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giovedì 30 agosto 2018

Il musico pastore


A volte succedono cose che somigliano a presentimenti...
circa una settimana fa ho scritto questa fiaba e ho dato al protagonista il nome di uno dei miei gatti, il più dolce e affettuoso: Arturo.
Arturino, così lo chiamavo, stava sempre sulle mie ginocchia quando scrivevo, e anche quando non scrivevo. 
Faceva caldo? Trenta, trentacinque gradi? Arturino cercava comunque di "incollarsi" a me, voleva il contatto, e poi faceva le fusa. Era felice così.
Bianco e nero, trovatello, usciva poco e amava stare in casa. Con me.
Ora, davanti a questa tastiera, ne sento ancor più la mancanza.
Arturino è morto ieri, dopo un'improvvisa e del tutto inaspettata malattia.
Arturino, dolcissimo micio, questa fiaba è per te.






Il musico pastore
Barbara Cerrone



C’era, di questo son sicura, tanto tempo fa un certo pastorello che viveva felice e contento in una casetta in fondo a  una bella vallata.
Portava ogni giorno le sue pecore a pascolare, e mentre mangiavano lui suonava il suo zufolo.
La gente che passava da quelle parti si fermava beata ad ascoltare, tanto era bravo il pastorello a suonare.
Capitò che un giorno  lo sentisse il re in persona.
“Da dove viene questa musica celestiale?” chiese al paggio che gli stava accanto.
“Il pastorello che vive in fondo alla vallata, maestà.”
“Che sia condotto al mio cospetto!”
Il paggio inviò subito un messaggero al pastorello, che lo seguì, pieno di timore.
“Eccomi, maestà,” disse appena fu al cospetto del re,” sono al vostro servizio.”
“Come ti chiami, figliolo?” chiese il sovrano
“Arturo, sire”
“Un nome importante, bene, bene. Arturo, ho sentito come suoni e ti dico che sei  molto bravo: voglio nominarti  musico di corte, avrai ricchezze e onori ma bada, dovrai obbedirmi sempre senza mai discutere e seguirmi ovunque, anche in battaglia.”
“Maestà, non so se sono all’altezza...”
“Basta così, lo sei, ti dico.  Prendi le tue cose e stasera stessa vieni a vivere qui, il mio servitore ti mostrerà la tua stanza.”
“Ma sire, e le mie pecore? Non posso abbandonarle!”
“Porta anche loro. Allieteranno i giochi dei miei figli”.
Fu così che il pastorello si trasferì a corte e inizio la sua nuova vita.
Il re  gli ordinava di suonare giorno e notte e sempre gli chiedeva: “Suona questo, suona quello”.
Il suono che usciva dal suo zufolo, però, era diverso, Arturo non lo riconosceva quasi  più ma al re piaceva e lo copriva di onori e monete d’oro, il giovane pastore, come ubriacato da tutto quel ben di Dio,  non pensava più alla sua musica ma a intascar denaro e suonava qualunque cosa volesse il re.
Le sue pecorelle intanto facevano la felicità dei principini che le vezzeggiavano, le coccolavano, le infiocchettavano come bambole.
Arturo non le vedeva quasi più, se non dalla finestra, mentre suonava per il re.
Purtroppo anche le gioie, come le rose, hanno qualche spina, che nel caso dei re spesso si chiamano guerra.
Il sovrano chiamò  Arturo e gli disse chiaro e tondo:
“Ascolta, devo partire per la guerra e tu mi devi seguire. Col tuo zufolo renderai più piacevole il mio riposo e quello dei soldati. “
Arturo, a dire il vero, non era poi tanto entusiasta di partire per la guerra ma i patti sono patti e lui non era tipo da tirarsi indietro, così fece di sì con la testa riccioluta e corse a prepararsi.
Il fatto è che certe guerre sembrano non finire mai, e quella sembrava proprio senza fine.
“Sire, “disse un giorno Arturo al re,” sono tre anni che siamo in guerra, lontani da casa, vorrei tanto una licenza: per pietà concedetemi di tornare solo qualche giorno, il tempo di salutare le mie pecore e rivedere il mio villaggio.”
“No e poi no! Sapevi bene cosa ti aspettava quando hai avuto l’onore di diventare musico di corte, ora hai degli obblighi e finché la guerra non sarà finita e io stesso dirò che possiamo andare a casa tu resterai al mio fianco, come un cane fedele. Questa è la mia volontà, e se disobbedisci ne pagherai le conseguenze.”
Arturo non osò replicare, sapeva che col re c’era poco da scherzare e in cuor suo era disperato.
Quella notte non poté dormire, si girò e rigirò nel letto come un ossesso; cercava un modo, pensava a una maniera di uscirne fuori senza finir nei guai. Il mattino venne e non l’aveva ancora trovata.
Nonostante la paura decise di tentare ugualmente la fuga, anche a costo di esser condannato a morte come disertore.
Quatto quatto, mise il capo fuori dalla tenda per controllare se la via era libera, poi uscì correndo più veloce di una lepre.
Si fermò solo quando fu certo di non essere seguito. Si trovava già nel bosco inoltrato, il sole si affacciava  tra i rami degli alberi e i primi fiori sbucavano qua e là, timidamente.
Stava attraversando quel corridoio verde piano piano, per godersi tutta la sua bellezza, quando sentì una vocina che sembrava provenire dalla terra stessa.
“Tu, umano, vieni qui!”
“Chi è che parla?” chiese Arturo guardandosi intorno.
“Sono io...non mi vedi”
“No, non ti vedo: dove sei?”
“Sono...qui!” disse ancora la voce, e un fungo enorme comparve all’improvvsio davanti agli occhi atterriti di Arturo.
“Un fu-fun...go che parla?”
“Sì, caro, un fungo che parla. Che c’è da ridire? Insomma anche noi abbiamo i nostri bei pensieri, sai? Ogni tanto passa di qui una fata compassionevole e ci regala qualche facoltà: una volta è quella di cantare, un’altra è quella di camminare, e qualche volta capita perfino che possa regalarci  quella di parlare, se abbiamo qualcosa di importante da dire.”
“Gentili, queste fate. E oggi tu hai qualche cosa di importante da dire?”
“Certamente.  Devo parlare con te, ragazzo mio. Tu sei un pastore e un musico ma vivi a palazzo, ti sembra giusta la vita che fai? Hai lasciato le tue pecore a far da giocattolo ai figli del re e non te ne occupi più, ti sembra bello? Tu stesso non sei che il giocattolo del re, e suoni a comando solo melodie sciocche.”
 “Il re in persona mi ha voluto accanto a sé perché lo allietassi con la mia musica, non potevo rifiutare.”
“Potevi eccome. Non sarà piuttosto che ti hanno lusingato  i suoi complimenti? Non sei stato tentato dagli agi della vita di corte?”
“Forse, lo ammetto. Per uno come me, che non ha mai visto tanta ricchezza, c’è da farsi girare  la testa.”
“E ora il re ti vuole per forza al suo fianco, cosa credevi? Di non pagare in qualche modo il suo favore? E come disertore ti farà uccidere, se ti prenderà. Hai tradito la tua musica e le tue pecore, e tutto  per la tua vanità”-
A queste parole il fungo sparì, lasciando Arturo nella più nera disperazione.
Uscito dal bosco, s’incamminò lungo la stretta via che portava al castello.
Ai lati della strada vide donne e uomini cenciosi che litigavano fra loro per un pezzo di pane, capì che il suo paese era caduto in miseria a causa della guerra, e se ne rattristò.
Era  quasi sera quando finalmente vide in lontananza il castello.
“Eccomi a casa!” gli venne di gridare. ”Ora cosa racconterò? Dirò che il re mi ha lasciato tornare per qualche giorno a vedere le mie pecorelle, e poi? Poi troverò il modo di scappare, andremo via, io e le mie piccole, via per sempre da questo posto, prima che il re e le sue guardie ci uccidano”.
Al castello non trovò nessuno, sembrava abbandonato da tempo, ragnatele e polvere erano dappertutto; di cortigiani e armigeri, dame e buffoni  invece nemmeno l’ombra.
Cercò le sue pecore ma neanche di loro c’era traccia. Un dubbio atroce lo assalì: e se qualcuno, per fame, le avesse mangiate? La fame è brutta e in guerra a volte fa più vittime della spada.
Corse subito via,  a cercarle, diretto verso la campagna. Percorse valli, bussò alle porte di misere case di contadini.
“Pecore, signor mio?” dicevano quelli.” Se ne avessi vista anche solo una me la sarei già mangiata, con la fame che ho”.
Venne la sera e Arturo non aveva trovato che paura e miseria sul suo cammino.
Non sapendo più che fare, né dove andare, poiché era buio e il freddo gli pungeva le ossa, si decise a picchiare ancora una volta alla porta di una casupola.
“Ci sarà pure un po’ di fuoco per riscaldarsi, in questa casa” pensò.
Ma bussa bussa non apriva nessuno.
“Che sfortunaccia! E ora che si fa?” si chiese Arturo.
Il cielo stellato sembrava guardarlo compassionevole mentre cercava un angolo più riparato dove accoccolarsi a passar la notte.
Decise per un albero, sotto le sue fronde sparse un po’ di foglie, a mo’ di  giaciglio, e vi si sdraiò.
Stanco com’era, il sonno non tardò ad arrivare.
Il guaio fu che gli vennero sogni più brutti della fame nera che aveva.
Sognò le sue pecore macellate,  il re con la spada in mano che cercava di ammazzarlo, un fungo alto e grosso che lo fermava e damigelle vestite da lupi che gli danzavano intorno.
Al mattino si svegliò in un bagno di sudore.
“Mamma mia che incubi! E non ho certo fatto indigestione!”
Mentre pensava a queste cose e si sgranchiva le gambe rattrappite per il freddo, vide la luce fioca di una candela accendersi dentro la casupola.
“Allora  c’è qualcuno! Riproverò a bussare. Dovranno pur aprirmi se non son mostri senza pietà.”
“Che c’è? Chi è che mi disturba a quest’ora del mattino?” chiese una vociaccia.
“Apri, buon uomo, te ne prego! Sono un povero pastore che ha smarrito le sue pecore, ho passato la notte all’addiaccio e ho tanta fame.”
“Se sei un pastore e hai perso le pecore peggio per te, vuol dire che non ne sei degno. Vattene, o ti mando contro il mio cane che ha più fame di te!”
“Almeno dimmi: per caso hai visto le mie pecorelle? Un bel gregge di pecore grasse e lanose, che belano dolcemente e  sono più tenere di un fiorellino?”
“Non ho visto niente di tutto ciò, qui non son passati né pecore né lupi ma a voler esser precisi forse più lupi che pecore. Avevano due gambe e grosse spade al fianco. Guardati da loro, è tutto ciò che posso dirti. E ora addio”.
Il povero Arturo capì che lì non c’era nulla da fare e si riprese la via del castello, cercando qua e là qualche radice da rosicchiare.
Per la gran fame quasi non ci vedeva più e procedeva a stento, con passi lenti e incerti.
“Chissà se qualcuno è tornato” si chiese quando fu in vista del maniero.
Per tornati erano tornati, dove mai fossero stati questo restò un mistero.
Tutti gli fecero mille feste, non sospettavano certo che fosse fuggito di nascosto al re.
Arturo ebbe da mangiare e da dormire nel lusso del suo bel lettino, prima però volle vedere le sue amate pecorelle che, guarda un po’, erano tornate anche loro e dormivano beatamente nel recinto.
“Mie piccole, domani all’alba sarò qui e insieme andremo via. Dormite, ora, che ci sarà camminare a lungo, domani”.
La mattina seguente, di buonissima ora, Arturo si svegliò, prese con sé quel che poteva per mangiare e vestirsi, un cavallo per andar più veloce  e andò dalle sue pecore.
Aprì il recinto e le fece uscire una ad una ma quelle, che sempre lo avevano seguito, ora quasi non volevano saperne di andargli dietro. Ci volle del buono e del bello per convincerle.
Quando finalmente si decisero il sole era già alto all’orizzonte e una guardia lo vide.
“Ohilà, che fai con quelle pecore?” gli gridò, ma Arturo ormai era in groppa al suo puledro e galoppava via veloce, mandando avanti il gregge che adesso correva più di lui.
Gli armigeri si gettarono al suo inseguimento come cani contro la lepre ma il pastorello aveva  un bel vantaggio: prese una via che a cavallo c’era di che rompersi il collo, le guardie invece rimasero bloccate e furono costrette a tornare indietro per prendere una strada più agevole.
Intanto Arturo si era inoltrato nel bosco e beato chi l’acchiappava!
Fuori dal boschetto si apriva una radura più verde del verde in primavera, piacque molto alle sue pecore e siccome quello che piaceva alle sue pecore piaceva anche a lui, si fermò e le lasciò brucare in santa pace mentre lui suonava lo zufolo.
Quando furono satolle Arturo le portò via di là  perché gli armigeri del re potevano raggiungerli da un momento all’altro e di sicuro non c’era da scherzare.
Un torrente attraversava la campagna, il pastore si fermò a bere un sorso d’acqua: non l’avesse mai fatto! Anche un minuto può essere prezioso quando c’è tutto un esercito a cercarti.
Arturo se li trovò addosso all’improvviso, non poté fare nulla, solo arrendersi e farsi mettere le catene a mani e piedi.
Procedevano veloci, malgrado il gregge e Arturo incatenato, erano quasi arrivati quando il cielo si oscurò all’improvviso e scoppiò un brutto temporale. Il più violento che si fosse mai visto da quelle parti.
Si scatenò come una furia, e il bello fu che si accaniva solo su di loro, intorno tutto era luce e pace, e il cielo era azzurro.
“Com’è possibile? Che magia è questa?” si chiedevano quei soldati, sgomenti.
Non riuscivano quasi a camminare, tanto era forte quella pioggia, un uragano di vento e acqua che li seguiva senza dare tregua.
“Signore, “ disse un soldato al capitano,” qui c’è di mezzo il pastore, ne sono certo. Che sia un mago? Lasciamolo andare, o non ne caveremo le gambe.”
“Lasciarlo andare? Sei impazzito? Se lo viene a sapere sua maestà ci fa ammazzare tutti! Andiamo avanti, il castello non è lontano, lì saremo al sicuro”.
In quello stesso istante un fulmine colpì lo scudo e l’alabarda del capitano in persona, che cadde  a terra e per poco non morì.
“Ohi, ohi, ohi!” si lamentava il poveraccio.” Forse hai ragione, meglio rischiare domani  il castigo del re che una morte certa subito. Guardie, liberate il prigioniero e le sue stramaledette pecore!”
Arturo fu subito liberato e scacciato malamente insieme al gregge;  il cielo si rischiarò in un baleno, perfino la terra apparve asciutta, come se non fosse caduta neanche neanche una goccia di pioggia.
Il pastorello prese molto volentieri la via della fuga, questa volta con la benedizione delle guardie che di certo non l’avrebbero inseguito.
Cammina cammina arrivò dove voleva arrivare, un posto che sapeva solo lui, dove le pecore avrebbero avuto di che mangiare e star contente e lui  zufolato in libertà, senza obbedire più a nessun comando.
Il suono che gli uscì...ah, che delizia!
“Ecco, questa è la tua musica! Ora non perderti mai più, ragazzo mio!” disse una voce che sembrava d’oltretomba.
“Chi sei? Che vuoi?” chiese il pastore roteando gli occhi.
“Sono lo spirito  del tuo zufolo, e ora posso riposare. A me devi la salvezza: io sono il fungo e anche il temporale. Senza di me saresti morto mille volte, ricordalo, e non cadere mai più in tentazione, non gettare per le monete il tuo talento. Coraggio, dunque! E sii felice, amico mio.”
“Ma sei un mago?”
“Come se lo fossi. E ora addio”.
La voce scomparve e non tornò mai più, da allora in poi la musica di Arturo fu la più dolce, la più armoniosa che si fosse mai sentita; nella campagna attorno si spargeva come un olio che cura le ferite.
 I fiori crescevano, le messi erano rigogliose, i contadini lavoravano contenti  “Per carità, suona ancora” gli chiedevano.
E lui suonava, suonava,  trovando sempre nuove melodie.


mercoledì 8 agosto 2018

Tieck, un romanticismo da fiaba

Johann Ludwig Tieck, (Berlino, 31 maggio 1773 - Berlino, 28 aprile 1853):un altro illustre frequentatore del mondo delle fiabe che vi consiglio di conoscere, se ancora non lo avete incontrato lungo il vostro cammino.
Tieck è stato un importante esponente del romanticismo tedesco.
Poeta, scrittore, editore e traduttore, la sua ricca produzione letteraria si caratterizza soprattutto per la molteplicità dei generi, fra i quali la fiaba spicca per originalità e poesia.
La raccolta di fiabe e opere teatrali, Phantasus, della quale fa parte anche il dramma fiabesco Fortunat, suscitarono un profondo interesse fra i suoi lettori. 
Fiabe e racconti come Der getreue EckartDie ElfenDer Pokal o Der blonde Eckbert , infatti, rimasero a lungo fra  i testi più apprezzati per il loro valore poetico.
Le sue fiabe sono un viaggio affascinante nel mondo irreale, onirico di questo scrittore poliedrico, un tuffo nel mare tempestoso del romanticismo ancora oggi capace di affascinare chi vi si avventura.





sabato 4 agosto 2018

L'albero - quando la natura vince



Quando la natura vince...





L’albero
Barbara Cerrone


C’era una volta un bellissimo albero che aveva molti anni ma era ancora in gamba, e viveva felice nel bosco insieme ai suoi fratelli verdi.
Un brutto giorno il principe del luogo ordinò ai suoi boscaioli di abbattere cinque dei suoi fratelli  per farne legna da portare al castello, scegliessero loro quali.
I boscaioli decisero di tagliare i più vecchi: fra questi ultimi c’era anche il nostro bell’albero che lì per lì sentì le foglie sbiancarsi dalla paura.
“Lasciatemi, lasciatemi! Non voglio morire!” gridava mentre gli colpivano il tronco con la scure  ma i boscaioli non potevano sentirlo, e continuavano a colpire senza fermarsi.
Finito il lavoro quella brava gente caricò i tronchi sul carro e li portò al castello.
“Bene, siete stati solerti come sempre, “disse il re,” una ricompensa vi attende, miei fedeli. Adesso però consegnate tutto al mio spaccalegna e andate a casa a riposarvi.”
Lo spaccalegna era un omone grande e grosso che era a servizio del re da dieci lustri, prese il legname e cominciò subito a farne pezzi da metter nei camini delle stanze reali.
Il re, però, era giovane e capriccioso, gli venne in mente che la regina, più capricciosa di lui, voleva un nuovo tavolino per la sua camera da letto perché si era stancata di  quello che  aveva, andò dallo spaccalegna e gli disse:
“Aspetta, la mia regina vuole un nuovo tavolinetto e quel legname sembra proprio adatto, perciò lascia uno dei tronchi per il falegname e portaglielo affinché accontenti la mia sposa”.
Lo spaccalegna si inchinò alla volontà del suo re e portò subito il tronco più bello al falegname.
Non lo indovinate? Eh, sì! Il tronco scelto era proprio quello del nostro albero.
Il falegname in quattro e quattr’otto fece un tavolino che era le sette meraviglie: intarsi come ricami ne impreziosivano il piano e le gambe, tornite e levigate, erano un capolavoro di eleganza.
“Ecco fatto, “disse quel bravo artigiano consegnandolo al re in persona,” questo è il più bel tavolino che sia uscito dalle mie mani. Spero che la vostra maestà ne sia soddisfatta.”
Il sovrano lo mostrò subito ala regina che ne fu entusiasta e lo fece portare subito in camera sua.
Tutti felici e contenti, dunque? Tutti, tranne il povero tavolino che non voleva rinunciare ad essere un albero e a vivere nel bosco, fra il verde e i fiori.
Dopo qualche mese la regina si era già stancata anche di quel tavolino nuovo.
“Uffa, sposo mio, questo tavolino mi annoia, fatene legname da ardere, e dite al vostro falegname che ne voglio uno nuovo” disse quella svampita al re, che subito volle accontentarla.
Venne uno dei servitori a prendere il mobile da bruciare ma quando lo sollevò si accorse che sul piano del tavolo c’era qualcosa.
“Uh, e che cos’è questo?” disse il servitore.”Ah, ecco: un filo d’erba. Chissà come c’è arrivato? Magari sì è impigliato nelle vesti della regina quando è andata in giardino. Ora lo tolgo.”
Fece per prenderlo ma si accorse che quel filo d’erba non era solo appoggiato: fu costretto a tirarlo via con tutte le radici.
“Possibile?” si chiese.” L’erba che cresce sul tavolo? Mah, comunque sia adesso l’ho estirpato.”
Senza pensarci oltre gettò il filo d’erba e andò a cercar l’accetta per far di quel tavolo tanti piccoli pezzi di legno da gettar nel camino.
Non aveva fatto tre passi che di fili ne notò altri due. Tre. Quattro. Un prato d’erbetta fresca copriva il tavolino e non smetteva di crescere!
“Adesse ci mancano solo le margherite!” esclamò.
E  infatti...
“NOOO! Questo legno è stregato, aiutooo!” urlò il poveretto lanciando in aria il tavolo, con tutto il prato e le margherite appena nate.
“Insomma che succede?” tuonò il re entrando nella stanza.
Quando vide il tavolo a terra prima si lagnò della pigrizia dei servitori, poi vide il prato con i fiori e gridò anche lui come un ossesso.
“Aiuto, aiuto! Un mago, presto, una fata, un...quel che vi pare, purché qualcuno venga!”
Corsero tutti: servitori, armigeri, cortigiani, perfino l’annoiata sua consorte. Tutti.
Intanto, erbetta e margherite continuavano a spuntare, fra la confusione generale.
La sciocca regina prima trovò la cosa divertente, poi però svenne, considerandolo più consono al suo ruolo.
Nessuno sapeva cosa fare, la paura era seconda solo alla meraviglia.
L’unico che non temeva nulla era proprio il tavolino.
 Le sue radici correvano sotto i nodi scuri di quel mobile elegnate, le sue foglie si specchiavano in quell’erba sottile, la sua corteccia faceva scudo ai piccoli fiori.
“Sono ancora un albero”diceva, “ e questo è il mio bosco.”
Nel frattempo il ciambellano aveva chiamato non so più quanti maghi per liberar la corte dalla stregoneria ma quelli non cavarono un ragno dal buco; lo stesso accadde con quattro fattucchiere, cinque indovini e sei astrologhi di passaggio.
Niente da fare, sul tavolo continuava a crescer l’erba a profusione.
Davanti a tanta verde ostinazione il re non sapeva più che pesci prendere, decise allora di convocare il consigliere più saggio della corte, quello che consultava nei momenti di crisi e di sventura.
“So già di che si tratta,” disse quello quando fu davanti al sovrano,” in tutta la corte non si parla d’altro. Sire, non abbiamo scelta: riportatelo nel bosco e piantatelo.”
“Che? Che? Che? Io dovrei cedere ai capricci di un tavolino?”
“No, sire, alla volontà di madre natura e del suo figlio, l’albero che avete tagliato. Riportatelo dov’era o sarà peggio per tutti noi.”
Il re storse il naso e anche la bocca, brontolò, si lamentò, chiamò la regina che fece due sbadigli e poi se ne andò senza dir parola. Fece tutto questo e molto altro ancora, poi  si rassegnò e disse:
“E sia! Chiamate i boscaioli, che lo riportino nel bosco e lo piantino, non lo voglio più in questa reggia!”
Quando il tavolino rivide  il suo bosco gli caddero lacrime di gioia giù, lungo le gambe levigate, le sue radici cominciarono a tremare e si gettarono subito a terra.
Dopo una settimana i boscaioli tornarono nel bosco a tagliar legna per i camini del palazzo, per curiosità andarono a vedere che ne era stato del tavolino e non lo trovarono: al suo posto troneggiava una quercia gigantesca che mosse piano i rami al loro passaggio.
“Guarda, ci saluta!” disse uno di loro.
“Macché! Gli alberi non salutano, non hanno anima né cervello, proprio come te” ribattè un altro.
Nessuno vide come. Io nemmeno ve lo posso dire, so solo che davanti alla quercia c’era una pozzanghera e questo tipo ci si trovò dentro, gambe all’aria, e la quercia a fargli marameo con tutti i rami.