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sabato 14 luglio 2018

L'oro del villaggio - quando un popolo è felice...


L’oro del villaggio
Barbara Cerrone






Mi viene in mente un fatto di tanto tempo fa che a pensarci ancora mi diverte.
È successo in un certo paesino non  lontano da qui: se lo ricordano i vecchi, che ne parlano sempre, e i notabili, che ne conservano la memoria per i giovani.



Tutto è cominciato con un tesoro, una cassa piena di monete d’oro di cui nessuno conosceva la provenienza.
La trovò, in mezzo ai campi, una contadina, Amelia, mentre falciava l’erba.
“Ohilà, ohilà!” gridò.”Correte, gente, correte!”
E corsero, infatti. I cinquecento abitanti del paese corsero tutti, non ne mancò neanche uno all’appello.
Le bocche sbalordite ci misero del tempo a richiudersi, infine si decise di portarlo al principe del luogo che, come ricco signore, di certo era abituato alle monete d’oro e sapeva cosa farne.
Ma quello...
 “Le monete sono state trovate nel mio regno, io sono il principe perciò sono mie.” proclamò.”Oggi però mi sento generoso, quindi ve le regalo: prendetele, e vediamo cosa sapete farne”.
Però!  Ce n’era davvero di che beneficare un’intera città, così quei poveracci furono ben lieti di spostare tutto quel ben di Dio dalla cassa alle loro tasche rattoppate.
Da pezzenti quei disgraziati si ritrovarono signori, e cominciarono a girare in carrozza, a vestire abiti ricchi e a rinnovare le loro catapecchie cambiando i  pancacci di legno rustico in sedie e poltrone da palazzo nobiliare, e le ruvide lenzuola di spesso cotone in finissima biancheria di lino.
Inutile dire che nessuno, fra quei contadini, volle più andar nei campi a sudare mille camicie, e i raccolti andarono a farsi benedire.
L’abbandono delle campagne fece salire la bile agli occhi del principe che fino ad allora si era divertito a guardare quello spettacolo.
“I miei contadini non lavorano più la terra, tra non molto non ci sarà più di che sfamarci nel  regno” disse un giorno alla consorte.
“Marito mio, principe, la colpa è di quelle monete e della vostra imprudenza. Come avete potuto lasciare nelle loro mani quel tesoro? Non vi è venuto in mente che dopo averlo avuto si sarebbero dati alla bella vita? Non hanno mai visto l’abbondanza, c’era da prevedere questo bel risultato.”
“Lo so, io volevo solo divertirmi a vederli recitare la parte dei signori, non pensavo certo di lasciar loro le monete per sempre, mia cara. C’è un bel rimedio a questa situazione, lo vedrai presto”.
Il rimedio del principe, però, dispiacque molto a tutta quella gente: il giorno stesso inviò i suoi soldati, armati fino ai denti, a perquisire, accusare e incarcerare tutti coloro che avevano preso le monete, ponendo fine alla bisboccia senza pietà.
I  più vecchi furono condannati al carcere duro con l’accusa di complicità nel furto del tesoro, i più giovani ai lavori forzati nei campi che così ripresero a dar frutti.
Dopo un periodo di ricchezza e bella vita, tornare più poveri di prima fu come svegliarsi da un bel sogno e finire dritti dritti in un incubo di miseria e sofferenza.
Qualcuno fra loro pensò anche di darsi la morte, tanto il dolore era insopportabile, altri invece meditarono di andare dal principe e farlo fuori con tutta la sua corte, ma le catene che avevano ai piedi gli consentivano a malapena di muoversi, e la fame indeboliva talmente i loro corpi che poco a poco smisero anche di meditare.
Così finì il bel momento di quella popolazione che, illusa per un po’ di aver raggiunto benessere e ricchezza, ben presto ripiombò nel buio di una povertà ancora più amara.
Passarono gli anni, due, per la precisione, e tutti si erano ormai rassegnati al loro destino.
Molti fra i più anziani e malati erano morti in carcere, i giovani invece continuavano a sudare nei campi e campavano di stenti, come sempre, del resto.
Un bel giorno un cavaliere col pennacchio bianco armato di tutto punto scese alla locanda del paese, che era ben misera, tuttavia il nostro cavaliere non se ne lamentò perché a quei tempi chi viaggiava sapeva bene che doveva adattarsi alla bisogna, sperando almeno di non esser derubato.
Bevve del vino senza obiettare che era acqua sporca e si sciacquò la faccia in una bacinella ancor più sporca, sempre col sorriso sulle labbra.
“Un buon cliente, una volta tanto” commentò il padrone della baracca mordendo la moneta che il cavaliere gli aveva anticipato per compenso.
Il giorno dopo il suo arrivo tutto il paese parlava di questo misterioso signore che aveva l’aria di venire da molto lontano e di esser di quelli nobili e ricchi per davvero.
Soprattutto ci si chiedeva che mai facesse in quella landa misera e dimenticata un uomo così, che di valore pareva averne tanto.
Il cavaliere sembrava non accorgersi affatto di tutte quelle  attenzioni e di certo non se ne curava.
Il giorno dopo, elmo calato e lancia in resta, prese solennemente la via del castello, non senza aver prima foraggiato il suo cavallo, Alidoro, così lui lo chiamava, incitandolo a non lasciare neanche un filo di quella buona biada.
Senza dir verbo, il cavaliere si acquartierò sotto le mura del castello, e lì rimase.
Il principe appena seppe di quello strano soggetto si insospettì e ordinò alle guardie  di condurlo al suo cospetto per interrogarlo, ma il cavaliere si rifiutò.
“Non parlo con un vile usurpatore, disdegno tale ignobile compagnia.” rispose.” Io sono il legittimo erede di mio padre, re Sigismondo terzo, ucciso a tradimento dal vostro falso principe e questo regno è il mio. Sono qui per vendicare la morte del padre mio e riprendere l’oro che quel furfante ha rubato”.
Figuratevi il principe! Andò su tutte le furie e ordinò ai suoi armigeri di catturarlo per chiuderlo a vita nelle patrie galere.
Il cavaliere era più in gamba di quanto lui potesse immaginare, non appena vide avvicinarsi i soldati alzò bandiera bianca, fingendo la resa; quelli, vedendo la scena, rimisero nelle fodere le spade e andarono a prenderlo con l’aria scanzonata di chi va a far merenda sui prati. Trovarono insomma l’accoglienza che si merita chi non sa valutare il suo nemico.
Gido, così si chiamava il cavaliere, ne atterrò cinque in una volta sola, roteando la spada, e con la lancia finì il lavoro con gli altri cinque che, storditi e sconfitti, tornarono al castello  con le corna rotte.
“Sciagurati, vi siete fatti battere da un uomo solo! “ gridò il principe.
A poco valsero  piagnistei e scuse: i disgraziati, pesti e umiliati, furono spediti dritti dritti in carcere a riflettere sulla loro dabbenaggine.
Molti altri ancora andarono a dar battaglia a Gido, decisi e armati fino ai denti, e tutti tornarono al mittente senza armatura, e con qualche dente in meno.
“Qui c’è di mezzo un incantesimo!” sbottò il re all’ennesima sconfitta.” Chiamate subito Oddo”.
Oddo era un vecchio mago di corte, scalcagnato e sempre in ritardo, il principe lo tollerava solo perché era frugale e gli costava poco, e poi nelle previsioni ci azzeccava.
Il principe gli ordinò di scoprire quale incantesimo si nascondesse dietro alla forza invincibile del cavaliere, gli disse di usar tutte le armi della sua  magia per sconfiggerlo perché quelle dei suoi soldati non erano valse a nulla.
Oddo, come al solito, fece del suo meglio; consultò il libro degli incantesimi, guardò ben bene nella sfera di cristallo, interrogò le stelle...insomma non rimase affatto con le mani in mano.
Alla fine si decise per la solita bacchetta, vecchio strumento di tante battaglie vinte e, notte facendo, si diresse verso la tenda del cavaliere.
Lo trovò che stava dormendo della grossa, russava, anzi, così che Oddo ebbe quasi un moto d’impazienza: “Mi ricorda la mia povera moglie,” pensò” russa come fa lei. Non c’era verso di dormire”.
Gli si avvicinò con cautela, per non svegliarlo, e imponendogli la bacchetta sul capo disse:
“Giro di qui, giro di là, la tua casa non è questa qua. Giro di boa, giro di mare da questo posto te ne devi anda...oh, oh,oh!”
Povero Oddo! Non riuscì nemmeno a finir di pronunciare la sua formula perché all'improvviso due bellissime fanciulle comparvero davanti al letto del cavaliere, facendogli scudo.
“Chi siete?” balbettò Oddo.
“Siamo le fate guardiane del cavaliere addormentato, lo proteggiamo dalle ire del tuo falso principe e da te, mago Oddo. Se vai in pace non ti sarà torto un capello, altrimenti farai la fine di tutti gli altri.”
“Ecco, siete voi il segreto! E io che mi ci sono lambiccato il cervello!  Vi prego, ditemi: come vi chiamate? Che io conosca almeno il nome di chi mi ha sconfitto.”
“Verità è il mio nome, “ disse la prima,” e giustizia è quello di mia sorella. Come vedi, a noi non si sfugge”.
Oddo piegò umilmente il capo davanti a loro e  prese la strada del ritorno senza replicare.
La mattina seguente il principe lo convocò  per chiedergli conto della spedizione ma Oddo, prudente vecchio consumato dall’esperienza, nel frattempo aveva già preso  il largo temendo la vendetta del suo irascibile signore.
“Tutti, tutti mi abbandonano!” tuonò il principe. E nessuno gli rispose, perché anche la sua furba moglie se n’era andata, in compagnia di quattro damigelle.
Solo, spaventato, si aggirava per la reggia come un pazzo chiedendo aiuto alle statue e ai candelabri.
Così lo trovò Gido, giunto col suo Alidoro a riprendersi regno e monete.
Vedendolo in quello stato si  impietosì, pensando che aveva già avuto la sua bella punizione.
Da quel giorno in poi il triste regno del principe usurpatore finì, Gido prese il suo posto e fu un regnante giusto, amato e rispettato dai suoi sudditi.
Il principe finì dentro una cella, a smaltire la follia che lo accompagnò per il resto dei suoi giorni.
Quanto alle monete, lo volete sapere?  Gido le regalò, una ad una, a quei disgraziati senza pane che finalmente ebbero un po’ di gioia nella vita.
“Tanto ne ho almeno il triplo nelle mie casse,” disse a commento della decisione, “che vivano bene i miei sudditi, e vivrò bene anch’io”.
Un popolo felice fa felice anche il suo principe, e così fu. Vissero tutti felici e contenti.
E anche se questa è una fiaba, è tutto vero.
Parola mia di fata.



















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