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lunedì 7 settembre 2020

L'albero infinito

 Chi non accetta la propria natura  prima o poi  deve farci i conti.

Anche per gli alberi è così, leggere per credere.



L'albero infinito

Barbara Cerrone



Credetemi, la storia è vera.

Successe tanti anni fa, nel paese che non vi posso dire perché è un segreto, di quelli che bisogna giurare di non tradire.  Comunque sia era un gran bel paesino, e gli abitanti ci vivevano bene, così bene che nessuno se ne andava mai.

Tutti erano felici, perfino i più tristi, sotto sotto, lo erano.

In tanta felicità non si poteva che essere ottimisti e vedere il futuro rosa,  più rosa delle albe rosa che inondavano il cielo ogni mattina. Rosa anche quello.

Nessuno poteva pensare al peggio, né prepararsi a eventuali guai. Non ce n’erano mai stati, da quelle parti.

Perciò, quando le radici del grande albero che troneggiava  nella piazza principale cominciarono a sporgere dal terreno nessuno si preoccupò. Anzi.

“Com'è rigoglioso, il nostro albero,” dicevano i più, “com'è forte e pieno di vita”, e proseguivano senza soffermarsi né a guardare né a pensare.

Nella più assoluta tranquillità arrivò anche la primavera. Piena di promesse, di fiori, colori e…radici. Le radici di quell'albero. Crescevano a dismisura ed erano l’orgoglio del villaggio intero.

Erano tanto lunghe e robuste che erano arrivate fino in fondo al villaggio, sì, proprio dove c’era il cartello con su scritto: ”Qui finisce il paese di…Arrivederci e grazie”. Non solo, ma oltre a sporgere tanto che in alcuni punti la strada non si vedeva più, avevano divelto arbusti, muretti, perfino una capanna di proprietà di un giardiniere che teneva lì gli attrezzi da lavoro. Alla loro forza niente poteva resistere. E gli abitanti del paesino? Macché! Soddisfatti e felici come non mai.

A dire il vero, quando anche la chioma  cominciò a superare in altezza il campanile della chiesa, ci fu qualcuno che si chiese se fosse normale una crescita così, se non potesse esserci pericolo per il paese e per i suoi abitanti. Ma fu questione di pochi attimi: l’ottimismo incallito tipico di quei luoghi lo convinse presto che il pericolo non c’era, che l'albero era bello e che vederlo alzarsi verso il cielo fino a quel punto era una cosa meravigliosa, quasi un miracolo.

Passarono altri due mesi. Venne l’estate. L'albero aveva chiome così lunghe che si erano dovute piegare per continuare a crescere, e ora si estendevano lungo la strada, quasi inseguendo le radici che ormai si trovavano alle porte del villaggio vicino.

Gli abitanti di quel villaggio, però, non erano per niente contenti di quella che per loro somigliava tanto a un’invasione, difatti ci fu chi pensò che tutta quella crescita anormale fosse voluta, provocata chissà come dai furbi abitanti di….per invadere la loro terra, appunto.

Questo provocò un malcontento che a sua volta provocò delle proteste che a loro volta provocarono una riunione che a sua volta provocò una richiesta di udienza al re in persona che a sua volta provocò una dichiarazione di guerra da parte del sovrano, cosa frequente a quei tempi. I re, tanto per far vedere che facevano qualcosa e non stavano lì, con le mani in mano a gingillarsi con lo scettro, ne firmavano di dichiarazioni, uh! Una cosa da non credere.

Insomma, la guerra di lì a poco scoppiò, e si annunciava come una brutta guerra anche perché faceva caldo e con il caldo, si sa, la fiacca ne uccide più della spada. Di certo indebolisce, e se indebolisce addormenta e se addormenta non si combatte. Risultato: la guerra non riuscì nemmeno a cominciare.

Stanchi di non far nulla, il re e i suoi proclamarono la tregua per non aver commesso il fatto, ovvero per non aver la forza di farla, quella guerra piena di afa estiva. Si rimandò al fresco settembre ogni combattimento, fermo restando che c’era la vendemmia e bisognava interrompere la battaglia nei giorni di bel tempo per dedicarsi a raccogliere l’uva, lasciando le baruffe ai dì di pioggia.

Fu concordato di far così e si trascorse agosto nell'attesa.

Venne settembre, e la guerra, purtroppo, iniziò. Con poca voglia di combattere, provati com'erano da tre mesi di caldo infernale, ma iniziò. Dapprima furono scaramucce, poi però si prese a fare sul serio e furono dolori per tutti. Distrutte case, incendiati castelli: in poco tempo il villaggio che si credeva invaso fu raso al suolo.

L’albero nel frattempo era cresciuto ancora e ancora e ancora. Crescendo passò di paese in paese, di città in città; ci furono re che si allarmarono e dichiararono anch'essi guerra all'invasore, altri che salutarono con gioia l’arrivo delle fronde, pensando a quanto era bello che un albero eccezionale come quello passasse proprio dalle loro parti.

Con quel che stava accadendo, guerre e disordini di ogni tipo,  prima o poi doveva arrivare e arrivò, infatti, il giorno in cui gli abitanti del paese di ...cominciarono a chiedersi se non ci fosse qualcosa di strano nel loro albero, se non si dovesse interpellare un mago o un giardiniere esperto per capire se c’era sotto una magia o magari qualche concime un po’ strano, e intervenire prima che il mondo intero fosse coperto dalle sue fronde e si formasse poi un fronte comune contro il loro bellissimo paese, reo di avere un albero siffatto e non aver preso provvedimenti.

In capo a una settimana fu indetto un consulto di maghi e giardinieri: giunsero da ogni parte del mondo. Maghi famosi, giardinieri di re e regine, ciarlatani e furbi di ogni specie. Tutti a consiglio, per capire cosa e come si poteva fare per fermare quella folle crescita.

“Io dico di potare!” fece il capo giardiniere del re di Nullapandia.

“Ma no, ma no, è un sortilegio. Ci vuole la formula appropriata, ogni incantesimo ne ha una” disse il mago Amelio, scuotendo la bacchetta  per cercare ispirazione.

“Ho qui una pozione che in meno di un minuto lo riporterà alle sue dimensioni naturali” borbottò un buffoncello, un piccolo imbroglione che rimestava un liquido marrone in una ciotola.

Ognuno disse la sua, fra mille discorsi venne la notte e ancora si discuteva sulla ragione e sul torto, e intanto l’albero cresceva, cresceva ancor di più. Come nutrito dalle chiacchiere di quei signori, cresceva e si spingeva sempre più avanti, sempre più in là.

Finché arrivò alla fine del mondo. Dovete sapere che alla fine del mondo c’era…la fine, per l’appunto, con tanto di cartello stradale con su scritto ”Fine”, così si capiva bene dove ci si trovava  e che più in là non c’era un bel nulla.

Da quelle parti c’era un certo governatore che si chiamava Armenio, viveva nella torre posta sull'altura che dominava la valle della Fine. Il suo esercito  sorvegliava i territori circostanti giorno e notte.

Un giorno, infatti…

“Numero uno, guarda,” disse il soldato numero due strabuzzando gli occhi, ”c'è una chioma d’albero che striscia a gran velocità. Si sta arrampicando fin quassù.”

“Vedo,” rispose il soldato numero uno,” ma che roba è questa? Da dove viene? Ci sarà sotto un sortilegio? O nasconde soldati pronti all'assalto?“

“Avvisiamo subito il governatore. Intanto teniamoci pronti con i pentoloni di olio bollente, non si sa mai.”

“Eh, sì, l’olio è finito da un pezzo: a forza di scacciar nemici! il governatore ha mandato la fantesca a prenderlo da Toniuccio ma pare che non ne abbia più neanche lui. Si dovrà andare a far provviste fuori città.”

“Bella roba, e ora come ci liberiamo dell’invasore se dietro quella chioma c’è un esercito intero? Bah, io vado dal governatore, le rogne sono roba sua. Noi dobbiamo solo eseguire”.

Il governatore stava ronfando in quel momento e non gradì affatto l’interruzione.

“Insomma, io ho bisogno di riposo, “ disse alzandosi a sedere sul letto, ”cosa si vuole ancora da me? Sfiancarmi? Uccidermi? C’è mica il solito complotto, eh? Vi faccio vedere io, vigliacchi!”

“Ma no, ma no, governatore. C’è un’emergenza, altrimenti non l’avrei disturbata. Una chioma d’albero sta invadendo la nostra terra.”

“Una chioma d’albero? Ma che dici? Credi di poter prendere in giro il tuo governatore, per caso?”

“No, signore. Venga a vedere lei stesso, così si renderà conto della situazione. Abbiamo paura che dietro ci sia un esercito armato. Oppure che si tratti di una magia.”

“Che? Che? Che? Vengo, per la barba che ho tagliato proprio ieri, ma se è un altro falso allarme soldato preparati a fare un mese di prigione”.

Il governatore si alzò dal letto in tutta fretta, continuando a brontolare per tutto il tragitto che separava la sua stanza dalla torretta di avvistamento. Dieci minuti di brontolio che al povero soldato fecero venire il mal di testa.

“Oh, ma questa è un’invasione!” esclamò Armenio vedendo la chioma che saliva su a gran velocità.

“Che si fa, governatore?” chiese il soldato.

“Che si fa, che si fa…che cosa vuoi che si faccia? Si lanciano un paio di frecce e si sta a vedere cosa succede. Se riuscite a colpire la verzura bene, sennò…”

“Sennò?”

“Scappiamo tutti, ecco! Ma vi devo sempre dire tutto?”

“ Se lei è il governatore, sì, per forza.”

“Non essere impertinente, numero due. Pensa piuttosto a mirare bene. Sono certo che quella chioma non viaggia da sola, c’è qualcuno dietro che la manovra. Dobbiamo stanarlo.”

“Pare facile!” borbottò il soldato, ma dato che Armenio minacciava di tirargli in testa una pietra tolta fresca fresca dal muro a suon di calci, pensò bene di filarsela senza aggiungere altro motto.

In quattro e quattro otto si radunarono in cima alla torre dieci fra i più bravi arcieri della valle. Si misero in posizione  e cominciarono a lanciar frecce come se piovesse.

Ma dalle fronde non uscì fuori nessuno.

“Allora c’è di mezzo un incantesimo, “ borbottò il governatore al soldato che gli faceva il rapporto,” dunque bisogna cercare subito un mago. Tentiamo anche questa, dopodiché fuga generale. Forza, partire subito e trovare il mago”.

Numero due partì, con la bisaccia piena di provviste e il brocco più brocco che riuscì a trovare, nella speranza di arrivare il più tardi possibile a destinazione, anche perché non aveva idea della destinazione e ancor meno aveva voglia di andare in giro a trovar maghi e fattucchiere. Era pigro, questo sì, fannullone e pigro. E fifone. Hai visto mai che  potesse esserci pericolo? Perché proprio lui e non Numero uno, che essendo Uno doveva essere anche il primo a partire? Meditando su questa ingiustizia, girovagò in lungo e in largo per un anno intero, il tempo necessario perché passasse la bufera.

In questo lungo lasso di tempo il governatore, non vedendo arrivare nessun mago in suo aiuto, aveva dato (per forza!) l’ordine di scappare a tutta la popolazione, che poi consisteva in: 

1)lui;

2) la moglie Gervasia;

3) il cane Bailamme;

4) il soldato Uno con la sua famigliola di cinque figli, la moglie, i suoceri, i genitori, i cognati, i cugini e due amici in quei giorni ospiti della sua casa.

Fuggirono una mattina all'alba, mentre la pianta stava entrando nelle stanze della torre, abbarbicandosi senza pietà a pareti, mobili, tende e persone. Sì. Si abbarbicò anche al governatore,  e ci vollero tutti i membri della famigliola Uno per liberarlo da quella stretta che a momenti lo soffocava.

Non sapendo dove fuggire se ne andarono tutti all'inizio del mondo, dove la pianta era già passata ma senza attecchire troppo: forse non le piaceva il posto? Oppure c’era qualcosa in quelle strade di inizio mondo, così tenere, come ogni cosa nuova, che le faceva pena e la induceva a risparmiare case e viuzze, per concentrarsi più in là, dove il mondo si faceva più grande, e più cattivo? Mah!

E gli abitanti del paese di…che fine avevano fatto? Presto detto. Erano ancora là che continuavano a discutere, a litigare, sul da farsi con quella pianta benedetta che tanti guai aveva portato a tutto il mondo.

Un giorno mastro Pippetto, il calzolaio, stanco di sentir chiacchiere a vuoto che non portavano a nessuna soluzione, dopo guerre, minacce e insulti da tutti i paesi vicini, se ne uscì con questa bella trovata:

“E se lo abbattessimo? Basta una scure e i nostri guai saranno finiti”.

Non l’avesse mai detto! Scoppiò un putiferio: chi urlava di qua, chi urlava di là.

Il fatto è che quell'albero era l’orgoglio del villaggio, rinunciare a lui era come…come…non lo so, casomai chiedetelo a loro com'era, sta di fatto che non volevano rinunciare.

“Sacrilegio! Come ti viene in mente?” gridò ad un certo punto la folla inferocita a mastro Pippetto che ebbe paura di essere picchiato tanto sembrava  minacciosa la marmaglia.

A salvarlo intervenne il re, che come tutti i re non amava gli schiamazzi.

“Buoni, buoni, miei sudditi. Quest’uomo ha detto uno sproposito, è vero, ma certe volte anche gli spropositi possono avere in sé qualcosa di buono. Lo so, lo so, lo amate tutti ma l’albero ci ha messi in una situazione assai grave, siamo odiati da tutti i paesi del mondo che non capiscono perché non l’abbiamo fermato con tutti i mezzi, compreso l’abbattimento. Forse dovremmo farci coraggio e abbatterlo: può darsi che questa pianta non sia normale. Forse è fatata e abbatterla è un bene”.

Altre grida, brusii, proteste. Tutti parlavano e non ascoltavano, solo Pippetto taceva.

“Che ho fatto?” Pensava tra sé e sé. “Ora qui mi odieranno tutti, anche se il re mi dà ragione. Sarà meglio che mi allontani per un po’, giusto il tempo di far sbollire questa rabbia”.

Mastro calzolaio fece la mossa di andarsene, cercando di non farsi vedere da tutta quella gente infervorata; lo vide il re, che gli fece segno di avvicinarsi. Capite bene che davanti a un segno del re che ti dice di avvicinarti c’è poco da fare, e Pippetto si avvicinò.

“Mastro calzolaio, “fece il re accostandosi all'orecchio del brav'uomo,” tu hai avuto coraggio a fare la tua proposta, ora vai fino in fondo: prendi una scure e abbattilo. Non preoccuparti per i tuoi compaesani, ti farò difendere dall'esercito, se sarà necessario”.

Pippetto credeva di non aver capito bene: lui, proprio lui, doveva abbatterlo? All'improvviso dubitò della sua idea, gli sembrò sacrilega e ingiusta. Sbagliata. Ma ormai era troppo tardi, il re non ammetteva rifiuti.

Si guardò intorno, la gente stava sfollando, un po’ perché stanca di tutto quel vociare, un po’ perché era quasi ora di cena e gli stomaci cominciavano a brontolare. Si rimandava la protesta al giorno dopo.

Mastro calzolaio con un inchino prese congedo dal suo re e andò subito in cerca di una scure.

 Gliela prestò Giommino, il fabbro, che quel giorno non era uscito per finir certi lavori e non sapeva nulla della proposta di Pippetto. Preso com'era dal lavoro non gli chiese neppure a cosa gli servisse.

“Te la riporto fra un’ora al massimo” disse il calzolaio, e se ne andò, con il cuore in tumulto.

Aspettò l’imbrunire per la delicata operazione. I suoi compaesani erano nelle loro case e lui era libero di portare a termine la sua missione. Ma dopo non aveva nessuna intenzione di restare. No, anche se il re gli aveva promesso protezione non si sentiva tranquillo. I re certe volte sono strani, cambiano idea da un momento all'altro, magari perché a corte tira un vento nuovo o perché prima gli faceva comodo così e poi  non gli fa più comodo. No, dopo l’abbattimento sarebbe partito, anche se non aveva idea di dove andare.

Nella piazzetta non c’era nessuno, momento ideale per colpire. Pippetto prese con calma la mira, stava per sferrare il primo colpo quando “Ahi!” gridò una vocina sottile.

“Ohibò! Chi è che grida, chi c’è nascosto nell'ombra?” chiese il brav'uomo facendo un salto all'indietro.

“Chi vuoi che ci sia?” Rispose la voce.” Sono io, l’albero. Non colpirmi, ti prego!”

“Gli alberi non parlano, “ balbettò  Pippetto,” c’è qualcuno nascosto, ora ti trovo spiritosone!”

Pippetto si mise in cerca dell’intruso in vena di scherzi ma gira e guarda non trovò nessuno.

“Te l’avevo detto,” riprese la voce,” sono io che parlo.”

“Allora sei fatato!”

“Macché fatato, tutti gli alberi parlano, solo che non si fanno sentire dagli uomini altrimenti proprio come te ci crederebbero fatati e ci abbatterebbero. Anzi, ti prego di non raccontarlo a nessuno, nemmeno al re. Questa volta sono stato costretto a far sentire la mia voce per fermarti, visto che mi volevi dare un colpo di scure. ”

“Ma senti questa,” borbottò Pippetto grattandosi il capo,” gli alberi parlano. Stai pur tranquillo, non lo dirò a nessuno, anche perché penserebbero di sicuro che sono ubriaco o matto. Dato che parli, dimmi com'è che sei cresciuto così tanto? Ti rendi conto dei disastri che hai provocato?”

“Non posso dirti come ho fatto a crescere così, è un segreto verde, e i segreti verdi non si possono svelare. Mi dispiace di aver causato tanti guai, ma io mi ero stufato di star fermo qui, volevo viaggiare, vedere il mondo. Noi alberi siamo sempre fermi nello stesso posto, non è giusto. Abbiamo anche noi bisogno di cambiare orizzonte, ogni tanto. E curiosità di conoscere altri luoghi.”

“E per questa tua curiosità hai lasciato che scoppiassero guerre, tumulti e fughe di interi popoli?”

“Sì” ammise l’albero con un filo di voce.

“Dovrei abbatterti solo per questo” fece Pippetto alzando la scure.

Ma era un uomo buono, non ne ebbe il coraggio.

“Sei pazzo, albero mio,” disse infine, “Un albero pazzo. Del resto può succedere. Sei un albero, amico mio,  e gli alberi non si muovono. Capito? Sennò la prossima volta nasci condor, oppure umano. “

“Mi dispiace per quello che è successo, però sono anche contento. Il mondo è proprio bello! Un po’ strano, a volte, ma bello.”

“Senti chi parla! Il mondo sarebbe strano…a volte? Tu invece sei strano sempre. Però ti capisco, non deve essere facile stare sempre nello stesso posto. E ora che si fa? Vuoi smettere di crescere o vuoi finire abbattuto? Non tutti avranno pietà come me.”

“No, no, ho capito. Smetterò. Guarda, ritiro subito le radici. Per le fronde invece ti chiedo di potarmi. Non posso fare altro. ”

Pippetto annuì, ripose la scure in un angolo e corse a prendere un paio di cesoie.

“Eccoci, sei pronto?” chiese prima di cominciare.

“Sì, comincia pure. Non sentirò dolore.”

Pippetto iniziò a tagliare le fronde, e tanto tagliò che le riportò alla lunghezza che avevano prima di tutto quel trambusto.

Come se niente fosse successo.

“Visto? Ora sei salvo, “ disse Pippetto quando ebbe finito,” nessuno ti abbatterà più. E non farti venire in mente altre mattane. Al re dirò che sono venuto qui e ti ho trovato così, penserà che si è trattato di un incantesimo e ti lascerà in pace. Quanto ai miei compaesani, saranno felici di ritrovarti come prima. Tutto è bene quel che finisce bene, amico mio, e ora ti saluto. Vado a casa, anche perché per oggi ne ho già viste troppe. Un albero che parla, roba da non credere.”

Pippetto fece per andarsene ma l’albero lo fermò con un ramo.

“Aspetta, “ disse avvolgendogli la vita,” volevo prima dirti una cosa: grazie. E quando vai in giro, libero, con i piedi che si muovono e ti portano dove vuoi, ricordati di me e dei miei fratelli che invece non abbiamo la tua stessa libertà”.

Pippetto si commosse a quelle parole e pensò che sì, era proprio fortunato a tenersi su due piedi che, quando voleva, magari con un po’ di fatica,  potevano portarlo ovunque. Anche in cima al mondo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

2 commenti:

  1. Una favola davvero pedagogica. Complimenti per averla condivisa.
    sinforosa

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  2. Grazie, sei sempre molto gentile.
    Un caro saluto
    B

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