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lunedì 22 giugno 2020

A proposito di un bel post


Ieri ho letto un post davvero toccante, risale a qualche giorno fa ed è di Sinforosa Castoro, una blogger che seguo da due anni, circa.
Racconta, Sinforosa, con grande efficacia i drammatici momenti in cui la Lombardia, (e poi tutta l'Italia) si è improvvisamente trovata sotto assedio, tenuta in scacco da un virus.
Milano che si svuota, il fuggi fuggi generale...uno scenario da incubo, così irreale da sollecitare il classico pizzico sulla guancia per accertarsi di non stare sognando.
La mia regione è stata colpita dal virus ma in modo molto meno tragico della Lombardia, ma il respiro malefico di questo incorporeo nemico pareva di sentirlo ugualmente per le vie delle nostre città, anch'esse deserte.
L'impressione era quella di essere finiti per sbaglio in un brutto film di fantascienza dal quale ci saremmo potuti svegliare presto, se solo lo avessimo voluto.
Purtroppo non era così, la realtà ci tirava per la giacca dicendoci che era tutto vero, e tutte quelle bare, quei morti, chiedevano disperatamente la nostra pietosa attenzione, le nostre preghiere.
Il nemico era invisibile, inafferrabile, eppure così potente da farci tremare, da toglierci la nostra libertà. La nostra vita.
Personalmente ho trovato molto commoventi le scene di quegli italiani che dalle finestre, dai balconi, da qualunque pertugio si offrisse loro per comunicare col mondo, cantavano, salutavano. Mantenevano un contatto. Anche in questa occasione abbiamo saputo reagire con creatività: siamo stati bravi, coraggiosi e disciplinati, nonostante qualche episodio che si può certo perdonare ad un popolo così fortemente provato.
Ieri nella mia Toscana abbiamo raggiunto quota zero contagi, tuttavia il nemico non è ancora battuto. O almeno non sappiamo se lo è, o se invece tornerà a colpirci.  Non possiamo cedere, ed è questa sensazione di tregua, non di vittoria, che ci tiene ancora il fiato sospeso.
Ora si può uscire, e questo per un po' mi dà  la sensazione di una ritrovata normalità e quasi dimentico la realtà,  poi vedo la gente indossare le mascherine nei negozi e  mi prende qualcosa allo stomaco, come una tristezza, una voglia di urlare e mi chiedo: quando sarà davvero finita?
Un medico mi ha detto tempo fa: "Niente sarà più come prima".
Ecco, io trovo questa frase sconfortante, non mi piace. Getta come una pietra tombale sul nostro futuro, sulla vittoria finale contro il nostro subdolo nemico. Preferirei sentir dire: "Niente sarà più come prima ancora per un po', finché non avremo trovato una cura efficace o il vaccino, o il virus stesso si indebolirà o..." insomma, vorrei una porta aperta alla speranza. La speranza di liberarci presto dal mostro.
Perché ce ne libereremo. 

Un affettuoso  saluto alla Lombardia e a tutti i lombardi, gente che non si arrende.





mercoledì 17 giugno 2020

Filastrocca senza memoria

Perdere la memoria, che brutta, brutta storia! Ma questo è solo un gioco e come sempre, cari, dura davvero poco!

Buona lettura


Filastrocca senza memoria

Barbara Cerrone



C’era una volta…ma chi se lo ricorda? Ho perso la memoria, nascosta nel sacchetto della mia amica Beba, l’ha messa nel cassetto e or va tutto in gloria.

“Suvvia, dammi la prova che ora non ce l’hai, che non me la nascondi per puro sciocco gioco” io dico un po’ arrabbiata alla mia amica amata.

Lei non risponde affatto, mi porta dal suo gatto, mi dice: “Ma dai, non è carino? Si chiama Guglielmino”.

Ma cosa mi racconti? Inventi mari e monti ma qui manca qualcosa e mica è una rosa! Si tratta di un tesoro prezioso come l’oro: manca la mia memoria, senza la quale, cara, non so più la mia storia.

E tu non vuoi capire, mi mostri il tuo cassetto: dentro non c’è più nulla, nemmeno il tesoretto fatto di monetine, sassetti colorati, pagine di giornali ormai mezzo strappati.

Allora lascio stare, ma tu non sei mia amica, non lo sei più per davvero. Per quanto sia sincero quel tuo gran dispiacere, non me la dai a bere: l’hai fatto certo apposta, e ora, faccia tosta, non vuoi neanche dire che ridi da morire dietro quel tuo visino da dolce angiolino.

Faccio per andar via ma ecco che mi chiami…allora tu mi ami?  Mi vuoi bene davvero? Ed è bene sincero? Come a una sorella, pure se non son bella e porto dei vestiti che sono un po’ sdruciti?

 Che dici? La memoria l’hai messa in cassaforte? Temevi per davvero per la sua bella sorte? Mi sembra esagerato, ma ti ringrazio assai, e ora vai a prenderla: sai la combinazione? Portamela qui subito, che ho l’interrogazione e devo ricordare il mare che da sempre bagna le nostre spiagge, come si chiama, uffa? Memoria che ha la muffa!

Su, sbrigati, veloce, che poi ad una voce andremo noi a cantare canzoni vecchie e nuove, abbiam fatto le prove davanti alla stazione e nella confusione abbiamo già capito che oramai è finito quello che è cominciato, non si sa più da dove.

 


domenica 14 giugno 2020

Fiori di pietra



Quando l'affetto vince anche il più terribile degli incantesimi...

Buona lettura


Fiori di pietra

 Barbara Cerrone

 

 

 

 

L’inverno si era rifatto vivo, in paese, crudo e cattivo come se fosse appena cominciato.

“Stai a vedere che adesso nevica” disse la madre sbattendo le uova.

Gemma sorrise: come poteva nevicare in pieno mese di maggio? Sua madre esagerava. Era solo un capriccio momentaneo del tempo e poi sarebbe tornato il caldo, lo aveva sentito alla televisione.

“No, mamma, non nevicherà. Farà solo un po’ più freddo, per qualche giorno, e poi ci sarà di nuovo il sole.”

“Uhm, eppure una volta è successo, sì, la neve a maggio…ero una ragazzina. Che rabbia! Avevo già messo la maglietta con le maniche corte. Se ora fa uno scherzo del genere poveri i miei fiori!”

Gemma sorrise di nuovo. Per la madre i fiori erano come altri figli, ci teneva tanto; li coccolava; li curava; le ore più belle della sua giornata le passava in giardino, a parlare con le piante.

“Non nevicherà, mamma, e i tuoi fiori staranno benissimo”.

Le parve che a quelle parole il viso di sua madre si distendesse, come se avesse avuto solo bisogno di essere rassicurata. La vide gettare all'indietro la testa per scostare i riccioli scuri dalla fronte mentre accennava un sorriso.

Gemma riprese a fare i compiti, la mamma infornò il dolce che avrebbe servito a cena.

Verso sera tornò anche il padre di Gemma. Era stanco, aveva avuto una brutta giornata e non voleva quasi parlare.

Gemma gli ronzò intorno per un po’, tentò di raccontargli della mamma e della sua paura che nevicasse ma lui era distratto e non sembrava disposto ad ascoltarla.

Capita agli adulti di essere troppo stanchi, Gemma lo sapeva e non se la prese troppo. Avrebbe parlato con il padre la mattina dopo, con una bella notte di sonno sarebbe stato più disponibile.

La cena fu particolarmente buona, quella sera, c’erano i piatti che a Gemma piacevano di più e la torta, che era da leccarsi i baffi.  Poteva andare a dormire soddisfatta, magari dopo un po’ di tv e le solite coccole a Teo, il gatto.

Il giorno dopo un insolito chiarore la svegliò prima del solito. Si affacciò alla finestra: neve! Fuori il giardino era tutto imbiancato.

“Mamma, mamma, hai visto?” Disse correndo in cucina. “La neve! La neve a maggio, mamma.”

“Che ti avevo detto? Sono cose che possono succedere. Io me lo sentivo, ieri, e poi il meteo aveva parlato di precipitazioni nevose a bassa quota. Però, i miei poveri fiori! Dovrò coprirli per proteggerli, non vorrei che stanotte ci fosse una gelata. Questo tempo folle non si sa cosa ti può combinare.”

“Prepiciti…sì, insomma, io non avevo sentito di queste prepiticipi…come si chiamano. E ora? Chissà se chiudono la scuola.”

“Internet non funziona oggi, non posso collegarmi col sito della scuola o del comune per vedere se ci sono comunicazioni. Ora chiamo la mamma di Clotilde, lei abita vicino alla tua maestra, magari si sono già parlate.”

Gemma guardò la madre allontanarsi a caccia del telefonino che lasciava sempre in giro qua e là, e puntualmente dimenticava dove l’aveva messo.

“Pronto? Sì, Anna, sono Mara. Sai mica se con questa neve chiudono la scuola? Sì? Bene, sarà contenta Gemma. Domani poi è sabato, di andare a scuola se ne riparla lunedì.”

Gemma aveva sentito tutto e già si immaginava una giornata di pacchia a fare palle di neve con Michela, la sua migliore amica.

Andò a lavarsi di gran carriera, come non faceva mai quando doveva andare a scuola.

“Mamma, vado da Michela, così facciamo i compiti insieme e poi un pupazzo di neve, in giardino.”

“Va bene, va bene ma state attente a non cadere. E mettiti la sciarpa, che fa freddo. Ah, e gli scarponcini rossi, quelli che porti sempre quando andiamo in montagna.”

“Sì, mamma!”

Gemma uscì con le ali ai piedi per andare da Michela, la sua amica abitava a poca distanza da casa sua, in un grande appartamento al terzo piano di un tranquillo caseggiato.

I compiti, quella mattina, li fecero per davvero. D’accordo, un po’ alla svelta, ma li fecero. Poi decisero che era l’ora di andare da Gemma, in giardino, a fare il pupazzo.

A casa trovarono la mamma di Gemma intenta a coprire i fiori con il telo perché il freddo improvviso non li uccidesse.

Si misero a fare il loro pupazzo, ridendo e tirandosi palle di neve. Come si divertirono!

Mentre giocavano così una strana donna passò per la strada, indossava una specie di palandrana nera e aveva un cappello grigio dal quale spiovevano lunghi capelli bianchi e arruffati. Con fare misterioso di avvicinò al cancello, Gemma e Michela ne furono quasi spaventate.

“Vi divertite, eh, bambine? Eh, questo è un paese pieno di gente allegra. Si sta bene in questo posto, vero? Sì, ma non sarà per molto!” disse la donna con una risataccia acida che avrebbe fatto venire i brividi al più coraggioso degli eroi, e poi si allontanò in gran fretta, guardandosi attorno come se avesse paura di essere inseguita

Le bambine si guardarono negli occhi: che fosse una pazza, quella strana donna?

Gemma avrebbe voluto correre subito dalla mamma per parlarle di quello strano incontro ma Michela, che non aveva voglia di tornare a casa, l’aveva fermata e, portando il dito indice alla tempia, le aveva fatto capire che quella donna doveva essere matta e non bisognava badarle. Meglio continuare a giocare.

 

Il pomeriggio passò veloce, fecero un bellissimo pupazzo e poi l’amica tornò felice a casa sua, Gemma rientrò in casa per la cena e andò a letto presto, perché fra una cosa e l’altra si era stancata un bel po’.

Durante la notte fece strani sogni e la mattina seguente si svegliò piuttosto agitata.

Come faceva ogni giorno, per prima cosa si diresse verso la cucina per salutare la mamma che, come sempre, a quell’ora preparava la colazione.  Passando lanciò un’occhiata veloce alla finestra: quello che vide la lasciò di sasso.

Il giardino, il suo bel giardino pieno di fiori, ora era un cumulo di sassi. La neve era scomparsa, la terra, arida, senza un filo d’erba, dava a tutto l’insieme l’aspetto di un deserto.

“Mamma, mamma! Hai visto? Il nostro giardino…” gridò correndo in cucina.

Ma la mamma non c’era, anzi, in casa sembrava non ci fosse nessuno, tale era il silenzio che regnava ovunque.

Gemma fece il giro delle stanze, ma non trovò neppure Teo, il gatto. Tutti sembravano scomparsi.

“Forse sono a far la spesa?” si disse per rincuorarsi, anche se i suoi non andavano mai a far la spesa così presto. Quanto al gatto, poi, uscì in giardino a cercarlo ma non era nemmeno lì. Dileguato anche lui. Di certo non era nei paraggi: un gatto pigro e fifone come lui, che non aveva mai varcato la soglia del cancello…impossibile.

Si guardò intorno, il giardino-deserto le faceva quasi paura. Che cosa era successo? Le veniva da piangere, non avrebbe voluto ma le lacrime le pungevano gli occhi. Pungevano così tanto che alla fine pianse davvero.

“Mamma, papà, dove siete? Cosa è successo?” gridava, tra le lacrime.

Finalmente si fece coraggio e andò a cercare Michela, voleva vedere se almeno da lei era tutto normale.

A casa di Michela non c’era nessuno. Gemma suonò più volte il campanello ma non ebbe risposta.

Si guardò intorno: silenzio e vuoto ovunque.

“Che cosa faccio, ora? Dove vado?”

Decise di andare al negozio di alimentari della Gina, per vedere se i suoi erano lì. In ogni caso, pensava, il negozio della Gina era una specie di centro smistamento chiacchiere dove se in paese succedeva qualcosa si sapeva subito.

Con suo grande sgomento vide che anche il negozio era chiuso. La faccenda si faceva preoccupante sul serio.

Non sapendo più che fare, la bambina decise di provare con i suoi vicini, chissà che non sapessero qualcosa, e in ogni caso la potevano aiutare: era sola, la casa sembrava abbandonata e in giro nessuno che potesse dirle cosa era successo.

Prima di andare dai vicini passò da casa, per vedere ancora se per caso erano tornati i suoi, o almeno Teo si era rifatto vivo.

Il giardino, a guardarlo, era una desolazione. Ci passò in mezzo come in un campo di battaglia. C’era di che mettersi a piangere di nuovo, Gemma sentiva arrivare un fiume di lacrime dal profondo del suo cuore smarrito quando improvvisamente lo vide. Un fiore. Di pietra, sembrava…no, no, forse era sale…no! Sabbia, ecco, era sabbia. Insomma Gemma non capiva che strano tipo di fiore fosse, somigliava ad un’enorme margherita, ma le faceva così tanta impressione!

Fece per avvicinarsi quando PUF! Eccone spuntare un altro, a poca distanza dal primo.

“Quante stranezze in un giorno solo!” mormorò la piccola avvicinandosi ai fiori.

All'improvviso Gemma ebbe come un’illuminazione, si ricordò della strana donna che lei e Michela avevano visto il giorno prima.

Ripensare a quell'episodio ora, con quel mistero inspiegabile, tutta quella gente che sembrava scomparsa e quegli strani fiori le faceva venire i brividi: e se fosse stata una strega? E se avesse lanciato una maledizione sul paese, sulla sua casa? Una specie di maleficio, insomma.

Annusò entrambi i fiori.

“Buffo, “pensò, ”questo ha lo stesso profumo che indossa mamma quando esce. E quest’altro, poi…è uguale al dopobarba di papà.”

“Per forza, piccola mia, “disse una voce che conosceva bene, “sono io, la mamma! E quello è papà.”

“Mamma!” Gridò la bambina guardandosi attorno. “Dove sei? Non ti vedo.”

“Dove meno te lo aspetteresti. Qui. “

“Qui dove?”

“Il fiore, Gemma.”

“Il fiore? Vuoi dire che sei diventata un fiore?”

“Proprio così, un fiore di pietra. E lo stesso tuo padre ma lascialo stare, per ora. Sta dormendo, gli parlerai più tardi.”

“Mamma com'è possibile? Chi è stato a farvi questo?”

“E chi lo sa? Io stavo preparando la colazione, Teo stava mangiando nella sua ciotola quando…PAF! Ci siamo ritrovati così.”

“Una magia, per forza. Lo sapevo, non dovevo dar retta a Michela. Ieri sera abbiamo incontrato una  donna misteriosa, ci ha detto che ci vedeva felici ma non lo saremmo state ancora per molto. Sembrava proprio una strega.”

“Oh, figliola, non so se raccontarmelo sarebbe servito a qualcosa, che avrei potuto fare contro una strega? ”

“Ma Teo dov'è? Non vedo altri fiori, qui.”

“Lui è proprio scomparso, non si sa che fine abbia fatto, povero micio. Mi dispiace, tesoro, non so dirti altro.”

“E tutti gli altri? I nostri vicini? La gente del paese? Dove saranno?”

“Scomparsi anche loro? Poveri noi, Gemma, qui la faccenda è seria davvero”.

Madre e figlia chiacchierarono ancora un poco, poi la mamma disse a Gemma che era ora di cenare, del resto in frigo c’era di tutto e le avrebbe detto lei come e cosa preparare. Stesse pur tranquilla.

La bambina obbedì, seppure a malincuore, perché l’idea di cenare tutta sola, senza i suoi né Teo che si sdraiava sulle sue gambe le dava una grande tristezza.

“Chissà come mai solo i miei sono diventati dei fiori di pietra mentre tutti gli altri sono scomparsi. Ci sarà pure un motivo…” pensava la bambina apparecchiando la tavola vicino alla finestra per vedere i suoi genitori.

“Certo che c’è!”

Gemma si voltò, spaventata: dietro le persiane c’era lei, la strega del giorno prima.

La piccola fece un salto.

“Mamma, mamma!” gridò.

Ma che poteva fare sua madre?

“Che vuoi ancora da me? Non ti basta quello che hai fatto?” disse Gemma alla strega.

“Mi basta, mi basta. Tu chiedi perché solo i tuoi sono stati trasformati in fiori ed io voglio risponderti. Tutto il paese è scomparso. La tua gente è prigioniera nella terra della dimenticanza. Nessuno si ricorderà di quelle persone, resteranno per sempre laggiù e tu non le vedrai mai più. I tuoi, invece, li ho fatti diventare dei fiori di pietra perché tutti erano felici, in questo paese, ma tu eri la più felice di tutti. Per questo ho deciso che fossi la sola ad avere sempre qui, sotto gli occhi, i tuoi genitori in modo da non poter mai scordare come li ho trasformati.  Volevo che ti tormentassi nel vederli e soffrissi più degli altri.”

“Ma perché? Che ti ho fatto?”

“Nulla. Io odio le persone felici, e buone, come te. Io non sono né buona né felice. E ora, se permetti, torno da dove sono venuta. Buon divertimento, carina. Ah, ah, ah!”

Gemma restò senza fiato. Una cattiveria così non pensava proprio che esistesse.

Il guaio era che non sapeva come uscirne, ammesso che ci fosse una via d’uscita.

“Ci vorrebbe un mago, o una fata. E chi conosce fate o maghi? Io no di certo”.

Con questi pensieri si addormentò quella sera. Anche il lettino, come la tavola prima, lo aveva portato vicino alla finestra, così da vedere i suoi e magari mandargli un bacio, prima di dormire.

Nonostante i mille pensieri che le affollavano la mente si addormentò subito, e sognò.

Sognò la sua amica Michela, vestita di azzurro, le veniva incontro con un sorriso triste.

“Gemma, “le disse,” sono prigioniera della terra della dimenticanza, tutto il paese è con me. Resteremo per sempre laggiù se tu non ci aiuti. Pensa a noi, Gemma, ogni giorno, non ci dimenticare. Solo così possiamo sperare di tornare”.

A questo punto Gemma si svegliò, con il cuore le batteva forte.  Il messaggio della sua amica le dava nuova speranza, no, non l’avrebbe mai dimenticata! Né lei né la sua gente.

Era ancora notte fonda e si rimise a dormire.

La mattina seguente appena sveglia corse a raccontare tutto ai suoi genitori.

“Che dici, mamma? Era davvero un messaggio di Michela? O era solo un sogno?”

“Io credo di sì, “rispose la mamma,” in ogni caso non resta che aspettare questa notte. Se Michela comparirà di nuovo nel sonno, se ti parlerà ancora allora è probabile che non si tratti solo di sogni ma che sia proprio lei a comunicare con te nell'unico modo che ora le è possibile.”

“Sì, credo anch'io. E tu, papà? Cosa ne pensi?”

“Credo che tua madre abbia ragione. Bisogna aspettare stanotte, e chissà che la tua amica Michela non abbia qualche messaggio utile anche per noi”.

Il cuore di Gemma si riempì di nuova speranza, la notte, che prima le faceva paura così, tutta sola, nella casa vuota, ora le sembrava il più bel momento della giornata e non vedeva l’ora che arrivasse.

Quella sera andò a dormire prima del solito e si addormentò subito perché la giornata era stata pesante, con tutte quelle cose da fare! Ora che mamma e papà erano stati tramutati in fiori di pietra toccava a lei fare tutto, dalle pulizie alla cucina, e la sera era completamente esausta.

Dopotutto era pur sempre una bambina.

Insomma, si addormentò come un angioletto, e dopo pochi minuti il sogno arrivò.

“Gemma, sono io, Michela. Non posso stare molto, questa volta. Non mi è permesso venire a trovarti ma io ho trovato il modo: penso intensamente a te, alla casa. Tutto qui, il segreto, ma guai se la strega se ne accorge! Mi spingerà nel fondo dell’oblio e per me non ci sarà più scampo. Dunque, se vuoi farci tornare tutti devi fare lo stesso, ogni giorno. Pensa a noi, pensa al paese com’era. Mi raccomando! Ora devo andare. Non so se riuscirò a tornare, ma tu pensaci e desidera fortemente che tutto torni come prima”.

Gemma si svegliò. Questa volta non c’erano più dubbi, il messaggio veniva proprio da Michela.

Il giorno dopo ne parlò di nuovo con i genitori.

“Gemma,” disse sua madre, “adesso non ti resta che fare come dice la tua amica. Forse è la soluzione per liberare anche noi dall'incantesimo. Non resta che provare.”

“Sì, mamma. Non sarà difficile pensarvi tutti, ricordarvi com'eravate. Vi penserò giorno e notte, vedrai. Anche Teo, penserò”.

La mamma annuì, come poteva annuire un fiore, scuotendo leggermente la corolla, mentre suo padre (così almeno le parve) abbozzò un leggero sorriso. Come sorrida un fiore non so, ma lui secondo Gemma lo fece e così dolcemente che alla bambina veniva quasi da piangere pensando al volto di suo padre quando le sorrideva.

Ecco, pensa, pensa! Si diceva Gemma, e la sua mente riviveva il passato con la vividezza del presente.

Giorni e giorni così, sempre a pensare intensamente ai suoi, al suo paese, al passato insieme.

Dopo due settimane così Gemma era scoraggiata.

“Non succede niente, niente!” si sfogò un giorno con la madre.

“Bambina mia, non so che dire, eppure sembrava proprio che Michela volesse suggerirti il modo per uscire da questi guai. “

“Forse era solo un sogno, mamma”.

Già, così sembrava. Solo un sogno, e la realtà un incubo senza fine.

La bambina era disperata, ma ugualmente non smise di pensare alla vita com'era prima dell’incantesimo.

Un giorno, tornando da una bella passeggiata lungo il fiume, le venne in mente un episodio di un anno prima. Lei e Michela che facevano lo stesso tragitto, nel pomeriggio, e si fermavano a casa di Gemma per la merenda.

Ad aspettarle, sua madre, che salutava dal pianerottolo col barattolo della marmellata in mano e l’aria allegra di chi ha fatto una bella sorpresa e non vede l’ora di dirlo.

“Forza, sbrigatevi, c’è la crostata in tavola!”

Gemma si riscosse. La sua immaginazione galoppava davvero molto forte se le sembrava di sentire proprio quella frase, come un anno prima.

“Allora, lumachine, avete perso le energie sul fiume? C’è la cro-sta-ta”.

No, non era la sua immaginazione. Qualcuno stava tirandole la manica del vestito, si voltò: era Michela!

“Ma…ma…tu sei qui!” gridò.

“E dove dovrei essere, scusa? Gemma, che hai? Mi sembri strana?”

“Io, eh?”

“Sì, dai, smettila con queste scene. Tua madre ci sta chiamando. Ha fatto la crostata. Corri, io ho fame”.

Michela sembrava non ricordare nulla di quello che era accaduto. Gemma era sconvolta e felice insieme.

A casa tutto era tornato come prima, il giardino era di nuovo verde, pieno di belle piante, nessuna traccia dei fiori di pietra. Teo le corse incontro miagolando, faceva le fusa e le saliva con le zampette sui piedi, come faceva sempre. La bambina lo prese in braccio e non finiva più di fargli le coccole.

“Mamma, ti ho liberata, ce l’ho fatta. E papà? Papà dov'è?”

“Liberata? Che dici, Gemma? Su, basta con le sciocchezze, ora. Papà è in bagno, appena esce andate a lavarvi le mani. Con le mani sporche niente crostata”.

Neanche la mamma ricordava, ora era chiaro. L’unica che sapeva e avrebbe custodito in sé il segreto di quello che era accaduto era lei, Gemma. Un grosso peso, per una bambina, ma lei aveva dimostrato di essere forte e sapeva che ce l’avrebbe fatta a sopportarlo. In fondo, l’importante era che quell'incubo fosse finito.

“Ma sarà finito per sempre? E se la strega tornasse?” si chiese, tornando triste per un attimo.

“Non accadrà più, stai tranquilla” disse una vocina dietro di lei.

Si voltò. Un passerotto era sul davanzale della finestra.

“Non temere, e ascolta, “proseguì l’uccellino, “la strega è scivolata nel fossato dell’invidia, e più si arrovella, più si mangia il fegato per la rabbia più sprofonda, senza speranza di tornare. Non ti darà più fastidio, stai tranquilla. Goditi questo giorno felice, è solo il primo di tanti altri che ti aspettano. Ciao, piccola Gemma”.

E volò via, lasciando la bambina a bocca aperta.

“Gemma, allora? “Disse di nuovo la mamma. ”Michela si è già lavata le mani e sta mangiando la crostata. Vieni anche tu, dai”.

Gemma sorrise. A questo punto non le restava che obbedire.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 11 giugno 2020

Matriosca

Una storia chiama l'altra, come una matriosca ne contiene...quante? 
Ecco la mia ultima fiaba, per chi avrà voglia di leggerla.

Matriosca

Barbara Cerrone



La fata Aurelia era stanca. Aveva lavorato tanto durante l’inverno, e ora che la primavera era arrivata e il sole scaldava la terra, sentiva proprio il bisogno di prendersi una vacanza.

“Sono a pezzi. Ho bisogno di un periodo di ferie,” disse alla sua fata capo,” vorrei andare a trovare mia cugina Nasturzia. Un po’ di riposo mi farà bene, tornerò fra una settimana.”

“C’è ancora tanto lavoro ma se sei proprio stanca va bene, mi raccomando però, tra una settimana esatta ti voglio di nuovo in servizio!”

“Va bene, ci sarò”.

Fata Aurelia preparò le valigie in quattro e quattro otto, mise nella sua gabbietta il gatto Fred e saltò sulla sua carrozza alata, diretta a sud.

Fu un bel viaggio, sereno e senza contrattempi. Nasturzia l’aspettava in giardino, in mezzo agli oleandri e ai limoni fragranti.

“Benvenuta, cugina! Ti vedo un po’ sciupata, hai fatto bene a prenderti una vacanza.”

“Cara Nasturzia, lo credo bene che sono sciupata, mesi di duro lavoro senza un attimo di tregua sciuperebbero qualunque fata. Eh, ma ora starò qui, in buona compagnia e senza far niente per almeno una settimana.”

“Ben fatto. Olmina, fammi la cortesia: prendi tu le valigie di Aurelia che io ho il solito mal di schiena e non posso portare pesi”.

Olmina era l’anziana tartaruga che viveva con Nasturzia fin da cucciola. Era molto robusta e nonostante l’età si rendeva sempre utile nelle faccende di casa.

“Eccomi, eccomi. Bentornata, Aurelia. Felice di rivederti” disse Olmina caricandosi le valigie sulla corazza.

Olmina era una tartaruga di nobile famiglia. I suoi genitori provenivano da una delle casate tartarughesche più in vista della zona, vivevano nel parco della villa di proprietà degli Audibene, i più ricchi della regione che si davano un sacco di arie perché il re in persona li aveva voluti a corte in più di un’occasione.

La madre di Olmina si chiamava Eufrasia, il papà Guidalberto. Si erano sposati in tenera età ed avevano avuto subito una bella tartarughina, Olmina, appunto.

La nascita della piccola aveva reso perfetta la felicità dei giovani sposi, finché un giorno…

“Ginevra, “ disse il signor Audibene alla moglie,” il re ci ha di nuovo chiamati a corte, questa volta per sempre. Dobbiamo lasciare la villa.”

“Oh, ma che onore, che alto onore! E cosa ne faremo della casa? La venderemo?”

“Non so, vedremo. Intanto si parte, poi si vedrà.”

“ E i nostri cani? Le tartarughine?” chiese la moglie, che intanto stava già pensando a quali abiti portare con sé.

“I cani li porteremo con noi, quanto alle tartarughe…si arrangeranno. Qui hanno di che mangiare per un anno”.

Gli Audibene partirono il giorno dopo, lasciando le tartarughine al loro destino.

Il parco era grande, è vero, e c’era un bell'orto, sul retro, le tartarughe mangiarono insalata finché ce ne fu poi, dato che nessuno coltivava più l’orto perché anche la servitù se n’era andata con i padroni, di insalata non ce ne fu più nemmeno una foglia e le povere tartarughe rischiavano di morire di fame.

“Che ne sarà di noi?” chiese un giorno Eufrasia al marito.

“Non lo so, moglie mia. Ciò che più mi preoccupa è come faremo a crescere la nostra creatura. Ha bisogno di nutrirsi per crescere”.

Eufrasia e Guidalberto ci pensarono giorno e notte, alla fine decisero di chiedere aiuto alla fata Nasturzia.

La fata, generosa com’era, accolse la famigliola nel suo bel giardino, dove Eufrasia Guidalberto e la piccola Olmina furono di nuovo felici e con la pancia piena.

Quando Olmina fu adulta decise di restare con la sua amata fata, non avrebbe saputo immaginare un posto migliore per vivere.

Era anziana, ormai, ma ancora forte e volenterosa, era felice di aiutare Nasturzia quando c’era qualche lavoro pesante da fare.

L’aveva aiutata anche molti anni prima, quando avevano traslocato dalla vecchia casa a questa, più grande e accogliente.

Insieme a loro viveva anche Tebaldo, il giardiniere.

Tebaldo era un omino piccolo e curvo, timidissimo, scappava sempre quando avevano visite. Oppure si faceva rosso rosso in volto e sorrideva pieno di imbarazzo.

Era nato in un lontano villaggio, oltre il monte, oltre l’orizzonte.

I suoi erano contadini, la sua famiglia coltivava la terra da generazioni. Suo nonno Erberto aveva avuto un premio dal re in persona per l’abbondanza di messi che i suoi campi davano ogni anno. Nonna Elvira, invece, era considerata la migliore sarta del paese, perfino la regina andava da lei per farsi cucire gli abiti da gran sera.

Tebaldo aveva una sorella più giovane, Giovannina, che da piccola era una vera peste, le era molto affezionato e al suo matrimonio aveva pianto tanto per la commozione.

Il figlio di Giovannina, Guglielmo, voleva fare l’esploratore, per questo una mattina, salutati i genitori, si era imbarcato per terre lontane.

Aveva con sé pochi bagagli perché gli esploratori devono viaggiare leggeri e sapersi arrangiare alla bisogna.

Sbarcò in Asia, prima, e la esplorò in lungo e in largo. Laggiù conobbe un principe che gli offrì un passaggio sul suo vascello diretto in una terra che Guglielmo non aveva mai sentito nominare.

Scesero a terra dopo quattro mesi e ciò che vide riempì i suoi occhi di immensa meraviglia.

C’erano uccelli con ali di velluto, e mosche blu che si posavano sui fiori e discutendo con le api si caricavano un po’ di nettare sulle ali e lo succhiavano, volando qua e là.

C’erano volpi e tigri che facevano colazione con certa frutta succosa e dolce, arrampicate sugli alberi, e buoi e cavalli tutti blu, sdraiati sull'erba, a chiacchierare del più e del meno in una lingua che lui non conosceva.

C’era di che esplorare per una vita intera, e Guglielmo infatti restò lì, e ancora oggi vaga per quella terra misteriosa dove c’è sempre qualcosa da scoprire.

Laggiù ha trovato anche una compagna, sua moglie Ottavia, che percorre con lui quella terra in lungo e in largo, senza fermarsi mai.

Ottavia è bionda, piccola e sempre allegra. Per forza, viene dalla terra dei ridenti!

Dai ridenti non si conosce  la malinconia, tutti sono felici. Perfino la natura sembra che sorrida, anche quando piove.

Una volta il loro re, stufo di tutta quell'allegria, fece un editto col quale ordinava ai suoi sudditi di piangere almeno per cinque minuti al giorno. La gente eseguì ma ogni volta che cominciavano a scendere le lacrime su quelle guance abituate a sollevarsi in un sorriso ecco che a tutti scappava da ridere e il re fu costretto a ritirare l’editto: “Come non detto” disse, e tutto finì lì.

Anche Tolomeo, il mago del sorriso, proveniva dalla terra dei ridenti.

Come mago non era un gran che ma come allevatore di formiche un vero fenomeno.

Riconoscimenti, premi, coppe d’oro e d’argento…tutti lo acclamavano, perfino i re.

Le sue formiche erano le più belle, le più addestrate, le più educate del mondo intero e lui ne andava fiero, giustamente.

Anche di lei, Clorofilla, nonostante tutto.

Clorofilla era cresciuta poco, come formica sembrava più una pulce ma Tolomeo l’amava ancor di più per questo. La sua era una storia triste. Nata in una famiglia delle più illustri, educata nei migliori formicai, aveva i modi di una vera signora ma era piena di complessi perché era così piccola che spesso chi la incontrava per la prima volta faticava a capire da dove proveniva quella vocina dolce e suadente.

Clorofilla allora non diceva niente ma tornata nel suo formicaio, e di nascosto ai suoi genitori, piangeva lacrime piccole piccole, ma pur sempre lacrime.

Se ne accorse un giorno la formica Eusebia, vecchia nutrice di Clorofilla, e le parlò.

“Piccina mia, che hai da piangere? Sei una formica fortunata, hai tutto quel che si può desiderare.”

“Nutrice mia, lo so,” rispose Clorofilla tra le lacrime, ”è che sono troppo piccola, quasi non mi si vede. Le altre non sono come me.”

“Piccina mia, non piangere per questo, credi che a volte esser piccoli e non esser visti può tramutarsi in una gran fortuna. Per esempio un certo umano di nome Pollicino ne ebbe gran vantaggio”.

E gli narrò la storia che tutti conoscete, di Pollicino e di come se la cavò.

La storia consolò un poco la piccina, soltanto un poco, ma ciò bastò a farla smettere di piangere.

E quando Tolomeo partecipò ad una gara di formiche in terra  straniera, che per l’appunto era il paese dove viveva la nostra Aurelia, Clorofilla decise di lasciare il formicaio e di restare nel suo bel giardino dove formiche non ce n’erano ancora e i confronti con le altre non si potevano fare.

Fu così che Clorofilla divenne la formica di Aurelia, una formica senza formicaio.

Fata Aurelia la portava sempre con sé, anche in vacanza. 

Dormivano insieme, ora, nel lettone della bella stanza che Nasturzia aveva preparato per loro.

Un buon riposo, ecco che ci voleva per Aurelia, che dormì a lungo, per una settimana.

Fra un sonno e l’altro prendeva il tè con la sua buona amica, e chiacchierava del più e del meno nel suo giardino pieno di fiori.

La bella vacanza passò in un attimo, si sa che volano sempre via veloci, i giorni, in questi casi!

Aurelia fece ritorno a casa,  Clorofilla in tasca, ben riposata e pronta a ricominciare.

“Aurelia, ben tornata,” l’accolse la fata capo,” giusto in tempo: abbiamo un problema. La vicina di casa…”

E sciorinò i guai più che disastrosi della vicina e di molti altri ancora. C’erano un mare di interventi fatistici da fare, le vacanze erano ormai lontane.

Aurelia si rimise subito al lavoro, e la nostra storia, come le sue vacanze, ora è finita.

 

 

 

 

 

 

 

 


martedì 2 giugno 2020

Pronto soccorso tartarughe




 Non siamo nel magico mondo delle fiabe, questa è una splendida realtà! 

Il sito dell'ANSA riporta oggi questa bella notizia: nel ferrarese è nato il "pronto soccorso" per tartarughe marine, gestito dall'associazione di biologi marini Tao Turtle of the Adriatic Organization, in collaborazione con il centro ricerche Cestha.

 Un centro di primo soccorso che accoglie gli esemplari  feriti o in difficoltà che vengono successivamente esaminati per verificare che non abbiano patologie gravi. Se l'animale è sano e non richiede una degenza si procede alla marcatura e viene  reimmesso in mare, se invece il caso è serio, la tartaruga viene trasferita al centro di terapia più vicino, che in questo caso è il centro di riabilitazione di Marina di Ravenna.

Creature affascinanti, arcaiche, le tartarughe, auguri di buon lavoro ai biologi marini dell'associazione Tao Turtle of The Adriatic Organisation!


Elena


Questo racconto, in fondo,  ha il sapore di una fiaba. 

Qualunque riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale, ecc.,ecc.

Buona lettura.




Elena

 Barbara Cerrone

 

 

 

Elena era molto devota alla Madonna; la pregava ogni giorno, mattina e sera; la pregava quando si alzava, quando si metteva a tavola e quando andava a dormire. Tutti in paese conoscevano la sua devozione, tutti l’ammiravano, dicevano:

“Eh! Com'è pia Elena, come prega sempre la Madonna! Bisognerebbe prendere esempio”.

Però l’esempio non lo prendevano mai. Piuttosto si rincorrevano le bestemmie, fra i vicoli sporchi e le case color della polvere.

Eppure Elena viveva in una di quelle case, camminava in uno di quei vicoli e anziché bestemmiare lei pregava: vai a capire cosa passa nella testa di uomini e donne che percorrono le stesse vie ma non fanno lo stesso percorso.

Di mestiere faceva la ricamatrice; ricami che erano pitture uscivano fuori da quelle mani svelte, inossate e stanche come quelle di una vecchia. Lei però non era proprio vecchia, galleggiava con grazia in quell'età mediana che vede già dei segni spargersi come petali sul viso, non ancora profondi e non definitivi, come appoggiati lì a caso da una mano distratta.

Non era nemmeno una santa, solo una donna che aveva molta fede, tutti però consideravano la sua condotta parente prossima della santità.

Quando passava, le donne anziane quasi si inchinavano, e se per caso non avevano ancora detto le preghiere improvvisavano qualcosa lì per lì, tanto per non essere da meno.

E del latino che il prete ammanniva dal suo altare a quella brava gente soltanto Elena prendeva anche le briciole, soltanto lei, con la sua pazienza, coglieva tutte quelle parole e le spargeva come unguento dentro l’anima.

Non erano tutti lì ad ammirarla, c’era anche qualcuno che la criticava, diceva, per esempio, che era troppo perfetta e chissà? Magari falsa. Ci fu perfino chi la paragonò ai farisei. Si valutò perfino quanta beneficenza avesse fatto, per poi concludere che non era abbastanza.

 “Ecco un difetto grosso, ecco una mancanza grave per una che si vuol dire cristiana” si mormorò dietro le persiane, senza pensare che era povera anche lei e col ricamo non sempre si pagava pranzo e cena.

Tale era il paese e tale sarà sempre; la perfezione piace fino ad un certo punto; finché non toglie il gusto e la maniera di criticare chiunque si ha davanti.

 

 

Accadde, un giorno di primavera imbiondito dal primo sole, che Elena non fosse uscita per la spesa; non era passata come al solito dalle stradine sporche, rasentando i muri e i portoni sbiaditi, né era sgusciata in chiesa come un’ombra silenziosa. Macché. Nessuno l’aveva incontrata, nessuno l’aveva vista.

Allora si mise in moto tutto quel complicato meccanismo che porta a far ricerche così, alla meglio, prima che se ne occupi chi le ricerche le sa fare per davvero.

Perfino i detrattori si diedero da fare, dato che non avevano malignità fresche di giornata da raccontare agli amici, giocando a carte dopo colazione.

A mezzogiorno una vicina prese l’iniziativa e bussò alla porta di casa sua.

Nemmeno un fiato uscì dalle finestre o dalle stanze buie. Non era in casa e non era uscita: che fosse morta? Magari nel suo letto, come una vera santa, composta, e col rosario tra le mani?

Allora si entrò in casa con la forza, ma era vuota e il letto era rifatto.  La fantasia si spinse più lontano e si pensò che un angelo dal cielo l’avesse presa e portata via. “Eh no,” si disse poi, “l’avremmo visto!”

 Si esclusero interventi superiori e si concluse che era proprio scomparsa, che si chiamassero le guardie, si denunciasse che quella donna tanto pia non si trovava più; si rintracciassero i parenti e si cercasse ovunque la figurina spiritata di Elena, la santa.

Partirono le ricerche ufficiali e si affannarono gli amici; i parenti giunsero, malvolentieri ma giunsero, dal polo opposto della regione come dall'altro mondo; nessuna novità, nessuno che l’avesse vista uscire e scappar via col fagotto sulle spalle.

Passò un mese senza risultato, si cominciò a pensare che fosse morta, magari uccisa... ma da chi? Dov'era, poi, il cadavere, per seppellirlo e dar l’eredità ai suoi parenti che fosse pure quella misera casuccia?

Di ipotesi ne furono fatte tante, nessuna, poi, risultò quella buona.

Dopo sei mesi di ricerche vane, s’interrogarono quei bravi compaesani su quanto tempo si dovesse attendere per la faccenda della morte presunta. Preghiere e messe in suffragio furono dette e celebrate ogni giorno, perfino gli atei furono visti in chiesa. Si pregava la Madonna e si invocava protezione per il paese, preda di demoni che avevano seminato la cattiveria e tolto nientemeno che una santa alla sua gente.

 

  

Il tempo poi si depose su quei giorni, come fa sempre e senza tanti riguardi. Passarono venti anni e più nessuno si ricordava di Elena, sparita senza lasciar traccia in una fresca notte di primavera.

In paese arrivavano i primi turisti, giugno splendeva di un sole già agostano, un uomo, uno straniero, andò al forno per comprare il pane; fu lì che si diffuse la notizia, fu lì che nacque la leggenda di una strana donna che l’uomo aveva visto su in collina.

 Disse che aveva i capelli bianchi, lunghi fino alle spalle e scarmigliati; disse che pascolava cinque pecore un po’ smagrite e che con loro attraversava i prati; disse che sorrideva e tra le mani aveva un rosario e che pregava, pregava senza sosta e inneggiava al Signore ad ogni passo.

Neanche un’ora era trascorsa che in ogni strada viaggiava la paura: ci si convinse che in collina c’era una pazza e bisognava stare attenti e non mandare i piccoli da soli a giocare, casomai fosse scesa in paese. Il terrore si diffuse molto presto fra quella gente indaffarata, e la tranquillità fu messa via in soffitta, come una cosa vecchia da buttare.

A qualcuno venne perfino in mente di organizzare una spedizione, una caccia per stanar la donna e semmai portarla in ospedale.

Nessuno pensò che potesse essere Elena a vagare su e giù per la collina come un fantasma.  Nessuno lo pensò, nessuno volle crederlo: troppo dimenticata perché fosse possibile tirarla fuori dalla naftalina e darle ancora forma di essere vivente.

 

Ma per la gioia dei paesani quella creatura non fu più avvistata e la spedizione non si fece mai

In breve tempo tutto tornò alla calma conosciuta.

Tutto finì come spesso finisce nel nulla della dimenticanza.

Soltanto nelle sere in cui il silenzio era un rumore capitava ci fosse qualcuno che credeva di sentire una voce cantare inni, e belati di pecore al pascolo ad accompagnarla.