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mercoledì 29 luglio 2020

L'imperatore di carta


Una breve fiaba...



L’imperatore di carta

 Barbara Cerrone

 



C’era una volta, giuro, un imperatore che invece di carne era fatto di carta. Carta preziosa, elegante, colorata ma pur sempre carta e niente più.

Dal gigantesco trono, di carta anch'esso, tuonava e minacciava contro i suoi nemici e dichiarava guerra al mondo intero. Solo per finta, certo, dopo un po’ nessuno ci credeva più.

Nel suo esercito pochi valorosi e troppi vanitosi, gente che si vantava di saper fare questo e quello: tanti leoni che poi in battaglia se la davano a gambe come conigli.

Ma che volete fare? Erano di carta pure loro, e bastava poco, un filo d’aria o una goccia d’acqua a farne una poltiglia.

Poveri eroi. Di carta, naturalmente. Come di carta, lo si è capito, erano tutti e tutto in quello stravagante paese.

Non si esponevano mai al rischio di una fiamma,  anche la pioggia era un bel problema. Erano belli, robusti, ma per natura poco coraggiosi.

E tutti, anche l’imperatore, tenevano per sé il loro pensiero. Nessuno diceva mai ciò che aveva in testa temendo che l’avversario per la gran rabbia “prendesse fuoco” e  poi li bruciasse.

A camminare se la cavavano bene, andavano sicuri e impettiti. A parte quando c’era un po’ di vento, allora li vedevi accartocciarsi,  piegarsi e torcersi come  panni nelle sapienti mani delle lavandaie.

L’imperatore su tutti. Il vento lo piegava in ogni senso, e molte volte lo trascinava con sé, spingendolo nella sua direzione.

Opposizione, l’imperatore e i suoi, non ne facevano mai. Erano carta e la carta si può piegare,  e farle prendere la forma che si vuole.

Qualcuno a volte, con le intemperie della vita, finiva in cartapesta, a far da mascherone per carnevale.

“Pazienza, “diceva allora l’imperatore, “ uno di meno da sfamare”.

Questa era tutta la sua filosofia.

E non si pensi che la carta di cui era fatto il nostro bel sovrano fosse mai stata usata per raccontare qualche verità. Se di parole avreste voluto trovare traccia, signori miei, ne avreste viste solo del tipo...come si dice? Di circostanza, sì, di queste sole era fatta la sua tempra.

Ecco dunque che ognuno in quella terra fantasmatica portava in sé le identiche parole di tutti gli altri. Copiate con diligenza e senza errori, né variazione alcuna, per carità!

Questo facevano i bravi cortigiani, i sudditi col loro imperatore e  lui stesso  con la sua coscienza, copiata come tutto il resto, senza una briciola di fantasia.


sabato 25 luglio 2020

Paroladoro

Non solo il mattino ha l'oro in bocca!

Buona lettura

Paroladoro

 Barbara Cerrone

 


Re Soldone era un pacifico e grasso re di campagna, con un bel castello, un bell'esercito, una bella scuderia, delle belle terre e una bella regina per moglie.

Era un uomo, anzi, un re felice, perché non avrebbe dovuto esserlo? Non gli mancava nulla. Diciamo che forse aveva anche troppo. Di sicuro troppo oro. Perché? Semplice. Ogni volta che parlava dalla sua bocca uscivano lingotti e se rideva o sospirava erano monete che cadevano giù come una pioggia luccicante. D’oro, s’intende.

 In questo modo si capisce bene che il nostro re si era arricchito come nessuno al mondo e la sua fortuna non cessava, perché gli bastava aprir bocca per riempir la stanza d’oro zecchino, meglio dell’Eldorado.

“Suvvia, un uomo che è una miniera!” diceva sempre la suocera, regina Umberta, quando la figlia si lamentava per qualche difettuccio del marito.

Ed era vero, Soldone come un’inesauribile miniera sfornava ricchezze a profusione, rendendo più che agiato il regno e tutta la famiglia.

Questo dono assai particolare dovrebbe far felice ogni umano, e re Soldone era felice ma…c’è sempre un ma in ogni storia, e questa non fa eccezione, cari miei.

Il fatto è che una miniera va protetta da ladri e intrusi di varia specie e natura, un re però è un uomo e proteggerlo vuol dire quasi ingabbiarlo, se si vuol star sicuri.

Soldone non poteva muovere un passo senza che tutto l’esercito lo seguisse come un sol uomo. Non poteva farsi vedere ai tornei perché c’era sempre il ladrone di turno che provava a rapirlo, e ogni volta era una bagarre.

Men che meno poteva andare in giro con la sola scorta, come tutti sovrani, perché uscire a far due passi fuori dal suo palazzo voleva dire muovere ancora una volta l’esercito intero e anche così non bastava.

Una volta che era andato a spasso con i suoi armigeri per le vigne e gli uliveti del suo regno, ci mancò poco che non scoppiasse una guerra. Il re nemico lo aspettava al varco, a truppe schierate, per tendergli un agguato e portarselo via a sputare oro come una fontana.

Eh sì, non era vita, povero re Soldone. La sua fortuna si trasformava  per lui in sfortuna, paura e prigionia. Viveva come un recluso nel suo castello, sempre temendo attacchi da ogni parte.

Di più, uno così, non solo re e potente ma anche capace di coniare oro come la zecca, di certo non poteva avere amici perché come faceva a sapere se erano sinceri o interessati solo alla splendente produzione delle sue fauci regali?

Così finiva per restare solo, e frequentare solo la famiglia, anche quella, chissà? Interessata alle monete o a lui? Soldone se lo chiedeva spesso. La regina l’aveva sposato per le sue doti umane o per l’oro che le metteva nel piatto? I cortigiani, già brutta razza di ipocriti e bugiardi, l’amavano o lo seguivano nella speranza di raccogliere qualche doblone caduto a terra quando sproloquiava?

La sua vita era tutta un dubbio, e solitudine la sua vera compagna.

Soldone non sapeva che per quel suo dono aurifero il popolo gli aveva dato un soprannome, Paroladoro, così lo chiamavano i suoi sudditi e come tale fra la gente comune era conosciuto.

Un giorno che tristezza e solitudine lo afferrarono tutte insieme Soldone  fece una pazzia.

Dopo aver udito per caso un servitore dire, spettegolando con una cameriera, che il re come uomo non piaceva a nessuno ma come forziere lo volevano tutti, re Soldone decise di sparire.

Non era facile, con tutto il codazzo che lo seguiva sempre, ma ci riuscì con la scusa più vecchia del mondo.

“Vado alla toilette,” disse alle sue guardie,” aspettatemi fuori come al solito”.

Le guardie lo attesero per un’ora intera, chiacchierando del più e del meno.

“Ué, ma si è fatto tardi!” Disse ad un certo punto il più anziano guardando la meridiana che stava proprio lì, davanti a lui.” Il re non esce: non starà mica male? Armigeri, fa d’uopo entrare con la forza”.

Ci volle del bello e del buono per buttar giù una porta che più che porta era un portone massiccio e grande che pareva fatta di roccia pura.  

Entrò per primo il fido Guidalberto, il preferito dal re. Si guardò intorno, esplorò ogni angolo: nulla.

Del re Soldone nessuna traccia.

C’era, invece, la finestrella aperta. Dava sul parco,  lato rose rampicanti, ovvero l’angolo più amato dalla regina. Meno dal re, che ogni volta si pungeva con le spine, goffo com'era in tutti i movimenti.

“E’ scappato! Il re è scappato!” gridarono all'unisono i soldati.

La regina, accompagnata dalla sua degna madre, udite le grida si precipitò.

“Che accade? Oh, povera me, che accade?” chiese facendo mostra di svenire.

“Maestà, il re è comparso. Si è involato dalla finestra. Temiamo il peggio se qualche furfante lo incontra”.

Ma il re aveva pensato anche a questo, prima di fuggire.

Nella regal toilette si era spogliato dei suoi preziosi panni e aveva indossato quelli di un servitore, rubati mentre erano stesi ad asciugare.

Correva, re Soldone, correva come una lepre inseguita dai cacciatori. Nel bosco correva, gli pareva di aver dietro mute di cani e assassini pronti a ghermirlo, invece era solo, per la prima volta nella sua vita da monarca era uscito senza nessuno al seguito.

Aveva paura ma nello stesso tempo un senso di ritrovata libertà lo faceva sentire più leggero dell’aria, e continuava a correre come se non avesse fatto altro nella vita.

Arrivò in prossimità di un villaggio, non sapeva dove si trovasse ma gli piaceva quel posto.

Decise di tentar la sorte e si avvicinò.

Scelse di bussare alla porta di una graziosa casetta circondata da un piccolo giardino.

Venne ad aprirgli un vecchio, con gli occhi grandi e azzurri come il mare e una lunga barba a incorniciargli il viso austero.

Soldone stava quasi per parlare quando all'improvviso si ricordò che aprir bocca significava lanciare oro a ripetizione  e pensò bene di fingersi muto.

Gesticolò, fece capire a segni al vecchio che non poteva parlare ed era un forestiero bisognoso di aiuto e di riparo. Si offrì per lavorare, fece il gesto della zappa e della vanga. Il vecchio capì e sorridendo lo fece entrare. In quella casa restò molto a lungo, il nostro amico, finché la storia non prese un’altra piega.

 

 Erano passati dieci anni dalla fuga di re Soldone, a corte lo avevano cercato per mari e monti, avevano inviato messi e banditori ovunque ma del sovrano Paroladoro neanche l’ombra.

Nel frattempo la regina, dopo un ragionevole lasso di tempo, spinta dai consiglieri  decise che ormai era tempo di dichiarare la morte presunta del coniuge e si  fidanzò con un nobile del luogo. Certo, non sputava oro dalla bocca ma era ricco, di nobile lignaggio e suvvia! Poteva bene fare il re.

Il futuro sovrano si chiamava Erberto, era alto e robusto come una roccia e alla regina incuteva una certa soggezione.

“Poco male, “ sentenziava la madre soddisfatta,” è così viziata la mia figliola che un po’ di soggezione le gioverà”.

Soldone non sapeva nulla di quanto stava accadendo nel suo regno, continuava a fingere di essere muto ed era finalmente in pace, ora. Tutti lo amavano e lui era certo che fosse per le sue qualità, per l’uomo che era e non per l’oro. In più era libero come l’aria, andava dove voleva solo soletto senza temere agguati.

Certo, il suo paese gli mancava,  sentiva nostalgia della sua pur petulante moglie, perfino della suocera a volte. Gli mancava il suo cane Artemidoro, il paggio Eustachio, la servitù e anche il suo bel letto morbido. Tutto, insomma.

Nonostante ciò, gli bastava ripensare alla sua prigionia, all'esercito che lo seguiva ovunque, ai dubbi sulla sincerità di affetti e amicizie per non rimpiangere più il passato ed essere più  felice che mai della sua nuova vita.

E avrebbe continuato a godere della sua felicità se non fosse stato per fra’ Guglielmo.

Sant'uomo, per carità, ma doveva proprio passare da quel villaggio per raggiungere il santuario?

Fra’ Guglielmo era un frate del grande convento che si trovava nel regno di Soldone, abbarbicato su un cocuzzolo e famoso per il miele dolcissimo che quei frati operosi ricavavano con pazienza dai loro alveari. Era partito per un pellegrinaggio al santuario che si trovava proprio nel villaggio dove ora viveva Soldone.

A piedi e con i sandali nuovi di zecca, quel martedì di luglio era già in vista della meta quando notò un uomo curvo sulla zappa che intento a lavorare in un orticello.

“Ma quell'uomo somiglia…come una goccia d’acqua. Incredibile! Ma no, non può essere lui”.

Fece per passare oltre ma qualcosa dentro lo indusse a fermarsi per parlare con lo zappatore.

“Buon uomo, buongiorno a voi. Una domanda: è questa la strada per il santuario?”

Soldone, perché era lui l’uomo curvo sulla zappa, appena sollevò la testa lo riconobbe e trasalì. Di bianche e rosse che erano le sue guance si fecero pallide e gelide come la neve. Gli veniva da balbettare ma non poteva aprire bocca perché gli sarebbe uscito l’oro, come al solito, e il frate avrebbe avuto la certezza di essere davanti al suo re.

Decise di continuare la finzione. Fece segno di non poter parlare,  chinò di nuovo il capo e si rimise di buona lena a zappare, facendo finta di niente.

Eh, ma a volte certe bugie hanno le gambe davvero corte.

Fra’ Guglielmo lì per lì si convinse che si trattasse di un caso, una somiglianza eccezionale e di certo se ne sarebbe andato senza pensare più a quell'incontro se non fosse stato per una gocciolina di saliva che vide scendere dalla bocca semiaperta dello zappatore.

Quella goccia luccicava come l’oro, anzi, era oro!

Soldone non se n’era accorto e continuava il suo lavoro senza badare a Guglielmo.

“Sire, ora non ho più dubbi,” disse di nuovo il frate avvicinandosi,” ma ditemi, perché negate di essere il mio re? E come mai zappate un orticello?”

Il re, vistosi scoperto, si decise a raccontare tutta la storia.

“Vi capisco, “ fece il frate, “tuttavia il vostro regno vi reclama, vostra moglie ha scelto un nuovo marito, neanche questo vi interessa? Suvvia, fatevi coraggio e tornate ai vostri doveri, perché di doveri si tratta. Ognuno di noi ha i suoi pesi da portare, i vostri in fondo li vorrebbero in tanti, non credete? Di certo chi non ha il pane per mangiare! Al mio ritorno dal santuario mi fermerò di nuovo qui e spero vogliate tornare a casa con me”.

Con queste parole fra’ Guglielmo si congedò dal re e riprese il cammino, lasciando Soldone ai suoi pensieri.

Passò una settimana. Ne passarono due. Del frate nemmeno l’ombra.

Soldone cominciava a preoccuparsi. Non era certo ansioso di tornare a casa, né gli piaceva deludere con un rifiuto quel bravo frate che lo consigliava per il suo bene ma lo rispettava, nutriva per lui un sincero affetto, avrebbe voluto rivederlo al più presto passare di nuovo da lì sano e salvo.

Cos'era accaduto? Il buon frate si era ammalato e ora giaceva in un letto, ospite del convento del villaggio.

Soldone non lo sapeva, lo seppero i  confratelli ai quali Guglielmo aveva inviato una missiva per informarli.

I fraticelli non si fecero attendere. Dopo qualche giorno ne arrivarono tre, per far visita al povero Guglielmo e accompagnarlo nel viaggio di ritorno non appena fosse stato in grado di alzarsi.

E allora indovinate. Anche loro  videro il re e non ci fu più modo di tergiversare.

Dopo una settimana Soldone tornò a casa,  in groppa ad un asino, dono del villaggio.

La regina sua moglie, dopo una serie di malori e svenimenti, liquidò in fretta e furia il promesso sposo, perdonò il marito e riprese la sua vita di regina così come Soldone riprese a fare il re, monete comprese.

Il ritorno alla sua vecchia vita, però, lo rese molto infelice.

Non faceva che pensare al villaggio, alla serenità di quella vita libera e sicura, senza dobloni che gli uscivano dalla bocca né ladri pronti a derubarlo, con tanti amici sinceri e un pezzo di pane e formaggio guadagnato col sudore della fronte.

Tanto ci pensò e tanto rimpianse che un giorno cadde ammalato.

Aveva una febbre da cavallo, delirava e nel delirio cercava la sua zappa.

“Povero marito mio, è grave assai se cerca una volgare zappa!” si lamentava la regina scuotendo il capo velato.

Per giorni e giorni in tutto il regno si temette il peggio, finché una mattina così come era venuta quella febbraccia se ne andò.

Era domenica. Soldone si alzò, e si affacciò alla finestra per salutare i sudditi come faceva sempre  quel giorno della settimana. Invano la regina lo implorò di stare attento, di riguardarsi e rimandare i saluti. Soldone non l’ascoltò.

Il popolo riunito sotto la finestra aspettava notizie del suo re, credendolo ancora ammalato. Quando lo videro in piedi sventolare sorridendo la mano come se niente fosse i loro volti si dipinsero di stupore.

Soldone prese la parola. Voleva dire alla sua gente che ora stava bene, che tutto era passato, rassicurarli e ringraziarli di essere lì.

Un discorso improvvisato, parlò a ruota libera, così, come gli veniva. Sembrava un fiume in piena, ma udite udite da quel fiume non uscì nemmeno una pepita d’oro.

“Guardate, a Paroladoro  si è esaurita la miniera in bocca!” disse un ragazzo.

E tutti gli altri gli a ripetere: “Gli si è esaurita la miniera! Gli si è esaurita la miniera!”

Soldone non si rese conto subito di quello che stava accadendo, preso com'era da tutto ciò che ancora voleva dire.

Fu il vecchio consigliere Aristide ad avvisarlo, mentre la folla sotto di loro rideva e gridava:

 “Viva il re senza l’oro! Viva il re senza l’oro!”

“Maestà, “disse, “non avete visto che le vostre frasi non son più d’oro zecchino?”

Soldone lo guardò senza capire,  poi disse una parola qualsiasi,  tanto per provare, e vide che  era proprio vero. Niente più oro, solo le frasi che il cuore a mano a mano gli dettava.

Sul momento non sapeva se essere felice o disperato, decise poi per la felicità perché così si liberava finalmente di tutti i dubbi  che l’avevano angosciato, ed era libero di essere un re come tutti gli altri.

“Sudditi, amici,” fece rivolto al popolo festante,” questo giorno sarà ricordato come una data storica. L’oro non fa più parte di me, sono libero. Del resto ne abbiamo tanto nei forzieri da bastare per qualche secolo ancora. Vi esorto a festeggiare perché io sono felice, e farò in modo che lo siate anche voi”.

La festa continuò per giorni e giorni, il re non stava nella pelle dalla gioia, si sentiva leggero come l’aria e tutti intorno a lui erano allegri per la sua allegria.

Gli amici falsi in capo a qualche giorno si dileguarono, i veri amici gli rimasero accanto, Soldone seppe così chi lo amava davvero e chi no.

Era proprio felice. E felice fu per il resto dei suoi regali giorni.

“Bernardo, “ disse un giorno il re al suo giardiniere, “ ora non mi manca che una cosa per essere davvero l’uomo più fortunato della terra. Una zappa, portami una zappa”.

Bernardo sorrise. Era abituato alle bizzarrie del re, ne aveva fatte tante che una più una meno non faceva più tanta differenza. Gli portò la zappa.

Da allora, ogni mattina e di buon’ora, chi aveva voglia di alzarsi con le galline poteva vedere il sovrano in persona zappettare contento nell'orticello del palazzo.

Il fortunato osservatore, per quanto si stropicciasse gli occhi  convinto di avere un’allucinazione, doveva arrendersi all'evidenza e ridere, se voleva, ma prender atto di avere per sovrano un grande re e un bravo, bravissimo ortolano.


lunedì 20 luglio 2020

Un triste anniversario




Ieri ricorreva il triste anniversario della strage di via D'Amelio nella quale hanno perso la vita il magistrato Paolo Borsellino e cinque agenti della sua scorta.
Un ricordo che non deve morire con loro.
Idealmente, un fiore.


sabato 4 luglio 2020

Cantonate da principi



Ecco un'altra delle mie storie, spero vi faccia buona compagnia.
A presto






Cantonate da principi

 Barbara Cerrone

 

 

Una volta un principe prese una cantonata, nulla di male, sono cose che succedono.

 Il fatto è che le cantonate dei principi possono causare molti guai al popolo. Quella volta, però, non fu così.

 

 

 

Il popolo, come al solito, era affamato, c’era stata la solita carestia, mancava il pane e anche il companatico. Tutti piangevano miseria, anche i ricchi, ma solo per evitare che i poveri gli chiedessero soldi.

Insomma, niente di nuovo per quell'epoca.

Il principe, che aveva nome Astolfo, tanto per ingannare il tempo fra una carestia e l’altra decise di muover guerra al re del paese vicino, una buona pasta di re che aveva nome Odoardo e non gli aveva mai dato grattacapi. Per vincere la noia e distrarre il popolo dal brontolio dello stomaco vuoto, lo attaccò come fosse il più feroce dei nemici.

Ed ecco allora che l’esercito si mosse con a capo il suo giovane signore, in verità senza troppa fretta, del resto perché correre visto che non c’era nemmeno il casus belli?

Quando furono in prossimità del castello nemico il capo delle guardie fece notare al principe che non era buona creanza attaccare una fortezza senza una motivazione e che bisognava proprio prendere mano a una pergamena e buttar giù due righe di spiegazione, tanto per essere in regola, e poi farla leggere al banditore prima di dare l’ordine di attacco.

Astolfo convenne che era cosa saggia e di sua mano improvvisò la nota che in poco tempo giunse sotto gli occhi del real banditore.

Fin qui tutto bene, ma il guaio c’era e venne subito a galla.

Il principe a scrivere era un gran somaro: sbagliava accenti, l’acca la dispensava dove non occorreva e la toglieva al povero verbo avere che in prima persona finiva per non avere proprio nulla e da verbo si risvegliava congiunzione, di quelle che disgiungono, direbbe un buon maestro ai suoi alunni.

Era tale la confusione dello scritto che il povero messo per un istante pensò di avere un  disturbo agli occhi che gli impediva la giusta visione.

“Udite, udite,” cominciò,” io, pricipe e reggnante del reggno qua vicino, convinto di agirre per il bene del poppolo mio, o deciso stamatina di far la guera a voi e sono qui, con armi e uomini, e vi amazo tuti se non vi arendete. Guai a voi se non fate come o deto!”

Nessuno, fra gli uomini, osò dir nulla ad Astolfo che con orgoglio ascoltò il proclama come se fosse l’opera di un poeta.

Dal castello nemico, vi stupisce? Giunsero subito delle risa e dei commenti così salati che il principe, offeso, non si preoccupò nemmeno di dar l’ordine e attaccò senz'altro la fortezza.

Il rumore delle armi prestò arrivò fino alla finestrella della giovane e bella principessa Olivia che proprio in quel momento si svegliava, circondata dalle sue damigelle.

“Ohimè, che succede?” chiese la giovane stropicciandosi gli occhi.

“Niente, “risposero quelle,” è la guerra. Il principe Astolfo attacca la fortezza.”

“Guerra? Proprio oggi che volevo fare una passeggiata a cavallo fuori le mura!”

“Principessa, “dicevano le damigelle,” è pericoloso per una bella e giovane ragazza uscire in un giorno come questo, con tutti quei nemici che si aggirano qui intorno. Vostra madre di certo non lo permetterà, e con ragione. Se vi rapiscono?”

“Uffa, io voglio uscire, e chi si è visto si è visto!” si impuntò Olivia, battendo il tacco delle sue ciabattine.

La sua ostinazione fece colare giù lacrime e lacrimoni dagli occhi delle damigelle. Niente da fare: la guerra è guerra e quando comincia per fermarla ci vogliono trattati e ambasciatori, è tutto un gioco di ti do questo se mi dai quello che certo non interessa molto a una giovane principessa che vuol soltanto fare una passeggiata.

Certe ragazze, però, sono proprio cocciute e ai loro svaghi non vogliono rinunciare.

Ecco cosa escogitò la nostra fanciullina per salvare i soliti capra e cavoli e far la sua passeggiata, in barba al principe nemico e alle improvvise guerre che rovinano la giornata a una ragazza.

A dirla tutta non fu una trovata troppo originale, l’hanno fatto tante di quelle principesse nelle favole, a teatro e perfino nei romanzi ma che volete farci? Anche nelle fiabe a volte la storia si ripete.

Forse avete indovinato? Eh, sì: si travestì da uomo. Scelse, è vero, un bel completo da nobile cavaliere che per colore si intonava con i suoi occhi celesti e con rammarico lasciò nel castello le amate scarpette rosa per infilarsi un paio di comodi, e maschili, stivaloni.

Nascose il volto nel mantello, raccolse i capelli  in un grande cappello di foggia un po’ antiquata e partì, in groppa al suo cavallo.

Le damigelle tentarono di fermarla, figuriamoci! Era come cercare di fermare il vento con una mano. Olivia scappò via, veloce che pareva un fulmine.

Si inoltrò nel bosco, infilandosi nel suo sentiero preferito, i rumori della guerra si facevano sempre più forti, lei quasi non se ne accorgeva, presa com'era dai colori della natura a primavera. 

Era così distratta da quello spettacolo che ad un certo punto si accorse di essersi perduta.

“Fedro,” disse al suo cavallo,” questa volta l’ho combinata grossa, non so più dove sono. Se non torno a casa per pranzo i miei mi chiuderanno nel castello almeno per un mese. Forza, amico mio, aiutami a ritrovare la strada di casa”.

Fedro nitrì, in segno di assenso, e prese a correre come un forsennato.

Correva talmente forte che di lì a poco disarcionò la povera Olivia.

“Ah” gridò la sfortunata ragazza.

Lì intorno, però, non c’era anima viva. Olivia non riusciva ad alzarsi per il gran dolore,  Fedro stava scappando a gran velocità e a briglie sciolte.

“Fedro, Fedro, vieni qui!” supplicava Olivia mentre il cavallo era già lontano e non la sentiva più.

Meno male che nelle fiabe la soluzione arriva sempre al momento giusto, altrimenti povera principessa!

Infatti indovinate un po’ chi passò di lì insieme a un drappello del suo esercito?

Astolfo, in fuga dall'assedio che gli era andato proprio male.

Vide Olivia a terra, avrebbe voluto andare dritto per non perder tempo ma il suo onore di principe non gli consentiva di lasciare nei guai un cavaliere, seppur nemico.

Scese da cavallo e l’aiutò ad alzarsi, ordinò alle guardie di farlo prigioniero senza  che gli torcessero neppure un capello: qualcosa in quello sguardo languido e azzurrino gli diceva che era giovane e indifeso e che proteggerlo era cosa nobile e giusta.

Olivia, naturalmente, si guardò bene dal rivelargli la sua vera identità, quando il principe le chiese chi era e cosa le era successo  inventò la prima storia che le venne in mente, mascherando più che poteva la  voce.

“Cavaliere, con sommo rammarico devo condurvi con noi,” disse Astolfo,” ci potreste servire come ostaggio, in caso il nemico ci catturasse. Passerete la notte al mio castello, domattina potrete andarvene, non vi sarà fatto alcun male. Avete la mia parola”.

Olivia ringraziò e così rassicurata affrontò le nuove traversie con animo sereno, pensando che, in fin dei conti, si trattava solo di una notte.

Frattanto Fedro, veloce come il vento, era tornato al castello.

La regina, circondata da servitori e dame, si era appena messa a tavola e già reclamava la presenza della sua scalmanata figlia, quando la sentinella giunse tutta trafelata a riferire che Fedro era rientrato senza il suo nobile fardello sulla groppa.

“Cosa sento?” fece la principessa.” Mia figlia è uscita con questa guerraccia in giro? Perché non ne sono stata informata?”

Le dame si guardarono negli occhi, nessuna aveva il coraggio di parlare, finalmente la più anziana fra loro si fece animo e disse:

“Abbiamo tentato di fermarla ma lo sapete com'è la vostra bella figlia, quando si mette in testa qualcosa...è scappata senza darci il tempo di avvertirvi. Non volevamo spaventarvi, dato che ormai era uscita. Speravamo che tornasse sana e salva”.

“Speravate?” urlò la regina.” Siete delle sciagurate e avrete quel che meritano le sventate come voi. Guardie, chiudetele per tre giorni e tre notti nelle loro stanze, che riflettano sul guaio che hanno combinato! Povera la mia bambina, chissà in quali mani si trova?”

La regina era disperata, e quando si disperava cominciava a piangere e consumava decine e decine di fazzoletti bianchi di batista. Per lei non era nulla, la lavandaia, invece...no, non distraiamoci. Torniamo nel bosco a vedere cosa combinano Astolfo e Olivia, travestita da cavaliere.

Avevano già oltrepassato il confine, la principessa più guardava il suo nemico e più constatava che aveva dei begli occhi e un portamento nobile e fiero.  Astolfo, dal canto suo, più fissava lo sguardo su quel volto di giovane uomo più lo trovava bello e pensava che se fosse stata una ragazza di sicuro se ne sarebbe innamorato.

Per scacciare questi pensieri ecco che cosa si inventò il nostro principe, convinto fosse un colpo di genio.

Astolfo aveva una sorella di nome Arianna.

Per lei si erano scomodati i più bei principi dei regni vicini e lontani senza che nessuno fosse mai riuscito a far breccia nel suo cuoricino volubile. Quei nobili signori erano stati tutti rispediti al mittente, con tante scuse e senza appello né speranza alcuna.

“E se io le proponessi questo cavaliere? Mariterei la mia capricciosa sorellina e farei la pace col nemico, visto che ormai la guerra è andata male mi conviene”.

L’idea gli sembrò così buona che non ritenne di dover perdere altro tempo.

Giunto al castello fece chiamare subito la sorella.

“Arianna,” disse accostandosi al suo orecchio, “che te ne pare di questo cavaliere? Mi sembra bello, e gentile. Di sicuro viene da una famiglia importante.”

“Uhm, “rispose quella storcendo un po’ il naso,” non è male ma fammici riflettere che oggi non sono molto disposta a fidanzarmi.”

“Tu non sei mai disposta, ecco il guaio! “

Arianna guardò di traverso fratellino e principe, poi però osservò meglio Olivia e pensò che tutto sommato non era male, anzi, era il più bel pretendente che le fosse mai capitato.

“Astolfino mio, se devono essere nozze combinate che allora siano combinate bene. Mi piace, o almeno non mi dispiace troppo. Lo sposerò, se lui mi vuole”.

Il principe non stava più nella pelle dalla gioia, avvicinò Olivia quatto quatto e provò a sondare il terreno, ovvero cercò di capire se la sua sorellina piaceva a quel bel ragazzotto.

Potete immaginare la nostra principessa, non sapeva proprio come cavarsi d’impaccio. Che fare? Dire di sì non le piaceva affatto, lei voleva un bel ragazzo, casomai. Rifiutare era pericoloso, era pur sempre prigioniera di un nemico.  E se l’avesse presa male? E se l’avesse fatta giustiziare?

“Dirò di sì, “pensò,” e poi cercherò di scappare perché se mi scoprono passo davvero un brutto guaio”.

Il principe, felicissimo, fece subito un bando (lo scrisse il ciambellano altrimenti sai che pasticci) per dar la bella notizia ai sudditi, e inviò un messo al re nemico.

Peccato che quel messo sfortuna volle fosse fatto prigioniero proprio da Odoardo, ancora a caccia di Astolfo in mezzo ai boschi del suo amato regno.

Provò, il meschino, a dire che portava la notizia di un matrimonio regale fra la principessa Arianna e il giovane figlio del re ma fu dichiarato bugiardo e incarcerato nelle segrete umide e buie del castello.

“Di quale giovane figlio parli, io ho una figlia, Olivia!” gridava Odoardo mentre i suoi armigeri buttavano via la chiave della cella.

Anche Olivia era prigioniera, chiusa nella sua camera al castello.

 “Perché non si sa mai, “pensava Astolfo,” potrebbe ripensarci e scappare, e allora addio matrimonio”.

In certi casi non si scherza mica!

Passarono tre giorni, si avvicinava la data delle nozze e del messo nessuna notizia.

“A quest’ora dovrebbe essere già qui con la risposta del re,” diceva Astolfo al suo consigliere,” gli deve essere successo qualcosa, invierò qualcun altro”.

E così fece.

Anche alla corte di Odoardo c’era grande agitazione, il re e la regina erano in ansia per la l’amata figlia scomparsa ormai da giorni.

“Mia figlia è stata rapita, ne sono certo,” disse infine il sovrano ai suoi consiglieri,” di sicuro sono stati gli uomini di Astolfo. Incaricherò uno dei miei ambasciatori di trattare la sua liberazione. Ci sarà un riscatto da pagare, immagino. E noi lo pagheremo. Tutto, pur di riavere la mia piccola Olivia”.

I consiglieri, fedeli al loro ruolo, consigliarono. E consigliarono così: che il re facesse pure, che pagasse tutto quel che voleva, purché tornasse la pace nel palazzo, e con la pace i banchetti che tanto avevano allietato il loro soggiorno a corte fino a quel momento.

E Olivia?

Sempre chiusa a chiave, che passeggiava su e giù per la stanza, studiando una via di fuga che non c’era.

“Qui la faccenda si fa parecchio seria,” mormorava,” se questi mi scoprono mi giustiziano senza che possa neanche aprir bocca. Oh, povera me in che guaio mi sono messa per uscire a cavallo con una guerra di mezzo!”

In quella, eccoti Astolfo venuto a chiederle come stava, se si trovava bene nella sua stanza, se il letto era comodo, il cuscino morbido, la vista gradevole, i pasti gustosi, la servitù gentile…uh, non la smetteva più di far domande.

“Va tutto bene, “rispose la principessa un po’ seccata,” di certo andrebbe meglio se io fossi libera di tornare dai miei per annunciare personalmente il matrimonio. E poi, diciamolo, non si è mai visto uno sposo prigioniero!”

Astolfo convenne che non era bello chiudere a chiave un promesso sposo, tuttavia esitava ancora a fidarsi.

“Non vorrei perdere un pretendente proprio ora che ho convinto mia sorella a sposarsi” disse piegando il capo.

“Ritornerò,” promise Oliva solennemente,” la mia parola è sacra, sono figlia…ehm, volevo dire…figlio di re, dopotutto”.

Astolfo tentennava, dubitava, rimuginava.

Alla fine decise che era giusto. E dai! Il figlio di un re, anche se nemico, come promesso sposo ha bene il diritto di essere libero, suvvia!

“Correrò il rischio, voglio fidarmi. Vai, e torna presto, mia sorella si è davvero invaghita di te e non sopporterebbe una tua assenza troppo a lungo”.

La principessa non se lo fece ripetere, si congedò con mille moine da Arianna e se ne andò felicemente a casa sua.

Che cos'è quella cosa che ti chiude lo stomaco anche se non hai mangiato, che ti fa volare o precipitare per uno sguardo, ti riempie il cuore di gioia o lo ferisce a morte? Come? Una freccia? Un pugno? No! L’amore!

La principessa, correndo come il vento sul cavallo di Astolfo, all'improvviso si scoprì innamorata. Non poteva far a meno di pensare che tornando dai suoi lasciava quel meraviglioso Astolfo, il più bello, il più dolce,  e va be’ anche il più asino (in fondo che importava?) dei principi. Il suo amore. Lo aveva salutato solo pochi minuti prima e già le mancava.

Ormai ne era certa, lo amava. A questo punto doveva dirgli tutto, svelargli di essere una giovane donna e non un ragazzo. Come avrebbe reagito il principe? E se non le avesse perdonato l’inganno? E se non gli fosse piaciuta?

Pensieri che l’angosciavano, non la rasserenò neppure la vista del suo amato palazzo. L’amore, cari miei, non perdona.

Olivia andò subito a confidarsi con mammà.

Quando sua madre seppe che aveva sotto il suo stesso tetto una figlia innamorata del principe nemico le si drizzarono i capelli in testa, le uscirono gli occhi dalle orbite, le si piegarono le gambe e solo dopo tutte queste scene si decise finalmente a svenire. E che! Non ci si faceva più a sopportar tutta quella manfrina.

Un volta svenuta fu necessario portarla a braccia sul suo letto (era pesante, la sovrana) dove restò per molti e molti giorni lagnandosi a gran voce del destino, della sfortuna e del cattivo cibo, colpa della nuova cuoca che in cucina proprio non ci sapeva fare.

Sentire i sospiri della figlia che arrivavano alle sue nobili orecchie fin dal giardino non l’aiutava di certo a star meglio.

A un certo punto una non ce la fa più.

“Mio re, mio sposo, Odoarduccio caro. Io sono stremata, bisogna farla sposare quella figlia o io impazzirò. Le piace quello sgallettato del principe Astolfo? Che se lo sposi e peggio per lei, vuol dire che faremo una pace speciale, di quelle che durano il tempo che durano. Fino alla luna di miele, almeno.”

“Moglie e sovrana,” rispose il re strabuzzando gli occhi,” mi interpelli solo ora per una questione di tale importanza? Perché non me l’hai detto subito? Avrei estirpato la radice del male dalla testolina della nostra bambina, giuro che l’avrei fatto. Ora temo che sia tardi, Oliviuccia è confusa e in grande agitazione. Pensavo fosse a causa del rapimento ma mi rendo conto che c’è di peggio, al mondo. Imparentarsi col nemico.”

“Andiamo, su, non vedi come soffro? Meglio assecondarla, tanto gli innamorati son come i pazzi, non ci si ragiona.”

“In questo non hai torto, moglie. Noi per fortuna siamo guariti da un pezzo e ragioniamo. E sia, che lo sposi. Un momento, però, siamo sicuri che anche lui la vuole? Ha chiesto la sua mano?”

“Uh, già, dimenticavo. Lui non sa nulla, la crede un ragazzo e vuole farle sposare la sorella.”

“Che, che? No, guarda, a questa matassa io non metto mano. Arrangiati, e fammi sapere quando avrai risolto che devo aprire il forziere per pagare le spese delle nozze e buttar giù la dichiarazione di pace “.

E se ne andò per i fatti suoi, ovvero a pesca nel laghetto del parco reale, insieme al ciambellano, al primo ministro e a quattro cani.

“Uomini! Quando ti servono se ne vanno a pesca” esclamò la sovrana alzandosi finalmente dal letto di dolore.

Intanto Olivia meditava di tornare dal suo amore.

“Ho promesso di tornare e tornerò, ma certo non come promesso sposo di Arianna. Mi mostrerò per quella che sono e sia quel che sia, non posso più nascondermi se voglio il mio Astolfo devo rischiare. Si tratta solo di sfuggire al controllo delle guardie, da quando sono stata liberata mio padre me le ha messe alle calcagna, bisogna liberarsene al più presto e poi via, dal mio amore”.

La madre la sorprese in queste elucubrazioni.

“Olivia, tesoro di tua madre, che farfugli? Devo darti una bella notizia. Tuo padre ed io abbiamo deciso di far la pace con Astolfo e per suggellarla gli concederemo la tua mano.”

“Oh, madre, grazie. Come sono felice!” cinguettò Olivia.

“Sempre che lui la voglia.”

“Uh, uh, uh!” piagnucolò la principessa, e continuò a piagnucolare tutto il giorno.

La madre però non l’ascoltava più, presa com'era dai preparativi. Eh, già, perché le nozze erano imminenti e non poteva certo farsi cogliere impreparata.

Quanto al principe, se l’avesse rifiutata, nella sua testa coronata si era già fatta strada la soluzione. Un bel processo e via.  Chiuso in una segreta, finché non si fosse ridotto a più miti consigli.

 Fu inviato un ambasciatore a proporre pace, e matrimonio a suggellarla. Portava con sé doni preziosi: oro, argento, pietre rare. Argomenti convincenti, insomma, o così pensava la regina.

Non Astolfo, che saputa la verità prese l’ambasciatore per il bavero e gli disse, con poco garbo, di tornare da dove era venuto. 

Come faceva ora a dirlo alla sorella che il suo promesso sposo era una ragazza e casomai avrebbe potuto diventare la sua sposa? Sai la confusione? Eh, no, non la passava liscia re Odoardo, e nemmeno la sua spiritosa figliola che si era presa gioco di un principe come lui, e della sua suonatissima sorella. Nossignori! Bisognava lavare l’onta con…con…con qualcosa, ecco. Ora non gli veniva in mente niente ma di sicuro un’idea per lavarla, l’onta dico, prima o poi gli sarebbe venuta.

Passeggiò lungamente nel real parco, sempre riflettendo sulla cantonata che aveva preso scambiando una principessa per un principe, e sul modo di dire alla sorella che il matrimonio non si faceva più.

Concluse che era più facile trovare un detersivo per l’onta che spiattellare la faccenda alla Ariannuccia sua.

“Glielo farò dire dal messo, lui è bravo in queste faccende. Io me la squaglio, vado da re Odoardo a dirgliene quattro e già che ci sono sistemo anche la figlia. Mi sentiranno, ah, se mi sentiranno! E soprattutto io non sentirò mia sorella”.

Fuggì di gran corsa dal palazzo, non senza prima aver istruito sul da farsi il povero messo che lì per lì non capiva, o non voleva capire. Poi Astolfo gli fece intravedere il gabbio  all'orizzonte e quello si convinse che era un piacere.

Non mise tempo in mezzo e si recò nelle principesche stanze della donzella, altrimenti detta Arianna, per darle il triste annuncio (il nostro eroe indossava prudentemente un’armatura).

Ciò che successe al messo in quell'occasione non importa. Vi basti sapere che dopo il lancio di molti oggetti, alcuni dei quali preziosi, in verità, Arianna si placò. E si placò al punto che volse gli occhioni verdi in un'altra direzione. Spuntarono cuoricini nel suo sguardo, e fu amore. Per il messo. Per chi credevate? Sai com'è, i pretendenti erano finiti, che poteva fare? Si accontentò, e poi il messo non era affatto male, proveniva da una nobile famiglia, faceva il messo così, tanto per far qualcosa, non gli piaceva la vita da signorino che conducevano gli altri giovani di rango come lui. Che dire? Un precursore. Di altri. Tempi. Perdonate le pause.

E Arianna l’abbiamo sistemata.

Ora pensiamo al prode Astolfo.

Entrò come un uragano nel palazzo di Odoardo, non si fece nemmeno annunciare.

La sala del trono era piena di ninnoli, fronzoli, pergamene, stoffe. Un bazar.

La regina era seduta in mezzo a questa confusione insieme a due damigelle e confrontava con aria da esperta alcune pezze di raso e seta. Sembrava molto indecisa.

“Regina,” esordì urlando Astolfo, “io protesto vivamente per l’affronto che mi è stato fatto dalla principessa Olivia, e voglio soddisfazione!”

“Suvvia, principe mio, che affronto ha fatto mai quella povera fanciulla? Un gioco, ecco. Si era travestita da uomo per uscire a cavallo senza troppi rischi, converrete che per una ragazza sola il mondo ha molte insidie. Che poi vi siate incontrati è stato un caso. Cosa poteva fare? Sapeva di aver davanti un nemico, ha avuto paura e non ha detto chi era veramente. Si può capire, no?”

“Sì, ma…” balbettò il ragazzo che già non trovava più argomenti per attaccare.

“Che succede qui?” chiese la principessa Olivia, accorsa alle sue grida.

“Succede che…che…che?” borbottò Astolfo, confuso.

La principessa aveva i lunghi capelli color carota sciolti sulle spalle e un vestito azzurro come il colore dei suoi occhi. Un’apparizione. Il colpo di fulmine era nell'aria, la freccia di Cupido pronta ad uscire dalla faretra. Insomma, con uno sguardo Astolfo si innamorò.

Olivia vide il principe e diventò tutta rossa, il che donò al suo viso l’aspetto fresco di un pomodoro maturo.

“Principessa Olivia io…” riuscì solo a dire Astolfo, il resto della frase gli morì in gola per l’emozione.

“Via, ragazzi, si vede bene che siete fatti l’una per l’altro. Il principe è venuto qui di persona per chieder la tua mano, non è vero?” disse la madre strizzando l’occhio al futuro genero.

“Sì, ecco, io stavo appunto parlando alla regina madre di questa mia intenzione”.

Olivia svenne.

Oh, sì ma rinvenne quasi subito, e in un istante fu con la madre a sceglier stoffe, damigelle e menu per il gran giorno.

Astolfo per il momento fu lasciato a tirar dadi con un paggio, in quel momento Olivia non se ne poteva occupare, aveva una cerimonia da organizzare.

Per lui ci sarebbe stato tanto tempo. Tutto il tempo di un lungo matrimonio.

Bene, abbiamo finito, credo. No, che sbadata, scusate!

 Dimenticavo:

 e vissero felici e contenti!