Giovanni non balbettò mai più e le sue parole restarono per sempre insieme a lui, a fargli compagnia, uscendo solo e sempre  al momento giusto.








































martedì 6 novembre 2018

L'inventastorie senza storie


Uno scrittore che ha perso l'ispirazione è come se fosse diventato cieco all'improvviso: perduto nel buio e solo, non gli resta che tentare il tutto per tutto per ritrovarla.
Buona lettura.


L’inventastorie senza storie
Barbara Cerrone


“Povero me, povero me!” si lamentava Aliseo, l’inventore di storie.” Ho perso l’ispirazione e non ho più storie da raccontare”.
Passava di lì Mafalda, la gallina, e subito cercò di consolarlo.
“Nessuno ti capisce più di me. Anch’io, sai, non faccio uova da due settimane, e il contadino dice che se continuo così mi tirerà il collo e con me ci farà il brodo.”
“E io, allora?” mugolò il cane Astolfo.”Una volta andavo in cerca di tartufi col mio padrone e ritornavo sempre con certi esemplari...ora, invece, ho perso il fiuto e tutto mi va storto. Il mio padrone dice che mi darà a un suo amico che sta sulla collina. Non sono più buono a nulla.”
“A chi lo dici,” muggì la mucca Gerardina,” da un mese non faccio più una goccia di latte. Se va così un giorno o l’altro mi porteranno al macello, già lo so.”
“Amici, vi ringrazio ma tutto ciò non mi consola. Devo ritrovare subito la mia ispirazione,  o per me sarà la fine.  Non posso più aspettare: esco subito a cercarla.”
Detto ciò, salutò gli amici del cortile e uscì, in cerca dell’ispirazione perduta.
Andò per campi e per valli, per boschi e per foreste, guadò fiumi e scavalcò muraglie ma della sua bella ispirazione nessuna traccia.
“Sono alla rovina, se non la ritrovo tanto vale che mi nasconda nella valle buia a finire i miei giorni in compagnia dei topi briganti.”
Mentre piangeva così ecco avvicinarsi una fila di formiche in gita che portavano una briciola di pane e marmellata per il picnic.
“Oh, chi si vede: l’inventastorie! Come mai da queste parti?” chiese la più anziana
“Ho perso la mia ispirazione, l’ho cercata dappertutto, per caso l’avete vista?”
“Noi? Hummm...no, lavoriamo e basta, non badiamo alle fantasie. E ora, se vuoi scusarci, abbiamo un picnic da metter su.”
E se ne andarono, lasciando il povero Aliseo al suo destino.
“Formiche,” borbottò, “che mi è venuto in mente di chiedere proprio a loro? Si sa che non hanno fantasia. Basta, è inutile cercare ancora, tanto vale che torni a casa.”
Mestamente, il nostro amico prese la via del ritorno, fermandosi ogni tanto a guardare qua e là per vedere se non gli fosse sfuggito qualcosa.
Aveva fatto solo pochi passi quando si vide venire incontro una formica tutta sola.
“E tu? Che fai da sola?” le chiese.
“Mi hanno cacciata dal formicaio” rispose quella.
“Cacciata? E perché?”
“Dicono che sono strana. Sai, mi piace sognare. Volevo dirti che io so dove puoi trovare quello che cerchi.”
“Davvero? E dove, dimmi, dove?”
“Seguimi e te lo mostrerò.
Camminarono per ore e ore fino ad arrivare a una vallata deserta, dove neanche un filo d’erba poteva crescere.
“Ecco, la tua ispirazione è qui. Devi solo scavare” disse la formica, e poi corse via via verso il bosco.
Aliseo non se lo fece ripetere e con le sole mani prese a scavare la terra sotto di sé.
Scava scava trovò una pietra durissima e trasparente come acqua, la prese, la guardò in controluce e vide che intrappolata nel suo cuore c’era qualcosa, sembrava un foglio bianco piegato in due: raccolse da terra un sasso, spaccò la pietra e lo tirò fuori.
Aprì il foglio per leggerlo  ma...sorpresa! Dentro ce n’era un altro uguale, aprì anche quello e ne trovò uno gemello.
Aprì cento, mille fogli: tutti uguali! Il bello era che ogni pagina bianca gli ispirava una nuova, bellissima storia.
Quella sera, a casa, ne scrisse così tante da riempirne volumi.
Fu così che la sua fama come scrittore  varcò i confini del paese,  tutti volevano leggere le sue storie.
Aliseo  continuò a scriverle per tutta la vita,  e da quella volta non perse mai più, nemmeno per un istante, l’ispirazione.
E la formica?
Una sera, sognando a occhi aperti, si mise a  fissare la luna nascente con tale intensità che uno dei suoi raggi la rapì e la portò  nel cielo, dove rimase come una nuova costellazione a guardare la terra da lassù.

lunedì 8 ottobre 2018

La solerzia di Armando.



Anche gli impiegati modello a volte perdono la testa.
Buona lettura



La solerzia di Armando
Barbara Cerrone



Quello che sto per raccontare è successo in un tempo lontano, e a dirla tutta fa rabbrividire.
Ancora oggi a pensarci si diventa pazzi; effettivamente uno ce ne fu che impazzì, e sì che era un tipo posato, tranquillo.
Un impiegato di non so quale amministrazione,  il suo nome era Armando.
La cosa accadde un giorno di inizio autunno, con le giornate ancora così calde e ingannatrici che sembrava di stare in piena estate.
Armando doveva espletare una certa praticaccia che gli portava via tempo ed energia, e quasi disperava di riuscirci, tanto era ostica e il tempo, come al solito, tiranno.
L’interessato era venuto a chiederne notizie molte volte, si era perfino spazientito a  sentire che c’era ancora da aspettare un bel po’, che il procedimento richiedeva questo e quello, e che bisognava esercitare senza risparmio la virtù più richiesta  agli  utenti dei pubblici servizi: la pazienza.
“Un corno!” proruppe il cittadino esasperato.” Io non aspetto più, e lei mi renderà conto...”
Di che cosa però non lo disse perché proprio in quell'istante per il troppo urlare gli mancò la voce, poveretto.
Armando, conscio delle responsabilità  che il suo  incarico comportava, prima si assicurò che nessuno avesse udito  quell'esternazione, poi  si grattò significativamente il naso e  rivolgendosi all'urlatore disse:
“Mi dispiace, signore, ma questi sono i tempi della burocrazia”.
Tanto bastò a far crollare le braccia al disgraziato che se ne andò, lasciando la speranza allo sportello.
Armando, dal canto suo,  si rimise subito al lavoro.
E come avrebbe potuto immaginare quel che poi vide? Lo vide ma per un pezzo pensò di non averlo visto affatto.
"Non è possibile, è un'allucinazione!" pensò vedendo un fascicolo che si apriva da solo.
Certo, una pagina non si gira  se non c’è almeno un venticello che la muove. 
E il timbro non prende e vola sulla pagina, andandosi a posare proprio lì dove deve stare per dar valore a tutte quelle frasi.
No, per questo ci vuol la mano di una persona, nessuna pratica si svolge da sola: come faceva quella, allora?
Eppure...
Non fu nemmeno l’ultima a sbrigarsela in autonomia, ce ne furono, uh, se ce ne furono! Una dopo l’altra, quella mattina.  Veloci come il vento,  e Armando che guardava e più che stupito era attonito, inebetito come quella volta che era caduto dalla sedia all'osteria.
Passati i primi attimi di stupore, il nostro  uomo volle capire.
“Ma come fate ad esser così svelte?” chiese a quei fascicoli pieni di fogli che si scrivevano da soli.
Avrebbe dato una decina dei suoi anni per scoprire quel segreto,  il trucco di far così alla svelta e così bene! C’era da avere un bell'encomio, una gratifica, o chissà che. Ma quelle niente! Non lo filavano nemmeno, non rispondevano, certo! Perché era chiaro che puntavano a qualcosa, e quel qualcosa l’avrebbero raggiunto se  Armando non avesse  preso  subito le sue precauzioni.
Meditò a lungo,  finché gli venne l’idea un po’ mascalzona di darsi il merito di tutto quel lavoro.
“Del resto, chi può smentirmi? Qui sono solo, stamattina, nessuno ha visto tranne me. Che provino, quei fogliacci, a dir la loro: glielo farò vedere io chi comanda in questo ufficio!”
Così risolse di andare subito dal capo, prima che lo facessero le sue rivali.
“Oh, bravo, così si fa!” gli disse il capo ufficio con gli occhi che brillavano. E gli affibbiò subito un’altra pila di scartoffie.
Armando non se ne fece certo un cruccio, già le vedeva all'opera da sole, solerti e svelte a toglierlo dai guai.
Rideva piano di un riso soffocato, come un leggero ringhio,  e così ringhiando attese che le pratiche finissero il lavoro.
La sua forbita mente stava già sognando  gli applausi e i complimenti dei colleghi quando un dubbio atroce lo attanagliò all'improvviso: e se fosse arrivato qualcuno proprio mentre quelle lavoravano? Il rischio c’era,  se le avessero viste come avrebbe potuto  negare l’evidenza? Encomio, applausi e gratifiche di sorta, tutto sarebbe andato a quelle carte e addio ai sogni di un povero impiegato!
Ma ecco la soluzione che balenò furtiva al suo cervello sopraffino: chiuderle nell'armadio.
E così fece.
Le stipò tutte bene bene nell'armadio a muro, girò la chiave e se la mise in tasca.
“Ecco, ora potete lavorare senza che nessuno vi veda” disse,  e si mise subito a recitar la parte di uno molto occupato, tenendo la testa china su una cartellina vuota che aveva messo lì sul tavolo allo scopo.
Il capo ufficio entrò solo una volta, vedendolo  immerso nel lavoro fino al naso se ne andò subito senza proferir verbo e  non lo cercò più per tutta la mattina.
Venne l’ora di uscire e Armando aprì finalmente l’armadio. Le pratiche,  tutte svolte alla perfezione, stavano ultimando la fase della timbratura.
Appena ebbero finito le estrasse piano piano, controllò che tutto fosse a posto e se ne andò, col sorriso sulle labbra.
Il giorno dopo la stessa tiritera e quello successivo, nemmeno a dirlo, uguale.
A fine mese ebbe una gratifica, il capo ufficio, con una pacca sulla spalla, gli offrì un caffè e i colleghi per poco non lo portarono in trionfo.
Il salto di qualità di quell'ufficio non sfuggì alle alte gerarchie dell’amministrazione che non mancarono di far conoscere all'impiegato Armando i sensi della loro profonda ammirazione.
Insomma tutto andava a gonfie vele,  Armando era felice, talvolta nello specchio gli pareva perfino di essere cresciuto dal suo metro e cinquantacinque, tanto era gonfio d’orgoglio e vanità.
Si fece crescere anche una bella barbetta che gli incorniciava il mento dandogli un’aria d’importanza, di saggezza, gli pareva,  tale che ormai nessuno lo avrebbe più ignorato, come accadeva sempre alle feste o lungo il viale del passeggio giù in città.
Ad un certo punto ci fu addirittura una donna, piacente anziché no, che gli ronzò intorno con l’intenzione di sposarlo e per poco non ci riuscì.
Tutto finisce, a questo mondo, compresa la fortuna, così finì anche quella di Armando.
La primavera  era appena all'inizio, Armando era in ufficio come al solito e come al solito fingeva di lavorare ficcando gli occhietti a spillo nella solita cartellina.
Il capo ufficio gli chiese notizie di una pratica che interessava un suo lontano cugino, immediatamente Armando scattò sugli attenti e andò a guardare nell'armadio.
Quello che vide, però, non gli piacque affatto.
Le pratiche, quelle stacanoviste che fino al giorno prima avevano lavorato tanto non avevano mosso pagina.
“Che succede, stamani? Siete in sciopero?” chiese Armando.
Poi  pensò che in fondo anche loro avevano diritto ad una pausa, richiuse lo sportello e si mise ad aspettare un quarto d’ora,  giusto il tempo di farle riposare.
Passato il quarto d’ora tornò alla carica: nulla. Ferme come fogli inerti.
“Che avete, dannazione? State attente, non mi piacciono certi scherzi!” sibilò richiudendo ancora una volta lo sportello.
Quella mattina la passò così, aprendo e richiudendo invano l’armadio;  le pratiche restarono ferme, e così anche il giorno dopo, e quello successivo.
Passò una settimana e niente era accaduto, il capo ufficio cominciava a innervosirsi, puntava i piedi, faceva allusioni e tormentava il povero Armando perché sbrigasse al più presto il suo lavoro.
“Che ti succede? La gratifica ti ha dato alla testa?” gli disse una mattina.” Si fa presto a scendere dopo essere tanto saliti, che credi? Bada, ti tengo d’occhio!”
Armando, di necessità virtù, aveva ripreso a lavorare ma il suo ritmo non era certo quello delle pratiche; studiava, ponderava, esitava, timbrava ma quanto a chiudere.. eh! Ci voleva tempo.
In capo a due settimane accumulò un bell'arretrato,  il capo ufficio già progettava di fargli una sanzione.
“Dalle stelle alle stalle,”  rimbrottò, “ del resto te l’avevo detto di non montarti la testa!”
Inutilmente Armando aveva schierato tutte le pratiche sul tavolo al centro della stanza e ogni giorno le  guardava con  occhio supplichevole, le vigliacche restavano impassibili.
Tutto era finito ormai. La gloria, le gratifiche, le soddisfazioni. Tutto.
Il sedicesimo giorno del suo martirio Armando si presentò al lavoro in ritardo.
Nessuno dei suoi colleghi riuscì mai a scoprire il perché ma alle dieci e trentacinque esatte, due minuti dopo la fine della pausa per il caffè, una  sottile lingua di fumo acre cominciò a spirare da sotto la porta del suo ufficio.
Il primo ad accorrere fu Ernesto. Curiosità e invidia lo rodevano da tempo per quell'omino che all'improvviso era diventato il cocco del capo ufficio,  sperava che per una volta ci fosse da divertirsi tanto da scoprire i suoi denti gialli schierati in un bel sorrisetto.
Non  poteva certo immaginare lo spettacolo che gli si sarebbe presentato: un gran falò in mezzo alla stanza e lui, l’irreprensibile Armando che ghignando come un indemoniato  gli ballonzolava intorno.
Ci vollero due robusti infermieri per bloccarlo, lo portarono via a fatica e di lui non si seppe più nulla.
Intanto il fumo aveva già  invaso il corridoio e tutti gli impiegati erano usciti dalle loro stanze precipitandosi fuori,  a respirare l’aria fresca del mattino.