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domenica 18 marzo 2018

Al lupo! Al lupo!

Conoscete le fiabe di Perrault? Ma certo che le conoscete! Cenerentola, Cappuccetto Rosso, La bella addormentata nel bosco...non sono che alcuni dei racconti che fanno parte della famosa raccolta Les Histoires ou  Contes du temps passé  noti anche come Contes de ma mère l'Oye.
Nel XVII° secolo la fiaba, fino ad allora patrimonio della tradizione popolare orale, conosce una grande diffusione fra le classi più colte e agiate grazie alla sua trasposizione letteraria.
Perrault nei Contes fa esattamente la stessa operazione e raccoglie, rielaborandoli, questi racconti popolari che  spesso erano conosciuti in versioni diverse, fissandone così definitivamente la trama.
Una curiosità: Cappuccetto Rosso in origine non aveva un lieto fine perché era una fiaba di avvertimento e doveva mettere in guardia dai pericoli del mondo; Perrault l'ha adattata alla  sensibilità dei raffinati lettori cui erano destinati i Contes, con nostro grande sollievo, aggiungo io.
Cappuccetto Rosso ha qualcosa da dire anche ai nostri giorni, il mondo nel frattempo non è certo diventato un luogo paradisiaco e il suo messaggio sembra più attuale che mai.
Allora, mi raccomando, attenti al "lupo"!
Con buona pace di questo splendido animale, oggi ampiamente riabilitato, divenuto suo malgrado simbolo della cattiveria pur non essendo né buono né cattivo ma solo un lupo. Semplicemente.


mercoledì 14 marzo 2018

Un medico particolare...


Medico. Una figura molto importante sulla quale non riversiamo solo le nostre aspettative di cura, ogni volta che dobbiamo consultarne uno vorremmo trovare in lui un professionista capace di rispondere anche alla nostra esigenza di essere ascoltati, compresi, in una parola: accolti.
Oggi  vorrei presentarvene uno piuttosto originale che cura un disturbo molto fastidioso con uno strumento di sua invenzione.

A voi il mio












Dottor  Singhiozzo
Barbara Cerrone

Tanto tempo fa, in una città lontana da qui, viveva un medico di fama internazionale, un luminare bravissimo che curava un disturbo fastidioso e con tali e frequenti recidive da uscirne pazzi: il singhiozzo. Per questo motivo e per molti altri ancora,  nessuno sapeva il suo vero nome ma per tutti lui era Dottor Singhiozzo.
Lo chiamavano a tutte le ore del giorno e della notte e lui, sempre disponibile, talvolta non chiedeva nemmeno la parcella, tanto era preso dalla nobile missione di liberar gli umani da quel disturbo che li faceva sussultare e ostacolava più di una conversazione.
Da quelle parti, poi, era un problema assai diffuso perché tutti mangiavano come forsennati, e questo a causa di un’usanza di quei luoghi che voleva s’ingurgitasse il cibo in fretta e furia, giusto per far vedere che il pasto era gradito.  E ogni volta, finito il pasto, entrava in gioco il nostro buon dottore (uomo di scienza e di gran cultura) con il suo aspiratore, strumento all'avanguardia e brevettato, che si applicava alla bocca del paziente per portar via il singhiozzo in poche mosse.
Di quell'aspiratore andava molto fiero, se lo portava dietro in ogni dove, casomai ci fosse stato un singhiozzante che lì ne abbisognasse.
L’unica guaio era che pesava tanto, quel benedetto strumento di salute, gli aveva perfino sviluppato i muscoli, ma solo al braccio destro, perché il sinistro era sempre impegnato nel gran gesticolare esplicativo: doveva pure illustrare bene, anche a quelli digiuni di ogni scienza, cosa faceva e come funzionava quell'aggeggio, perché ve ne erano di  diffidenti e timorosi assai di qualche effetto più che collaterale.
Ma era veramente efficace quella cura e di solito di certo non falliva, solo una volta capitò un contrattempo: successe un giorno che una grossa rana, saltando da una parte all'altra della strada per certe sue faccende da anfibio, gli capitò davanti all'improvviso e lui, non conoscendo il soggetto, pensò saltasse per via del singhiozzo e subito applicò l’aspiratore.
Vedendola slanciarsi come prima, dopo la cura, ebbe una grossa crisi esistenziale, rimuginò sul fatto di andare in Africa a domar leoni o di impiegarsi presso un grosso circo; per fortuna ben presto si riprese e quella crisi passò senza lasciar traccia.
Viaggiava sempre a piedi, il gran dottore, e non sapeva di nessun altro mezzo per muoversi e andare dai pazienti.
“Nell'esercizio fisico, “diceva, “ vi è la salute, più che in ogni farmaco.”
E grazie, direte voi, ha scoperto l’acqua fresca! Eh, no, un momento: ciò che non sapete è che erano tempi e luoghi, quelli, in cui non c’era ancora questa moda di correre e sudare, se non forse per guarire in un certo modo stravagante la più estrosa delle idiosincrasie.
Così si manteneva asciutto e magro come un ramoscello, e qualche volta oscillava al vento per quanto era leggera la sua massa. Mangiava poco, quel tanto che bastava a stare in piedi e correr dai pazienti.
Abitualmente portava nella tasca della giacca l’abbecedario del dottore esperto che sempre, dico sempre, consultava prima di dar pareri a tizio e Caio.
I suoi vestiti erano sempre neri, come il cilindro che portava in testa.
“L’uomo di scienza,” sentenziava sempre, ”non deve mai avere dei colori, dev'essere neutro, anche nel vestire”.
Col risultato di sembrare ancor più magro, e se lo s’incontrava in piena notte, mentre correva da un paziente in gran bisogno, lo si scambiava spesso per un palo, perché era alto, quasi metri due.
Non si era mai sposato perché, diceva: “Non può tradirsi la scienza con una donna, né con la famiglia”. 
Viveva solo con la governante, la signora Oriana, un tipo assai distinto, forse severa, ma stirava bene.
Si narra ancora di una guarigione che a buon diritto entrò nel libro delle scienze, e grandi onori furono tributati al buon dottore che non ne fece un vanto.
C’era in paese un grande recidivo, con un singhiozzo che perdurava almeno da un mese, e non trovava né pace né riposo… il dottor Singhiozzo lo fece sedere, gli disse due o tre parole dolci, lo consolò, lo incoraggiò bene bene, poi gli applicò il suo aspiratore e per un mese intero non lo tolse.
Il pover'uomo, sì, si lamentava e lacrime cadevano giù a fiotti su quelle guance incavate dalla fame, già che mangiare gli era impossibile con l’aspiratore sempre incollato alla bocca ad aspirare, giusto un po’ d’acqua, staccandolo un minuto, poteva bere e niente più. Nessuna concessione.
Ma dopo tutti questi sacrifici ecco che un giorno, e passato un mese, quel singhiozzaccio lo lasciò senza far più ritorno e lui, allora, fece un monumento (si può vederlo ancora nella piazza, tutto di marmo e alto metri tre) al suo dottore e all'aspiratore, e testimonia quanto fosse amato, il nostro buon Singhiozzo, dai suoi pazienti e dai concittadini.
Il fatto è che si preoccupava per davvero di farli vivere in salute e molto a lungo, ma ci teneva che fossero anche felici, diceva: “Conta molto esser contenti per restare sani”.
E  sempre, dico sempre, si dedicava a questa sua missione, specie la domenica ma non il venerdì: nel tardo pomeriggio se ne andava a fare visita a una vecchia zia, gran brava donna ma un po’ petulante, la quale spesso gli rimproverava di non pensare a lei quanto ai pazienti.  Ma lo diceva quasi per un vezzo e solo per sentirsi dire Non è vero! davanti ad una tazza di buon tè al limone, accompagnata da un bignè alla crema.
Eh, sì, credete, era lui il più grande.
Era l’unico, il solo.
Era il dottor Singhiozzo!

lunedì 12 marzo 2018

Le buone azioni danno buoni frutti - Gockel e Hinkel


Nelle fiabe si raccolgono i frutti delle buone azioni, ne abbiamo un esempio in Gockel e Hinkel di Clemens Maria Brentano ( 1778-1842), scrittore e poeta tedesco esponente del romanticismo.
In Gockel e Hinkel, infatti, il buon Gockel aiuta a tornare a casa sani e salvi i due topolini - principi  Pfiffi e Sissi che non dimenticheranno il suo gesto, e sarà proprio grazie a loro che la figlia Gackeleia ritroverà l'anello magico capace di ridare i beni e la felicità perduta alla sua famiglia.
Se non avete mai letto le fiabe di Brentano vi consiglio di  andare in biblioteca, luogo per me fiabesco di per sé  e pieno di suggestioni, e prendere in prestito il bellissimo libro Brentano- Fiabe  a cura di Ursula Isselstein - Mondadori Editore: contiene cinque delle sue fiabe più famose,  e in appendice altre cinque tratte dal Pentamerone di G.B. Basile.
Se amate veramente questo genere letterario è un libro che vi conquisterà.


domenica 11 marzo 2018

Meringa, la vincitrice



Gabbarla nella realtà sarebbe impossibile ma nelle fiabe l'impossibile diventa realtà.
Ecco perché Meringa, la protagonista della mia fiaba, ci riesce.

Buona lettura.






Meringa
Barbara Cerrone



Un giorno una donna bussò alla porta di Meringa.
“Meringa, Meringa, apri!” Disse. “Sono un’amica, vengo per darti buone nuove.”
Ma Meringa non rispose.
“Meringa, Meringa, non aver paura, ti dico. Vengo in amicizia.”
“Sono sola in casa,”rispose infine Meringa, “ e non apro agli sconosciuti.”
“Ma io sono un’amica.”
“Amica? Io non ti conosco, perciò non apro”.
La donna, vista la mala parata, smise di bussare ma decise di nascondersi in giardino. 
“Prima o poi di qui dovrà passare,e allora non potrà sfuggirmi” si disse.
Si erano fatte le quattro del pomeriggio ma Meringa non era ancora uscita.
“Si vede che aveva le provviste per il pranzo, ma stasera dovrà pur uscire e da qui dovrà passare. Io l’aspetto”.
Erano suonate le nove e Meringa non era ancora uscita.
“Si vede che aveva le provviste anche per la sera,  domattina senz'altro uscirà e da qui dovrà passare. Io l’aspetto”.
Si erano fatte le dieci del mattino seguente e Meringa non era ancora uscita.
“Qui la faccenda puzza, riproverò a bussare per vedere che accade”.
Ma Meringa non rispondeva. Allora si fece coraggio, prese un sasso grande come un pugno, lo tirò a una finestra del piano terreno e, dopo aver rotto il vetro, infilò dentro una mano, girò la maniglia ed entrò in casa.
“Meringa, Meringa, sono un’amica, fatti vedere, ora, non aver paura. Ho buone nuove”.
Ma Meringa non si fece viva, così la donna decise di controllare se per caso si fosse nascosta da qualche  parte, magari in un armadio o in qualche ripostiglio. Fece il giro della casa, dalla cucina al salotto alla camera: non trovò nessuno.
Stava per tornare sui suoi passi, quando si accorse di una porticina che dava sul retro della casa.
 “Dev'essere uscita da qui ” pensò tentando di aprirla. Ma la porta non si apriva.
”Eh, ma come l’hai chiusa questa porta, Meringuccia? Da fuori e con un catenaccio, eh? Vuol dire che ti aspetterò qui, finché non torni, magari mi stendo un po’ sul letto e nel frattempo faccio un riposino”.
Venne la sera e la donna si svegliò.
 “Meringa, Meringa, sono un’amica, ho buone nuove, fatti vedere”.
Ma Meringa ancora una volta non rispose. Piena di rabbia,  fece di nuovo il giro della casa e, neanche a dirlo, non trovò nessuno. Decise allora di uscire dalla porta principale, ma era chiusa anche quella dall'esterno e non si poteva aprire, perfino le finestre erano tutte sigillate.
“Meringa, Meringa, sei più furba di una volpe, mi hai intrappolata ben benino! Sono tua prigioniera e a te mi arrendo “disse la donna, e lì rimase.
Fu così che la giovane Meringa gabbò la Morte e, passando sotto la finestra, le fece marameo.





mercoledì 7 marzo 2018

La principessa dorminpiedi

 A proposito delle mie storie...
ecco "La principessa dorminpiedi", pubblicata anche sul sito "Tiraccontounafiaba.it".
Non  risponde esattamente ai canoni della fiaba vera e propria, ad esempio manca l'elemento magico anche se il mago c'è, ma è solo un imbroglione.
Ho deciso di proporvela ugualmente, nonostante sia una quasi-fiaba.
 Buona lettura...





La principessa dorminpiedi
Barbara Cerrone


Ogni re ha il suo cruccio, viceversa non si può dire che ogni cruccio abbia il suo re. Il monarca di cui vi parlo oggi aveva un grave problema: la principessa Betsabea, sua figlia. 
Niente da dire, Betsabea era una ragazza alta, bella, bionda, occhi azzurri, viso angelico, pelle rosea, mente acuta, cuor sincero, buon carattere, semplice, vera, nobile, fiera, elegante, virtuosa ma…eh sì, c’era un ma, un grosso ma: dormiva sempre. Di giorno, di notte, in piedi o seduta lei ronfava, e nessun medico aveva saputo spiegare la causa di quello strano morbo che tanto morbo poi non era, visto che la fanciulla sembrava un fiore appena sbocciato e mangiava di buon appetito (sonnecchiando).
Chiunque volesse scambiare due parole con lei, compresi i genitori, doveva accontentarsi dei pochi minuti durante la giornata in cui lei rimaneva abbastanza sveglia da poter capire una frase intera e rispondere senza russare. Per il resto del giorno la sua mente e i suoi occhi navigavano nel mare dei sogni: dormiva in piedi, seduta, sdraiata, dormiva mentre passeggiava in giardino sottobraccio a due damigelle, dormiva mentre ricamava, filava, giocava, nuotava, studiava, leggeva, abbracciava, salutava, danzava. Dormiva sempre. E russava, anche, talmente forte che tutta la corte fu costretta a procurarsi dei tappi di cera per non sentirla, solo che così era diventata una corte di sordi che dovevano comunicare a gesti e non vi dico l’imbarazzo con le delegazioni straniere!
Di questa gran disgrazia il re si doleva spesso con sua moglie, la regina Armida, la quale, poverina, non sapendo che dire né che fare, puntualmente tirava fuori un fazzolettino ricamato e piangeva calde lacrime, consolata dalle sue damigelle che, all'occorrenza, le soffiavano anche il regal naso. 
“Mia cara, non serve piangere, qui serve agire” diceva il re scuotendo il capo, perché sapeva bene che di azioni ne avevano fatte tante ma senza  risultati.
“Hai ragione,” ammetteva la regina, “ smetto subito ma che si fa? Il nostro medico dice che è melanconia, il guaritore che sono umori fermi, la negromante che si tratta di fattura ma nessuno ha saputo dare cure che facessero un qualche effetto.”
 Così dicendo riponeva il fazzoletto e si rimetteva a ricamare.
Una volta in cui la ragazza russava più del solito, le vibrazioni erano talmente forti che la sua dama di compagnia corse dalla regina per chiederle il da farsi.
“Eh,”rispose la sovrana, “ l’unica cosa che puoi fare è accompagnarla in camera sua e adagiarla sul letto, così nessuno la sentirà. Poveri noi!”
“Sarà fatto, mia regina” disse la dama  tornando svelta dalla principessa.
La ragazza nel frattempo si era svegliata (era uno di quei rari attimi in cui riusciva a tenere gli occhi aperti) e accolse la dama fissandola come se fosse stata una visione.
“Teodosia,”questo era il nome della damigella, ”che fai? Io voglio andare in giardino a giocare a palla, perché mi porti via?”
“Principessa, voi non vi rendete conto…stavate dormendo in piedi e… perdonatemi: russavate, ecco, e molto forte, tanto che la regina vostra madre mi ha chiesto di portarvi via perché non vi sentissero.”
“Davvero? Oh, povera me! Finirà mai questo tormento? Guarirò mai dalla mia malattia? Quale principe vorrà mai sposare una principessa dorminpiedi?” e così dicendo ripiombò subito nel sonno; Teodosia allora le mise una mano intorno alla vita per sostenerla e la condusse fino alla sua camera, dove la dormiente rimase fino al breve risveglio della sera.
Intanto nella reggia c’era chi rumoreggiava, ci si chiedeva da più parti come avrebbe fatto ad assicurare una discendenza una dorminpiedi capace di star sveglia solo pochi minuti al giorno. 
Il problema era grave, ne andava del futuro del regno, perciò i notabili erano davvero preoccupati e pensavano di chiedere al re di abdicare in favore del cugino Malvolto.
Chi era Malvolto? Il solito pretendente al trono cattivo, assetato di potere, avido e…brutto come la paura in una notte buia e tempestosa. Era il figlio del fratello del re, Odoardo, morto di indigestione durante non ricordo più quale epica battaglia. 
Odoardo, in punto di morte, pare avesse farfugliato al proprio attendente, tal Mercadante da Norimberga, qualcosa come: “Giura che ti impegnerai a fare di Malvolto un bravo usurpatore da grande! ” 
 Mercadante, dal canto suo, ci si era impegnato ben  benino, lo aveva mandato perfino all'estero a studiare,  tanto che a quindici anni Malvolto era già un esperto in complotti, trame di corte e trescacce varie.
Figuratevi, allora, l’angoscia del sovrano quando al suo regal orecchio arrivarono voci di una possibile congiura a favore di Malvolto! Non dormiva più la notte. Non ci stava più nella pelle. Non diceva più parola. Insomma era in ambasce. Viceversa Betsabea, che nulla sapeva di tutto questo gran fermento, era sempre più assonnata e immersa nei suoi sogni come un pesce nel mare.
Un giorno, mentre la principessa dorminpiedi era stesa sul divano, ufficialmente a riflettere sul proprio futuro (in realtà russava come un ghiro in letargo) si presentò a palazzo un certo mago Artemio, personaggio bizzarro e un po’ fasullo ma di gran moda presso le corti dell’epoca.
Arrivò accompagnato dai suoi fidi, un gatto zoppo, un cane cieco e tre topi a reggergli il mantello.
Era un mago diplomato alla scuola di magia di vattelappesca ma piaceva, e nessuno capiva il perché; oltretutto, fisicamente era piuttosto repellente, così alto e pieno di verruche sul viso angoloso ma tant'è: piaceva.
Anche in quella corte il suo fascino colpì nel segno, incantò subito la regina madre con il potere dei suoi occhi miopi e la convinse, lei che soffriva di vertigini, a camminare in bilico sul davanzale di una finestra della torre merlata come se da lì volesse prendere il volo.
Un’altra volta, invece, rimbambì a tal punto il re da riuscire a farlo cavalcare lungo una mulattiera che si affacciava su uno strapiombo. Il re poi ebbe visioni della carica di Balaklava, previde il terremoto di San Francisco ed ebbe incubi per una settimana. Sono cose che succedono.
Episodi come questi si ripeterono tante di quelle volte che i dignitari di corte cominciarono a temere per la vita dei loro sovrani, ma i due regnanti credevano fermamente che  Artemio avrebbe trovato prima o poi un rimedio per la loro figlia dorminpiedi, e guai a chi lo toccava.
A dire il vero questa speranza il mago non gliel'aveva data affatto, anzi, sapeva bene di non poter far nulla e non voleva compromettere la sua fama, perciò aveva sempre ammesso, non senza prima biascicare due o tre delle sue litanie,  che per svegliare Betsabea non c’erano pozioni né magie.
 Nonostante ciò, il re e la regina continuavano a sperare, e ogni giorno tornavano a chiedergli se aveva trovato un rimedio.
L’insistenza dei sovrani era tale che Artemio cominciava a temere di perdere  il suo  posto di mago a corte se non si fosse fatto venire subito un' idea.  Il guaio era che non aveva fra le sue pozioni nessun intruglio adatto, perciò si proponeva di studiare un qualche imbroglio, un trucco che gli permettesse di salvar la faccia, almeno per un po’.
Pensa e rifletti, rifletti e pensa, gli venne in mente una strana bibita, amara e scura, che aveva sorbito qualche anno prima in un paese lontano; si ricordò che, dopo averla bevuta, non aveva potuto prender sonno per qualche ora e il suo ospite gli aveva detto che, sì, era normale, era proprio un effetto di quella bevanda. Ma come farla arrivare fin lì? Scrivere a quella sua conoscenza lontana? Andar lui stesso a prenderne una scorta e, se fosse andata male, venderla poi agli allocchi come elisir di gioventù, tanto per rifarsi dello smacco? Pensò fosse meglio parlarne al re, che decidesse lui il se e il come.
“Sire,” gli disse il giorno dopo, “ forse so quale elisir ci vuole per la malattia di vostra figlia ma occorre procurarselo perché non si trova qui.”
“Davvero? E dove si trova? ” rispose il re tutto emozionato.
“In un lontano paese, dove io sono stato tanto tempo fa. Conosco una persona che ha questa miracolosa pozione ma non so che fare. Andare io a prenderla? E’ un viaggio lungo e pericoloso, poi ci sono le spese. Scrivere a quel signore e chiedergli che me ne spedisca? Anche qui i rischi non mancano, e il costo non lo so quantificare.”
“Ah, non vi preoccupate del costo, quello è affar mio. L’unica cosa di cui dovete preoccuparvi è che la pozione arrivi, il modo più sicuro è che andiate voi stesso? Allora partite subito. Vi darò tutto ciò che vi necessita, compresa una scorta di uomini al seguito per la vostra sicurezza. Partite, tornate con quel rimedio e che Dio sia con voi”.
A queste parole, Artemio il mago si ritirò, e andò nella sua stanza a far bagagli.
Il giorno dopo, all'alba, un corteo di uomini a cavallo, muniti di armi, viveri e denari in quantità si mosse da palazzo reale, mago in testa, alla volta del paese lontano dove  si poteva trovare la magica bevanda che avrebbe fatto di una dorminpiedi una sveglia principessa.
Procedettero senza intoppi fino al mare, il mago Artemio, che si era dotato di tutte le comodità possibili in quell'epoca in cui ce n’erano assai poche, schiacciava pisolini ad ogni sosta con la scusa di dover riflettere sulle massime questioni.
Uomini e cavalli, stanchi per il lungo viaggio, arrivati nella bella città di  Venicia  si diressero verso il porto per imbarcarsi  e proprio lì Artemio, per un puro caso del destino, incontrò un suo vecchio compagno di scorribande.
“Teodoro!” gridò vedendolo salire sulla sua stessa nave.“ Mi riconosci? Sono Artemio, ricordi?”
“Chi?” rispose costui guardandolo per un attimo fisso negli occhi. “ Ah, sì, certo! Quanto tempo...e cosa ti porta mai su questa navicella?”
“Oh, figliolo mio, i casi della vita” rispose Artemio e raccontò di questi casi al vecchio amico, mentre con il suo seguito, topi, gatto e cane compresi, prendeva posto a bordo.
“Capisco,” disse alla fine Teodoro, “certo, hai avuto una gran bella pensata ma sappi che a Venicia si può già trovare la bevanda che cerchi. In questa città commerciano con il paese dove sei diretto e qualche mercante ha già portato il qahwa che tiene svegli e dà gran tono al fisico,  e tu potevi evitare di fare tanta strada.”
“Non lo sapevo, caro mio e ormai la nave salpa ma ti ringrazio: dovesse andare bene per il  mio scopo saprò dove trovarne ancora, alla bisogna.”
Il viaggio filò liscio come l’olio, neanche una tempesta  o un temporaluccio, tanto che l’equipaggio se ne lamentò.
 “Ma così non c’è divertimento!” disse il più anziano. Non restava che sperare nel viaggio di ritorno.
Invece per i passeggeri e per Artemio, che passò tutto il tempo a ciarlare col suo amico, fu proprio un gran bel viaggio, il tempo passò così velocemente che quasi quasi il mago si stupì di esser già arrivato quando le coste di quel paese dove i serpenti danzavano a suon di musica comparvero all'orizzonte.
I due amici sbarcarono, si salutarono e presero strade diverse. Il mago e i suoi si diressero verso il palazzo del gran signore alla ricerca del qahwa, l’amico Teodoro andò…per i fatti suoi, non ci riguarda.
Il palazzo, immenso e circondato da un parco di sontuosa bellezza, aveva la facciata decorata con mosaici preziosi, smeraldi e lapislazzuli vi s'intrecciavano come in una danza a far disegni di pavoni, fiori e fontane zampillanti. Vederselo davanti per il nostro mago fu come assistere a un miraggio, solo che era vero.Verissimo.
“Accidenti!” esclamò Artemio aguzzando gli occhi. “ Non me lo ricordavo così bello!  Entriamo e speriamo che il signore si ricordi ancora di me e ci tratti da amici.”
Poiché quel signore aveva buona memoria furono accolti a suon di inchini e salamelecchi, mille tappeti furono stesi al loro passaggio, e per alloggio stanze degne di un re furono date a tutti loro, perfino ai topi, che ringraziarono sentitamente.
Il giorno dopo Artemio espose il caso nei dettagli (compreso il gran russare della fanciulla) e ottenne comprensione, aiuto e grandi scorte di quei chicchi scuri da farne polvere per la bevanda.
Dopo due giorni di agi e di riposo, Artemio e i suoi si congedarono dal loro ospite e presero la via del ritorno carichi di doni, di prezioso qahwa, e di nuova speranza, merce sempre a buon prezzo per chi la sa apprezzare.
Erano appena sbarcati a Venicia quando un emissario del re, preoccupato che tutto fosse andato per il meglio, venne loro incontro con altri viveri e cavalli freschi per il cambio.
L’arrivo a casa fu una specie di trionfo: feste, saluti, complimenti e petali di fiori. Sparò perfino due colpi il gran cannone.
 Fu subito scaldata l’acqua per l’infuso e portato un bel pestello per ridurre in polvere un po’ di quei chicchi.
La principessa Betsabea, neanche a dirlo, dormiva come un sasso ma fu svegliata a forza da una damigella (i secchi  d’acqua a volte fanno miracoli) e, mentre una domestica le teneva aperti gli occhi, Teodosia le versò un po’ di quel liquido scuro nella bocca e gliela chiuse perché lo mandasse giù.
“Oh, oh…cos'è questa cosa amara?” chiese la principessa storcendo un poco il naso.
“Bevete che questa potrebbe essere la vostra panacea”  disse Teodosia. E giù a versargliene ancora nel gargarozzo.
Ne sorbì un bel tazzone almeno o forse due, la principessa, e sentì come un morso allo stomaco, tanto che si temette per la sua salute.
Si chiamò d’urgenza il medico di corte e si gridò, dapprima, all'omicidio cercando sotto e sopra il mago Artemio e tutta la sua cricca.
Mentre si gridava e si brigava, un paggio solerte notò che era rimasta sveglia da trenta e più i minuti la bella Betsabea!
“Figlia mia adorata, “la vezzeggiò la madre chiamata al suo capezzale, “ tu dunque resti sveglia, finalmente? Oh, grande gioia, oh gioia senza fine!” e tirò fuori l’eterno fazzoletto.
Il mal di stomaco, intanto, era passato e la fanciulla, più sveglia di un’allodola al mattino, saltò sul letto pronta a far le corse.
Artemio fu condotto innanzi al re per fargli i complimenti e ricolmarlo dei più alti onori: primo ministro, primo ciambellano, primo un po’ in tutto e una tenuta fuori porta, per gradire.
La nostra Betsabea, che da quel dì ne bevve di  qahwa e lo diffuse fra le sue amiche, le più addormentate, finalmente ebbe una vita sveglia e piena di gioia.
Un giorno si sposò con un principe straniero, mi pare, figlio di quel signore che le mandava il qahwa ogni mese; a dire il vero questa fu un’idea del re suo padre il quale, per risparmiare sul costo della merce, pensò a un matrimonio combinato con quel rampollo, e pensò bene. Lo sposo era assai bello, assai ricco, assai intelligente e assai gentile, fu subito amore e amor per sempre. Condito da un bel po’ di lapislazzuli.
Che volete da me? Questa è una fiaba e tutto fila liscio, perfino i matrimoni combinati.
I due sposini, felici, felicissimi, ebbero subito un bellissimo bambino, sano e robusto come si conviene.
Sì.
Peccato che non dormiva mai.
 “Ve l’avevo detto, principessa.Troppo qahwa nella dolce attesa”,  diceva il medico e sospirava la nutrice.
Pazienza pensava il re.  “La perfezione non è di questo mondo” diceva alla consorte rassegnato,
 “ beviamo un po’ di qahwa che anche per stanotte veglieremo.”




Foreste e fiabe


C'è un bellissimo post pubblicato sul blog:Capitano mio Capitano di Paolo Cognetti che tratta un argomento a me molto caro: le foreste.
Vi consiglio di leggerlo, soprattutto se anche il vostro cuore batte per gli alberi, come il mio.
Gli alberi sono miei fratelli.
Da piccola abitavo in una strada che si chiamava "via dei platani", io amavo quegli alberi, in un certo senso li avevo inglobati nella mia famiglia. Un giorno li hanno tagliati, senza piantarne altri.
Quella via ora è soltanto una strada.
Cosa c'entrano le foreste con le fiabe? Ma come! Quante volte gli eroi e le eroine delle fiabe si perdono, fuggono, vivono, incontrano nel folto delle foreste? Sono una sorta di teatro naturale per questo genere letterario.
E un pezzo del mio cuore bambino.

martedì 6 marzo 2018

Fiabe e realtà

In questi giorni sembra quasi assurdo parlare di fiabe: elezioni, problemi, discussioni, ecc.ecc.
Cose molto, molto serie. Serie come il nostro futuro. O come una fiaba, insisto, dove spesso si parla di re prepotenti o di malvagi sconfitti da umili e intrepidi  personaggi  con molto sale in zucca.
La fiaba è meritocratica, anche un povero ragazzo come Cipolla riesce a diventare re: un re onesto, buono e coraggioso.
Nella realtà la cosiddetta "mobilità sociale" sembra più difficile a realizzarsi,  il merito  non viene sempre  riconosciuto, oppure chi lo possiede deve piegarsi a qualche compromesso.
Probabilmente nel mondo reale sarebbe molto più complicato per un Cipolla qualsiasi affermarsi.
Ma è sempre vero? Ad esempio in campo artistico: il grande talento  riesce ad imporsi e ad affermarsi anche  senza  scendere a patti con la propria  coscienza?
Non credo ci siano verità assolute, e certo per affermarsi contano molto la determinazione e il carattere.
Lasciato il buon Cipolla alla sua nuova vita da re, ecco una "fiaba" sui generis, che qualcuno ha definito una "parabola fulminante", datata 2015; scrivendola non pensavo a una persona in particolare, di re della bugia ce ne sono molti nel mondo e in ogni ambiente.
Non è molto allegra, lo ammetto. Non sempre le fiabe lo sono: nella tradizione popolare ne esistono di quelle che non sono a lieto fine,  e se avete  letto "Fiabe italiane" di Italo Calvino sapete di cosa parlo.
A questo proposito mi viene in mente un racconto di Tommaso Catani, "La congiura delle galline", storia di un pollaio che finisce molto male per seguire i capricci di una gallina sciocca e viziata: grande  fantasia e umorismo finissimo ma nessun lieto fine.
E' il momento di lasciarvi alla mia "parabola fulminante", buona lettura.





Il re della bugia

Barbara Cerrone



Il re della bugia diceva un mucchio di bugie che avevano le gambe corte, perciò andavano poco lontano; nessuno lo puniva perché lui era il re.
Il re della bugia era grasso, tondo e basso, anche gli occhi erano grassi come due palle e guardavano un po' qua e un po' là.
Il re della bugia non aveva paura di nulla perché con le frottole se la cavava sempre e tutti gli facevano mille applausi.
Il re della bugia era piuttosto ben visto nelle alte sfere, il perché nessuno lo sa, forse perché era re e le sfere non erano mai più alte di lui.
Il re della bugia un giorno fece un editto e ci fece scrivere tutte le fandonie che gli venivano in mente in quel momento e tutti i sudditi lo ringraziarono con mille inchini.
Il re della bugia una volta si ammalò, si disse fosse grave, moribondo, invece era soltanto stanco morto e non aveva voglia di regnare. Regnò la moglie al posto suo ma fu troppo sincera: ne nacque quasi una rivoluzione, poi tornò il re e tutto filò liscio.
Il re della bugia non sapeva leggere, scrivere poco, tanto non lo faceva lui, al popolo piaceva tutta questa ignoranza e lo applaudivano ancora di più. Viceversa la moglie era scontenta e piangeva sempre con un prelato che almeno sapeva di latino ed era istruito.
Il re della bugia aveva un grosso foruncolo sul naso, una volta disse la verità e il foruncolo esplose come una bomba. Rimase a letto per una settimana, poi disse una fandonia, il foruncolo ricomparve e lui tornò al lavoro.
Il re della bugia aveva dodici figli, uno più bugiardo dell’altro. Diventarono tutti famosi ma solo per le bugie, non per altro.
Quando era molto vecchio il re della bugia si ammalò, i suoi sudditi non ci credettero e pensarono fosse una frottola, così nessuno andò a trovarlo.
Morì solo. 
Subito dopo si fece un altro re.

Fiabaterapia

Fiaba come terapia e percorso di crescita, quante volte vi è capitato di sentirlo? E' proprio così, la fiaba aiuta i nostri bambini  a crescere, a gestire ed esprimere le emozioni.
In realtà anche gli adulti possono giovarsi della fiaba terapia: leggerle significa fare un tuffo nelle acque più profonde del nostro io, per riemergere poi come rinnovati. E se proprio non ce la fate a tuffarvi, potete comunque galleggiare in superficie, godendovi l'acqua fresca e pulita, e ritrovare per qualche minuto il sorriso lasciato in mezzo alla fila davanti al semaforo.
C'è un libro, una raccolta di fiabe popolari italiane che io leggo e rileggo da anni quando voglio ritrovarmi, e che ogni volta mi sorprende e mi affascina: "Fiabe italiane" di Italo Calvino.
Lo tengo sul mio comodino, sta lì, pronto a soccorrermi ogni volta che ne ho bisogno.
A questo proposito bisogna aggiungere che c'è una distinzione da fare tra fiaba e favola dal punto di vista letterario, lo spiega bene la maestra Sinforosa Castoro ( pseudonimo, ovviamente!) in un post che tratta questo argomento in modo chiaro ed esauriente; questa differenza, a quanto affermano alcuni psicanalisti, è importante  anche per gli effetti sulla nostra psiche: la fiaba sarebbe più capace, rispetto alla favola, di parlare al nostro inconscio e fare da specchio alle nostre emozioni.
Sinforosa tiene un blog molto interessante, SINFOROSA CASTOleRO, se vi va fateci un giro e andate a leggere questa bella lezione della maestra Sinforosa.
Personalmente  trovo terapeutico anche scrivere fiabe, ho iniziato a confrontarmi con questo genere letterario una decina di anni fa, fino ad allora avevo intinto la mia penna solo nell'inchiostro della poesia e del racconto.
Fra le mie creature ce n'è una alla quale sono particolarmente legata proprio perché è nata in un periodo difficile in cui mi sentivo senza via d'uscita, si tratta di "La principessa dorminpiedi", pubblicata qualche tempo fa sul sito "Tiraccontounafiaba.it".
Non so  se è la più bella ma di sicuro è una di quelle che mi hanno fatto stare meglio scrivendola, ve la proporrò nei prossimi giorni.
Concludo questa fiabadivagazione  con un mio omaggio alla fiaba popolare italiana, "Re Cipolla", che lascio alla vostra lettura, sperando vi faccia buona compagnia.
Buon tuffo.








Re Cipolla
Barbara Cerrone



C’era una volta in un paese non troppo lontano un orfano tanto povero che mangiava sempre pane e cipolla e per questo motivo tutti lo chiamavano Cipolla.
Un bel giorno, stanco di non saper come mettere insieme il pranzo con la cena, fece fagotto e partì per il mondo a cercar fortuna.
Cammina cammina, arrivò nei pressi di un ruscello e si fermò a bere un sorso perché moriva dalla sete. Passava di lì un vecchio pellegrino e vedendolo curvo a bere quell’acqua gli disse: “Buongiorno, ragazzo, bevi quell’acqua? Stai attento perché non è buona, più avanti c’è il paese e lì trovi una fontanella che è una delizia, l’acqua viene fresca e pulita dai monti. Ti conviene tenerti la sete e bere di quella”.
“Oh, grazie dell’avvertimento,” rispose Cipolla,” ti prendo in parola. Già che sei così gentile, sapresti dirmi quanto dista il paese? C’è brava gente o c’è gente cattiva?”
“Mezz’ora da qui, se vai di buon passo. La gente è brava e onesta, peccato che soffre la fame a causa di quel principe dannato.”
“Quale principe?” chiese Cipolla tutto incuriosito.
“Il principe del paese, un tiranno assassino e usurpatore. Si spaccia per l’erede al trono ma tutti sanno che è un imbroglione e il vero erede l’ha ammazzato lui.”
“ E come avrebbe fatto a combinar questo macello? “
“Eh, figlio mio, complicità di cortigiani infedeli! Quando il re è morto, lasciando solo quell’erede in tenera età, fu facile per quei delinquenti trovare un fantoccio per fargli fare quel che piaceva a loro e ammazzare il giovane con una pozione, dicendo poi che era morto di  malattia.”
“Brutta faccenda. Mi dispiace per quella gente, comunque io non ho paura, andrò lo stesso a vedere il posto e se c’è da lavorare resterò. Grazie, buon uomo.”
“Aspetta, ti voglio dare un ricordino del nostro incontro, potrà tornarti utile se ti dovessi trovare nei pasticci. Ecco, tieni, prendi questa pietra, mettila in tasca e tirala fuori solo se sei nei guai: basterà che tu le chieda aiuto e ti caverà da ogni impiccio.”
“Grazie,” disse Cipolla,”a buon rendere, se ci incontreremo ancora.”
Poi, preso il sassolino, se ne andò per la sua strada.
Dopo una mezzoretta il nostro amico arrivò al paese. Entrò dalla porta principale e non vide nessuno.
 “Strano,” pensò,” è l’ora del mercato e non c’è nessuno per la strada? Non ci sarà mica qualche malattia in giro? La peste o che so io?”
Giunto nella piazza grande, davanti alla chiesa, non vide anima viva neanche lì.
“Eh, no, qui c’è qualcosa che non va, toh, ecco un passante! Vediamo se mi dà qualche informazione. Signore, buongiorno a voi, sapete dirmi se qui c’è qualcuno che offre lavoro? So far di tutto e non ho di che mangiare…”
“Ragazzo,” rispose l’uomo spaventato come se avesse visto il diavolo in persona,”qui non si dà parola agli sconosciuti, è proibito dalla legge.”
“Legge? Che legge? Io non so di queste leggi strane, son qui per lavorare e basta.”
“Il principe impicca chi rivolge la parola agli stranieri, abbi pazienza e lasciami stare.”
“Ah, ci siamo! Il principe famoso…a me non importa di questo principe e delle sue leggi bizzarre…signore, ma dove andate? Ecco, è scappato! E ora? Forse conviene che io me ne vada, qui mi pare proprio che non ci sia nulla per me.”
Cipolla aveva già voltato le spalle per tornare indietro quando una vocina lo chiamò:
 “Cipollaaa! Cipollaaa!”
“Oh, chi mi chiama? Dove sei vocina che conosci il mio nome?”
“Son qui, sotto questa stuoia, alzala, presto!”
Cipolla alzò una stuoia buttata là, per strada, come un rifiuto abbandonato e chi ci trovò? Un topolino tremolante che lo guarda come una visione.
“E tu? Che fai lì tutto impaurito? Come mi conosci tu che sei topo?”
“E’ storia lunga assai,” rispose il topo, “ma non conta, adesso. Quel che ti chiedo è di liberarmi da un sortilegio che mi vuole topo mentre ero uomo e di gran famiglia. Ti prego, se hai onore, rendimi libero e guadagna per te un intero regno.”
“Come? Un regno? E che me ne faccio?” disse Cipolla.”Mi basta un buon lavoro e un tetto, non ho grandi ambizioni, son uomo semplice, ignorante, e di bocca buona. Ma se è per aiutarti ti aiuto ben volentieri.”
“Grazie, sapevo che eri generoso, coraggioso e forte, che altro serve più di questo per esser nobile e regnare? L’istruzione te la farai più tardi. Ora senti: c’è un principe usurpatore che rende questo paese come l’inferno e nessuno finora è riuscito a sconfiggerlo, perché è spietato, furbo e circondato da infami come lui. C’è un solo modo per liberarci tutti da quel mostro, ma ci vuole un uomo come te per farlo. Dovresti attraversare da solo la prateria che troverai uscendo dal villaggio. E’ una terra stregata, piena di mostri e di bestie feroci. Se ce la farai, sappi che sarai re di questo paese e le ricchezze del regno saranno tue e dei tuoi eredi. Quanto a me, sarò liberato da questo corpo che mi umilia e tornerò uomo, nobile e ricco com’ero prima di quest’incantesimo.”
“Attraversare una prateria? Tutto qui? E che ci vuole? Parto subito, topolino, considerai già liberato. Chi ha sofferto la fame, non teme nulla!” rispose Cipolla e si diresse in gran fretta verso la prateria.
Uscito dal villaggio, non andò subito a cadere in un pantano così vischioso da sembrare di star nelle sabbie mobili?
“Che l’inferno se lo prenda, quel principe! Se non ne esco, non mi chiamo più Cipolla! Ora ti faccio vedere io! “disse e tirò fuori la pietra.
 “Pietra, pietruzza mia, aiuto!”
La pietra  obbedì senza riserve e fece sciogliere quel fango che diventò polvere fine fine, tanto che si alzò il vento e se la portò via.
“E uno!” esclamò Cipolla scuotendosi  i panni.
Andò avanti e trovò un altro grosso impiccio: un leone grande come un palazzo gli stava davanti proprio davanti come se lo aspettasse.
“Che vuoi da me, bestiaccia? Ora ti sistemo!” prese la pietra e disse:
 “Pietra, pietruzza, aiuto! Trasformalo in un gatto che se avrò topi mi sarà d’aiuto”.
La pietra, ancora ubbidiente, lo fece diventare un micino così grazioso che a vederlo ci s’innamorava.
“Bel gattino vieni dal tuo padrone. D’ora innanzi, se sarò re e tu prenderai i topi, avrai del pesce fresco a colazione.”
Preso anche il gatto, avanzò ancora un po’ tutto baldanzoso, quando ecco dal nulla venir fuori un serpentaccio che lo avvinghia e lo tiene così stretto che non può nemmeno prendere la sua pietra.
“Ahi, gattino mio,” sospirò Cipolla disperato,”questa volta la vedo brutta.”
E mentre si lamentava così, venne inghiottito dal serpente, con tutto il gatto a fargli compagnia.
Dentro la pancia del rettile Cipolla non si scoraggiò,  prese la pietra e disse piano piano:
 “Pietra, pietruzza mia, aiutami a uscire con il gatto sano e salvo”.
La pietra, allora, tagliò in due il serpente assassino, che poi scomparve come nebbia al sole, e Cipolla uscì da quella prigione vivo e vegeto, insieme al suo compagno.
Arrivato quasi alla fine del percorso, Cipolla contava di non aver altre sorprese e invece arrivò un drago sputa fuoco che lanciò fiamme a più non posso verso i due meschini.
Cipolla prese la pietra e chiese ancora aiuto, ed ecco sgorgare dal nulla una gran cascata d’acqua che spense le fiamme e fece annegare il drago.
“Ora sarà finita con questi mostri! “ pensò Cipolla, ma finita non era perché gli si aprì la terra sotto i piedi e apparve un fiume pieno di coccodrilli che se lo volevano mangiare. Cipolla, allora gridò:
 “Pietra, pietruzza mia, aiutami ancora!”
Neanche a dirlo: il cielo si fece scuro, scoppiò un temporale con tuoni e fulmini che scacciarono tutti i coccodrilli e il fiume scomparve sottoterra.
Finalmente finirono le prove e Cipolla uscì dalla prateria insieme al gatto.
 In lontananza c’erano delle case, Cipolla vide che erano le stesse che aveva lasciato prima, capì allora che quella prateria girava intorno al paese e disse:
“Ecco, questa è bella, siamo tornati al punto di partenza". Poi prese il gatto e andò tutto contento a prendersi il suo premio.
Arrivato al paese, trovò gli abitanti schierati ai lati della strada per fargli festa quale vincitore. “Cipolla! Re Cipolla! Il nostro eroe, il liberatore!”
Cipolla salutò con grandi inchini e sorrise a tutti, bestie comprese. Un gran cavaliere gli si avvicinò. “Ti ricordi di me? Sono quel topo che hai incontrato all’inizio di tutta l’avventura. Come vedi sono tornato uomo, il principe, che era un demonio travestito, si è dileguato dopo la sconfitta e ora il popolo è libero e felice grazie a te. Sarò un tuo fedelissimo se mi vorrai al fianco, re Cipolla, nostro re!”
Cipolla allora ringraziò e si mi mise subito a fare il re di buzzo buono, e ci riuscì davvero, trovò ben presto anche una principessa che lo sposò e gli diede un bell’erede.
Il gatto poi ebbe pure lui il suo compenso, mangiò buon pesce fresco ogni giorno e le lische le buttò nell’immondizia.
Re Cipolla regnò con gran saggezza per molti molti anni, e ancora oggi se passate da quelle parti vi racconteranno la sua storia, e vi diranno che re fatti così non se trovano più né in questo né in nessun altro mondo.