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giovedì 6 agosto 2020

Cincischia


Si può cercare di correggere la propria natura ma fino ad un certo punto. Non tutti, poi, ci riescono. Il nostro Cincischia, per esempio...

buona lettura


Cincischia

Barbara Cerrone




Cincischia era un mendicante che andava qua e là, in giro per le strade di un borgo antico e bello che ora non c’è più ma quando c’era vi assicuro che era splendente come il sole in pieno agosto e anche di più.

Il nome glielo avevano dato gli abitanti di quel paese dove lui era capitato per caso,  come piovuto dal cielo una mattina di novembre, col sacco in spalla e i panni logori e sporchi di fuliggine.

Non aveva né soldi né mestiere, non si sapeva da dove veniva e a dire il vero non lo sapeva neanche lui.

Dov'era nato? Quanti anni aveva? Misteri che non si potevano risolvere, del resto a lui non importava e nemmeno a quella brava gente che lo aiutava come poteva, visto che la fame visitava spesso anche le loro case.

D'estate dormiva sotto il porticato della chiesa, d’inverno il prete gli faceva la carità di farlo entrare nella stanzuccia buia che dava sul cortile, una specie di ripostiglio ben ordinato e di certo più pulito delle strade che Cincischia bazzicava sdraiandosi a schiacciare pisolini dove capitava.

Viveva così, quel mendicante che aveva un leggero accento straniero e zoppicava, a volte, a causa di una maledetta sciatica che lo tormentava.

Quel nome se l'era guadagnato a furia di perder tempo, nessuno sapeva perder tempo come Cincischia! Era pur vero, del resto, che non aveva nulla da fare e non c’era motivo di correre per vagare come un ectoplasma di viuzza in viuzza a mendicare. Ma quando Monna Gioconda lo chiamava alla finestra per dargli un avanzuccio della sua mensa che avreste fatto voi se come lui aveste avuto uno stomaco vuoto da due giorni? Sareste corsi come topolini verso il formaggio per catturare quelle poche briciole di cibo, giusto? Lui invece prima si dondolava su quel corpo lungo e magro, si grattava il capo, volgeva gli occhi verso la finestra della donna, di nuovo si guardava intorno…si cincischiava, insomma. Finché Monna Gioconda non perdeva la pazienza e gridava con quanto fiato aveva in corpo che se non si si sbrigava quella pappa sarebbe finita nella pancia dei cani e allora lui, con passo lento e incerto, si decideva ad andare a prendere la sua ricompensa.  

“Ecco, ora la tua pancia è piena” diceva Gioconda quando Cincischia aveva finito l’ultimo boccone. Ogni volta così, lui sorrideva col suo dente solo e si andava a cacciare in qualche pertugio a fare un pisolino digestivo.

Nonostante la sua misera vita Cincischia era sempre molto allegro, sembrava felice, addirittura.

Gli abitanti di quel villaggio ormai non si chiedevano più come faceva a sorridere e scherzare con quella fame che gli mordeva l’anima e una cuccia da cani per dormire. Si erano abituati,  dicevano: “Buon per lui che è felice lo stesso”.

Così andava la vita di Cincischia, finché un giorno non capitò qualcosa che la cambiò.

Era estate. Cincischia come al solito si cincischiava gironzolando in paese come un randagio, il sole bruciava la pelle e gli occhi, non si portavano gli occhiali da sole all'epoca e in ogni caso lui non avrebbe potuto comprarseli.

Cercando un po’ d’ombra si sdraiò sotto un platano a dormire, con le cicale a fargli la serenata.

“Buon uomo,” disse una voce rauca tirandolo per la manica della camicia rattoppata, ”svegliati. Devo parlarti. Ho da farti una proposta che ti farà venire l’acquolina in bocca. Svegliati o perdi un’occasione!”

Il nostro a fatica, e molto malvolentieri, aprì gli occhi e ciò che vide non gli piacque affatto.

Una vecchia laida, con lo sguardo di un rapace e la bocca rugosa piena di denti neri lo guardava come se lo volesse mangiare.

“Chi sei , uh? Vai via!” disse Cincischia spaventato da quella visione.

“Mi chiamo Eurina e sono una fata, sissignore: perché mi guardi così? Non mi credi? Sono qui per aiutarti. Devi sapere che ogni anno nel regno dal quale io provengo si sceglie un mortale che versa in condizioni di grande miseria per cambiare la sua triste vita e far sì che da disperato diventi il più fortunato degli uomini. Naturalmente se lo deve meritare, la nostra regina non elargisce premi a uomini malvagi, ladri o disonesti. Tu sei un uomo mite, lento nelle decisioni e poco sveglio, ma buono. La regina quest’anno ha scelto te.”

“Me? Me vuoi dire proprio…me?”

“Sì, proprio te. Riceverai dalle mie mani un dono che ti darà una nuova vita, ricca e felice come non puoi nemmeno sognare. Solo ti si chiede di non cincischiarti più e di far qualcosa di utile per te e per gli altri. Ma guai a te se non lo farai perché perderai tutto e non potrai mai più essere aiutato da nessuno. Finirai la tua vita nella miseria che già conosci e nessuno si occuperà più di te”.

Cincischia, frastornato e incredulo, guardò fisso l’orrenda fata negli occhi: che fosse un sogno, il suo? Provò a toccarla. Era vera, le rughe della pelle erano più reali della sua fame nera. Insomma non sognava e bisognava risponderle alla svelta perché non pareva proprio il tipo che aveva la pazienza di aspettare un indeciso come il buon Cincischia.

“Va bene, “ rispose infine,” farò tutto quello che vuoi”.

Eurina consegnò al mendicante un rotolo di pergamena chiuso da un nastro giallo che pareva d’oro, gli disse di aprirlo solo quando se ne fosse andata, di leggere le istruzioni che riportava, di seguirle passo per passo senza sbagliare e quando il poveretto protestò che non sapeva leggere sorrise dicendo che invece avrebbe letto eccome. Subito dopo sparì, come spariscono le fate, lasciando il nostro amico a chiedersi come accidenti avrebbe potuto “leggere eccome” non avendo mai imparato.

Grattandosi  la testa aprì il rotolo e si mise a leggere…si mise a…leggere? Sì! Leggeva, leggeva davvero!

Come questo potesse succedere era cosa da fate saperlo, tuttavia lui leggeva e capiva ogni parola, eppure erano termini difficili, roba da gente istruita che era andata a scuola.

“Chissà com'è che ora sembro un professore e intendo cose di cui prima neanche sapevo l’esistenza?” si chiedeva con un sorriso idiota che gli andava da orecchio a orecchio.

In conclusione capì che con quella pergamena gli si diceva che da quel momento in poi lui sarebbe diventato un altro uomo, che intanto si guardasse allo specchio: non vedeva il cambiamento?

Dove trovare uno specchio fu il primo problema che si pose,  ma guarda un po’ eccone uno proprio sotto i suoi occhi attoniti. Dentro ci vide un uomo giovane, prestante. La bocca morbida, i denti regolari, puliti come il bucato delle lavandaie. Si guardò alle spalle. Non c’era un cane.

“Non è possibile che sia proprio io!” mormorava sempre più stupito il mendicante Cincischia.

E invece sì. Era lui, se ne dovette convincere perché lì intorno non c’era proprio nessuno.

E gli abiti? Si vide addosso panni ricchi, sontuosi. Roba da re, almeno.

Accanto a lui ecco una carrozza, ricca, elegante. Un paggio si avvicina, lo chiama: “Mio signore, noi siamo pronti, quando volete partiamo”.

Partiamo? E per dove? Cincischia era troppo confuso per chiedere al paggio chi era e dove voleva portarlo, così salì in carrozza, che tanto più di così non poteva essere strana la situazione.

Trotta e galoppa, la carrozza si fermò davanti a un castello.

“Che meraviglia!” disse Cincischia sgranando gli occhi abbacinati.

“Signore, questa è la vostra dimora, non la riconoscete?” chiese il paggio.

“Certo, come no!” mentì il poveretto non volendo far la figura dello smemorato.” Volevo solo consolarmi del fatto che vivo in un posto tanto bello, casomai mi venisse in mente di lamentarmi per qualcosa.”

“Molto saggio ricordare a se stessi la propria fortuna” sentenziò il paggio aprendogli lo sportello per farlo scendere.

All'interno del maniero immaginatevi le sette meraviglie. Oro e tappeti di rara bellezza, arazzi e ammennicoli di ogni tipo e sempre d’oro, tempestati di lapislazzuli o di rubini.

Un tesoro sciorinato davanti a lui che aveva il fiato mozzo per l’emozione.

Subito una ventina di domestici si disposero in fila sul lato sinistro della stanza e si inchinarono al suo passaggio.

Gli chiedevano ordini, disposizioni. Cincischia non sapeva cosa dire, se la cavò con un vago Sono stanco, ne riparliamo dopo che lì per lì lo tolse d’impicci anche se era chiaro che prima o poi qualcosa avrebbe dovuto pur dire a quella brava gente.

Risolse di fare prima un pisolino, casomai dormendo gli fosse venuta qualche idea, nonostante sapesse bene come le poche idee che aveva nel sonno ogni volta gli scappassero dal cervello, e poi si svegliava più imbambolato di prima.

La sua camera era enorme, una stanza dove ce ne sarebbero state altre tre. Il letto morbido, le lenzuola pulite...e chi era abituato al letto, alle lenzuola? Lui no di certo. Trovò che fossero piuttosto comode, e senza far troppi commenti ci si avvolse come un baco da seta e si addormentò.

Ebbe incubi che lo fecero sobbalzare mille volte, sudò e si svegliò col cuore che batteva all'impazzata.

Si guardò intorno: era ancora tutto lì, la stanza, le lenzuola finissime, il baldacchino rosso. C’era proprio tutto, e c’era lui, con una fame da leone.

Inutile dire che anche il suo stomaco ebbe presto la sua bella soddisfazione. 

Mangiò a crepapelle, si saziò per tutti i digiuni che aveva fatto prima.

Nei giorni che seguirono si dedicò a impratichirsi della casa e delle proprietà. 

Visitò l’orto, il parco, le vigne e i pascoli dove gli armenti mangiavano l’erba fresca e tenera dei suoi campi.

Conobbe contadini, fittavoli, vignaioli, lavandaie e cucitrici. Tutta gente al suo servizio.

Dopo due settimane era già esperto, gli sembrava di esserci nato in quella bella situazione.

Passò un mese. Ne passarono due. Tre. Sei. 

Un anno se ne andò veloce come l’acqua fresca di una fontana.

Il nostro uomo adesso aveva anche un nome, Cincischia era solo un ricordo da mettere in soffitta con le pene di quella vita amara.

Gli dissero che si chiamava Ottone, e a lui piacque, gli piacque parecchio. Della sua nuova vita Ottone amava tutto, dai pranzi succulenti alla tappezzeria, alle gite in carrozza con le damine eleganti. Tutto.

Unico neo in tanta gioia era che il suo carattere, pigro, indeciso e volto più al non fare che al fare non era cambiato affatto. Di buono, a parte spassarsela come un gaudente non aveva fatto nulla. Né  beneficenza per i poveri, né imprese eroiche per il popolo o nuove opere per la posterità. Non si era nemmeno sposato per dare un erede alla dinastia. Un bel nulla di nulla, insomma. 

Cambiata la vita, lui non era cambiato affatto.

In questa situazione tornò a trovarlo la famosa fata.

Dopo avergli ricordato le condizioni poste per avere una nuova esistenza, lo minacciò.

“Attento, Ottone, se non cambi la prossima volta che mi vedrai sarà per riportarti dove ti ho trovato e sarà per sempre. Uomo avvisato…”

Ottone di nuovo giurò e spergiurò che avrebbe fatto qualcosa di buono, la fata volle credergli ma lo lasciò con uno sguardo che era un fulmine pronto a cadere sulla sua testa.

Ottone ebbe un brivido, tuttavia bastò che il suo cerimoniere gli suggerisse di dare una gran festa per il compleanno di una certa contessa per fargli dimenticare la fata e tutte le sue angosce.

Passò così un altro anno senza che l'ex mendicante Cincischia si trasformasse finalmente in Ottone.

Dimentico di ciò che la fata aveva detto e preso dalla vita facile e lussuosa, Ottone si meravigliò molto quando vide la fata Eurina avvicinarsi a lui con occhi spiritati, prendere una bacchetta più lurida di un porcile da pulire e recitare la formula che segue:

“Torna indegno alla tua fogna, di te qui non c’è bisogna”.

La rima non piacque molto al povero Cincischia ma se ne dovette contentare perché la fata Eurina lì per lì non ne trovò una migliore.

Dopo un secondo eccolo tornato al suo villaggio, più povero di prima, vestito dei suoi soliti stracci a mendicare un tozzo di pane.

Una voce sottile gli mormorò all'orecchio:

” Te l’avevo detto. Hai avuto una grande occasione e l’hai sciupata conducendo una vita sciocca e inutile. Ora torni a mendicare e ben ti sta”.

Cincischia si guardò le mani sporche e callose, si specchiò nel ruscello e vide un uomo con il viso pieno di rughe e con un dente solo a far mostra di sé in mezzo ad una bocca di vecchio malandato.

“Povero me, che ho fatto? Ora non tornerà mai più la bella vita che ho perduto”.

Inutile lagnarsi, recriminare. Cincischia ben presto si rassegnò.

“Un Cincischia non diventa un Ottone nemmeno se lo mettono a fare il re” diceva ogni volta a chi passando per compassione gli regalava un po’ di pane.

Non gli andò neanche poi così male perché la fata Eurina, mossa a pietà per quella zucca vuota, fece in modo che pane e giaciglio non gli mancassero mai fino alla fine della sua misera vita perché, diceva, sempre sospirando:

“ Se uno è Cincischia non ci si può far nulla, in fondo non è colpa sua. Non sarà mai Ottone”.

 

 

 

 

 


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