Non è facile fermarsi a pensare quando tutto intorno gira vorticosamente: le luci, le vetrine, i regali...tutto ci invita a vivere il piacere della festa.
Per chi non crede forse Natale è una specie di fiaba, e come tale la vive, tornando malinconicamente alla realtà quando finisce. Per chi crede, invece, Natale non è una fiaba ma una bellissima realtà che ci accompagna come una luce di speranza per tutta la vita.
Buon Natale a tutti, dunque, credenti e non: scegliete voi da che parte stare.
Auguri!
Barbara
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domenica 23 dicembre 2018
domenica 16 dicembre 2018
Un buonissimo Natale
Natale. Tante luci e qualche ombra, dissiparla sarebbe il più bel regalo. Per tutti.
Un buonissimo Natale
Barbara Cerrone
Un buonissimo Natale
Barbara Cerrone
C’era una volta un Natale, era
piombato da un giorno all'altro come un ospite inatteso nella casa di una famiglia
molto povera che non riusciva a mettere insieme il pranzo con la cena,
figuriamoci se poteva organizzare il pranzo della festa.
Il Natale si rese subito conto di aver sbagliato indirizzo, era atteso in
una bella casa nel bel mezzo di un paradiso tropicale, con un grande giardino e
un enorme albero pieno di luci colorate messo
al centro della sala da pranzo.
“Per Santa Claus!” esclamò guardandosi intorno. “Come avrò fatto a finire
qui, fra questi poveracci? Il navigatore...ma sì, è stato quello stupido aggeggio
a farmi atterrare qui, non devo più seguirlo,
mi manda fuori strada! Devo
proprio tornare ai vecchi metodi, tanta tecnologia e poi fa cilecca”,
Mentre il Natale brontolava in questo modo, a dire il vero poco natalizio, la famiglia
poverissima si interrogava sul da farsi: come preparare una degna accoglienza ad
un Natale che ormai non aspettavano più da anni? Che cosa mettere in pentola
per fare onore all'ospite e festeggiare insieme? Un osso di nulla, un etto di
poco, un piatto di vuoto e un bicchiere di aria?
Troppo misero, si vergognavano di riceverlo così.
Troppo misero, si vergognavano di riceverlo così.
E allora? Pensa e ripensa il padre ebbe un’idea.
“Portiamolo a pranzo dai cugini ricchi, loro sì che festeggiano da
signori! Il Natale sarà contento e noi
faremo bella figura”.
La famiglia ci pensò un attimo, tutta riunita intorno al caminetto
spento, poi decise all'unanimità di far proprio così, era al’unico modo per
salvare capra e cavoli e far contento anche il Natale.
I cugini ricchi abitavano dall'altra parte della città, dove vivono di
solito quelli che i soldi ce l’hanno, la famiglia povera ci andò a piedi col
Natale che si lamentava per il freddo e chiedeva almeno una sciarpa da mettere
al collo visto che era uscito così dalla naftalina, senza nemmeno un
cappottino sulle spalle.
“Scusi, signor Natale,” ebbe a dirgli la mamma,” ma lei è stato proprio
imprudente a vestirsi con questi abiti leggeri, non ricordava più che la sua
festa viene ogni anno in pieno inverno?”
“Certo, signora mia ma negli ultimi anni io mi sono visto festeggiare
spesso in luoghi caldi e lontani, che so? Ai tropici, o in qualche isola dove è
sempre estate e stavolta mi sono confuso.”
“Capisco, capisco, ha sbagliato posto , mi pareva strano che fosse venuto
proprio da noi. Si faccia coraggio, siamo quasi arrivati, dai nostri cugini
troverà un bel fuoco caldo e tante buone cose da mangiare”.
I cugini appena videro la famiglia povera si misero subito sul chi va là, tuttavia fecero buon viso a cattivo gioco perché non
volevano sembrare dei cattivi senza cuore davanti al Natale in persona, così esibirono il più bel sorriso che avevano e finsero di
essere contenti.
“Chi si vede? Entrate, prego, siate i benvenuti. Signor Natale, che bella
sorpresa, e che onore averla come ospite!”
Il Natale si accomodò subito nel salotto buono, la famiglia povera,
invece, che sapeva di non essere gradita, rimase sulla soglia.
“Ecco, ora il Natale avrà un’accoglienza degna di lui. Noi andiamo,
sappiamo che qui non c’è nulla per noi” disse il padre facendo segno agli altri
di andar via.
I cugini ricchi per un attimo finsero di volerli trattenere, in realtà
erano ben felici di liberarsi di loro e dedicarsi solo al Natale, venuto in
casa loro a festeggiare.
La famiglia povera tornò mestamente a casa, chiedendosi cosa avrebbe
mangiato quel giorno a pranzo, visto che in dispensa c’erano solo qualche uovo e
un pezzo di pane.
“Idea! “ fece il figlio più grande.” Che ne dite di una bella frittata? La
accompagneremo con quel buon pane e buon pro ci faccia”.
Tutti approvarono la sua idea e appena tornati a casa si diedero subito a
preparare la frittata.
Intanto il Natale, seduto a capotavola, gustava piatti
prelibati coccolato e vezzeggiato da tutti come una star.
“Ne vuole ancora?” chiese la cugina madre porgendogli una fetta di panettone,”
è di quello buono...”
“Non ne dubito, signora ma sono davvero pieno. Basta così, casomai gradirei un
caffettino.”
La cugina si mise subito a prepararlo, felice di accontentare in tutto il
suo ospite.
Il Natale, però, sentiva come un peso sullo stomaco.
“Forse ho mangiato troppo” pensò toccandosi la pancia piena.
La sua pancia, in verità, gli rispose che stava benone e non era questo che gli
faceva sentire quel gran peso.
“Che sarà mai, allora? Cosa mi succede?” si chiese il Natale corrugando
la fronte.
Rimugina e rifletti sentì salire dal profondo del suo animo natalizio una
risposta che lì per lì lo disorientò.
“Quella povera famiglia. Saperli a piluccare qualcosa alla meglio mentre
qui si gozzoviglia al caldo, è questo che mi pesa. Strano, ultimamente non mi ero
affatto interessato di chi non può festeggiarmi, come mai oggi sento questa specie di rimorso? Forse perché gli altri anni ero in trasferta ai
tropici e oggi sono qui e li ho visti con i miei occhi? Sì, dev'essere per
questo. Che cosa posso fare, allora?”
Il Natale era indeciso: restare ancora al caldo a godersi un bel caffè
oppure...oppure.
Oppure.
Era freddo, e lui aveva un abito leggero, ma camminava così in fretta che
quando arrivò davanti alla porta della
famiglia povera era accaldato e quasi sudava.
“Eccomi, sono tornato” disse entrando con passo trionfale.
La famiglia povera non credeva ai propri occhi: il Natale era di nuovo lì
e voleva festeggiare al freddo e senza nemmeno uno straccio di
panettone!
Avevano appena finito di mangiare la frittata, non c'era nulla da offrire all'ospite, se ne rammaricarono ma Natale disse di non preoccuparsi, aveva già mangiato in abbondanza, voleva solo stare in compagnia.
Il figlio più piccolo, allora, prese la sua armonica e cominciò a suonare, si misero da un lato le sedie e senza porre tempo in mezzo si diede inizio alle danze
Fino a sera ballarono e cantarono, si divertirono come matti; il Natale, soprattutto, non aveva mai riso tanto nella sua lunga vita.
Avevano appena finito di mangiare la frittata, non c'era nulla da offrire all'ospite, se ne rammaricarono ma Natale disse di non preoccuparsi, aveva già mangiato in abbondanza, voleva solo stare in compagnia.
Il figlio più piccolo, allora, prese la sua armonica e cominciò a suonare, si misero da un lato le sedie e senza porre tempo in mezzo si diede inizio alle danze
Fino a sera ballarono e cantarono, si divertirono come matti; il Natale, soprattutto, non aveva mai riso tanto nella sua lunga vita.
Tutti insieme passarono una giornata bellissima e quando, a tarda sera , il Natale disse che per lui era
ora di tornare a casa, i suoi ospiti ne furono molto dispiaciuti perché un Natale
così bello non lo avevano passato da anni.
“Ci vedremo il prossimo anno,” annunciò il Natale, “spero che le cose
vadano meglio per voi. Magari la prossima volta andremo insieme alla Messa di
mezzanotte, che ne dite?”
Certo, dissero, non desideravano altro.
Nonostante tutto avevano fede, molta,
molta fede e il Natale era il momento giusto per dimostrarlo.
venerdì 14 dicembre 2018
Gatto Natale
Un gatto affamato, una città in pieno delirio natalizio e un'idea brillante...
Buona lettura
Buona lettura
Barbara Cerrone
A Natale, si sa, la città impazzisce.
Vortici di teste in frenetico circolo volteggiano in una danza di api
industriose che succhiano il nettare delle vetrine illuminate a festa, bambini
esaltati dalle luci e dai colori dei giocattoli esposti nei negozi, si perdono poi fra gli scaffali dei supermercati,
mentre le madri pagano il conto chiacchierando con le amiche.
Un tripudio di allegria costruita per far sì che Natale sia Natale, e non assomigli a nessun' altra festa.
Un tripudio di allegria costruita per far sì che Natale sia Natale, e non assomigli a nessun' altra festa.
In questa frenesia collettiva dove
nessuno sembra accorgersi di ciò che gli succede intorno, come fa un gatto
randagio, rosso di pelo e dal carattere iroso, a raccattare un’elemosina di
cibo?
Mai come a Natale la gente sembra
distratta dallo sfavillio della festa incombente e concentrata
su di sé come un bambino in attesa di doni. Così pensava Gatto Rosso, un vero
randagio, arruffato dentro e fuori, pieno di pulci che mangiavano, loro sì,
senza ritegno, il suo sangue malnutrito dai pochi e magri pasti.
Come attirare su di sé l’attenzione di
qualche signora in vena di buone azioni o di un bambino innamorato dei gatti e
di ogni animale che assomigli a un peluche? Difficile. Nel calpestio, poi,
dello shopping-arrembaggio, addirittura impossibile. Dunque, che fare?
Guardandosi intorno alla ricerca della soluzione che non veniva, vide un uomo
vestito di rosso che qualcuno chiamò Babbo Natale e si accorse che quasi tutti
i bambini si fermavano davanti a lui e non volevano più andarsene, mentre le
mamme, reduci da lotte furiose a colpi di scontrino, spendevano le residue
energie nel tentativo di portarli via.
“Buon trucco,” rimuginò Gatto Rosso,”se avessi
anch'io un vestito come quello forse qualche bambino si volterebbe a guardarmi
e allora…via col mio sguardo liquido da gatto senza tetto, un po’ di fusa
ruffiane e...voilà! Ci scappa, magari, la salsiccia o il barattolo del
supermercato.”
Ma come procurarsi quel vestito? Nella
sua testa di felino ruminarono mille idee, quella giusta, però, si presentò
soltanto a tarda sera, quando il Babbo Natale a due gambe si ritirò dal
marciapiede e fece per andarsene.
“E se lo seguissi?” si disse il gatto.”Così
scopro come fa a vestirsi così.”
E via dietro a quel bipede con la grossa
pancia penzolante!
Si ritrovò in un posto curioso, pieno
di tanti Babbo Natale che si slacciavano la pancia finta e ridevano tra loro
scambiandosi le impressioni della giornata.
Gatto Rosso si era nascosto dietro una colonna
di cemento ma uno di quei Babbi lo vide e gridò:
”Guardate, abbiamo visite”.
Tutti i Babbi si voltarono e fu subito
tutto un Micio, micio, vieni bello. Gatto Rosso cercò di dirigersi come un fulmine
verso l’uscita ma fu bloccato da un giovincello allampanato di nome Giosuè; con
tante facce intorno che gli facevano le fusa (così gli parve) non gli rimase che
arrendersi e sperare per il meglio.
Fu proprio quel Giosuè che ebbe l’idea.
“Ehi, ragazzi, perché non vestiamo anche lui
da Babbo Natale?”
Gatto Rosso capiva poco la lingua umana
ma quando lo acconciarono alla meglio con un berretto rosso sulla testa e un
campanaccio al collo non ebbe più dubbi: aveva raggiunto il suo scopo.
La mattina dopo era con loro davanti ai
grandi magazzini.
Così ebbe inizio la fulminante carriera di
Gatto Rosso, subito soprannominato Gatto Natale. Un successo che finì sulle prime
pagine dei giornali e perfino alla televisione.
Gatto Natale divenne una star ed ebbe pappa e
cuccia comoda assicurate per tutto il resto della sua vita felina.
Ricco e famoso, finì serenamente i suoi
giorni in una pensione a cinque stelle per mici anziani, circondato dall'affetto dei suoi fans.
domenica 2 dicembre 2018
Salta, salta
Chiamiamola favola, anche se della favola mancano alcuni elementi, ecco la storia breve di un saltatore pentito...
buona lettura
Salta, salta
Giuseppe saltava spesso di palo in
frasca perché saltare era la sua
passione.
Saltava i fossi facendo jogging la mattina, per
dimagrire saltava anche i pasti. Una volta saltò la colazione ma fu uno
sbaglio perché poi andò al lavoro con i nervi a fior di pelle e tutta la giornata
gli andò storta, ebbe una nota dal suo principale e un collega gli tirò un temperino.
Cose che capitano a molti saltatori.
Cose che capitano a molti saltatori.
Il suo animale preferito? Ovvio: il canguro! E fra gli insetti? Le
cavallette senza meno, i grilli no, perché d’estate tutto quel cantare gli dava fastidio,
disturbava la sua pennichella pomeridiana.
Quando leggeva un libro spesso saltava qualche pagina tanto per tenersi
in esercizio, col salto in lungo aveva
vinto molti premi, il salto in alto era
il suo sport preferito e cucinava sempre i saltimbocca, erano quelli la sua specialità.
Il salto nel vuoto, invece, non l’amava,
quello nel buio lo faceva spesso quando la sera rientrava a casa sua.
E gli piaceva anche saltar per aria sulla poltrona, vedendo un
giallo, davanti alla tv.
Ma salta salta un giorno vide sua moglie in compagnia di un
amico e saltò subito alle conclusioni: finì così il suo matrimonio, da allora
in poi non saltò mai più.
martedì 27 novembre 2018
Mani in acqua - seconda versione
Ecco la versione modificata di "Mani in acqua".
Buona lettura.
Barbara Cerrone
Buona lettura.
Mani in
acqua!
C’erano
una volta due piccole mani che non si volevano mai lavare.
Quelle
manine si sporcavano con le matite e con la cioccolata.
Sotto
le unghie avevano la terra del giardino.
C’era
la marmellata sulla punta delle loro dita.
L’acqua
però non la volevano neanche vedere.
E se il
sapone zitto zitto si avvicinava... aiuto! Le dita litigavano fra loro.
“Tu sei
il più sporco, tocca prima a te!” urlava Mignolo
“Ma cosa
dici? Sei sporco quanto me!” gli rispondeva subito Anulare.
Poi Anulare spingeva avanti Medio.
Medio dietro
il fratello Indice cercava di scappare.
L’indice, poi, si nascondeva sotto il pollice.
Il pollice?Eccolo sotto il palmo della mano
per non farsi acchiappare.
“Quattro? E dov'è il quinto ditino?’” chiedeva
la mamma.
La
mamma cerca cerca lo trovava sempre, quel birbante.
Ed
eccoli finalmente tutti insieme, mogi mogi sotto al rubinetto.
“Avanti,
un bel tuffo in acqua e poi subito a letto!”
lunedì 26 novembre 2018
Mani in acqua!
Questa volta ho voluto pensare ai più piccini.
Due
piccole mani, nonostante si sporchino continuamente con le matite e con la
cioccolata, non ne vogliono proprio
sapere di lavarsi.
Le
dita litigano fra loro per sfuggire al sapone: il mignolo vuole che vada prima l’anulare che invece spinge il medio in fuga, l’indice si nasconde
sotto il pollice e il pollice sotto il
palmo
della mano.
La
mamma, però, la sa più lunga di tutti e come un bravo detective scova tutte le
dita e le mette sotto al rubinetto perché si lavino bene prima di andare a
letto.
Questa è la prima versione, seguirà a breve la seconda.
Questa è la prima versione, seguirà a breve la seconda.
Mani in
acqua!
Barbara Cerrone
C’erano
una volta due mani che non si volevano mai lavare.
Si sporcavano con le matite colorate e con la cioccolata ma... niente da fare.
L’acqua
non la volevano sentire.
E se per
caso in bagno il sapone si avvicinava, le
dita litigavano fra loro.
“Tu sei
il più sporco, tocca prima a te!” diceva
il mignolo, che era il dito più piccino.
“Ma cosa
dici? Sei sporco quanto me, non ci provare!” gridava l’anulare spingendo il
medio che cercava di scappare.
L’indice,
poi, un furbo che non vi dico! Si nascondeva sempre sotto il pollice e quello
poi via sotto il palmo della mano per non farsi acchiappare.
“ Quattro?
E dov'è il quinto ditino?’” chiedeva la mamma davanti al lavandino.
Ma a lei
nulla sfuggiva e cerca cerca lo ritrovava sempre, quel birbante.
Ed eccoli tutti
insieme, cinque di qua e cinque di là, mogi mogi sotto al rubinetto.
“Avanti, un bel tuffo in acqua e poi subito a letto!"domenica 11 novembre 2018
Parole ingarbugliate
Quando parlare non è un gioco da ragazzi...
buona lettura.
Barbara Cerrone
C’era
una volta un bambino carino, simpatico e intelligente, il suo nome era
Giovanni.
Questo
bambino aveva un problema che gli creava grande disagio: balbettava.
Era
come se la sua lingua si intrecciasse al
palato, e ogni volta doveva fare grandi sforzi per non mettersi a piangere.
A
scuola c’era chi lo prendeva in giro ma c’era anche chi faceva il tifo per lui
e lo sosteneva, insomma di amici ne aveva, tuttavia questo non bastava a dargli la
fiducia che gli sarebbe servita per superare quell'incepparsi della lingua così
ostinato e fastidioso.
“Ba-ba-babalbetterò
tutta la vita, lo so” diceva, in preda allo sconforto.
Avevano
un bel dire i suoi amici che non era così, lui scuoteva la testa piena di riccioli
rossi e poi si voltava dall'altra parte
per non far vedere che aveva gli occhi lucidi.
“Non
piangere, tesoro mio,” gli diceva la mamma, “ vedrai che un giorno avrai una
lingua così sciolta che ti vorranno come speaker alla tv!”
“Speaker,
come no!” pensava il bambino, che almeno nei pensieri non balbettava.”Altro che
speaker, è già tanto se riesco a finire una frase”.
Il
tempo passava e le sue parole erano sempre più ingarbugliate, tanto che un
giorno, mentre studiava ripetendo ad alta
voce, due o tre di loro uscirono dalla sua bocca in fretta e furia e non vollero
più tornarci.
Presto
anche le altre seguirono il loro esempio e fu il caos.
“To-to-toto-tornate
su-su-subito qui!” gridò Giovanni, ma
quelle non lo ascoltarono nemmeno e scapparono volando qua e là per la stanza, come
mosche impazzite.
Una
addirittura gli si posò sulla testa e cominciò a tirargli i capelli mentre
un’altra gli saltava sul naso. Giovanni
cominciò ad agitar le mani per scacciarle, poi corse dietro alle parole fuggiasche che volavano, volavano in ogni direzione: una si era rifugiata sopra
le mensole, un'altra penzolava dal
lampadario, un’altra ancora si era appesa al cordone della tenda in salotto e
si divertiva a oscillare come un pendolo.
In poco tempo la stanza si riempì di vocali,
consonanti e poi addirittura di frasi, intere frasi col verbo al posto giusto
che chiacchieravano fra loro come comari alla finestra.
Giovanni
era riuscito a prendere solo due
consonanti, la z e la w, che essendo le più pigre si erano sdraiate sul divano
a ronfare come ghiri e si erano fatte acchiappare senza quasi accorgersene.
Sua
madre era uscita da poco per fare la spesa raccomandandogli di non aprire la
porta a nessuno e di non combinare guai, cosa avrebbe detto se rientrando
avesse trovato la casa invasa dalle parole? C’era di che esser punito, magari con il divieto di vedere
i cartoni animati per un’intera settimana!
Per
complicare la faccenda suonarono alla porta. Era il suo amico Paolo.
“Vieni
fuori a giocare? Facciamo un po’ di tiri con la palla”.
Che
cosa poteva dirgli? Che era nei guai perché alcune parole gli erano sfuggite di
bocca e ora giravano per casa? Non ci avrebbe creduto e di sicuro avrebbe
preteso di vedere con i suoi occhi, cosa che era molto meglio evitare, conoscendolo.
Era
un ragazzo simpatico ma far confusione era la sua specialità, se avesse visto tutto
quello scompiglio si sarebbe divertito un mondo a crearne ancora di più e chissà
cosa avrebbe architettato. Allora sì che sua madre si sarebbe arrabbiata! No, bisognava
mandarlo via subito con una scusa.
“Non
po-po-poposso uscire, ho male alla gola” disse Giovanni.
L’amico
lo guardò come per dire Da quando in qua
un mal di gola ti impedisce di uscire? Tuttavia, vedendo che Giovanni non
voleva proprio saperne di seguirlo, si rassegnò.
Stava
quasi per andarsene quando una parola, la più impertinente, fece capolino sulla
soglia di casa.
“E
questa che roba è?” chiese l’amico.
“E
c-c-cche ne so?” mentì Giovanni. “ Gi- gi-gigirano strani insetti, oggi.”
“Ma
quale insetto, questa...questa è una parola! Giovanni, tu non me la racconti: hai
perso le parole!”
“No,
s-s-ssono insettacci” disse chiudendo la porta senza nemmeno salutarlo.
Paolo
non si arrese, il suo migliore amico era senza parole e doveva aiutarlo, anche
se lui non voleva. Suonò il campanello una, due, tre volte. Finché Giovanni non
aprì.
“C-c-ccosa
c’è, ora? ”
“Ti aiuto a prenderle.”
“E
v-vva bene, entra”.
“Eh,
ma sembra uno sciame di mosche!” esclamò Paolo entrando in casa.
I
due ragazzi si misero a rincorrerle insieme, le birbone sembravano foglie portate
dal vento, un turbine di parole che neanche Paolo riusciva a catturare.
Anzi,
una di loro, una r bizzarra e capricciosa, si fece accanto a Paolo e cominciò a
tirargli la manica del maglione per dispetto.
Nel
bel mezzo di questa scenetta ecco arrivare la madre di Giovanni, di ritorno
dalla spesa.
“Che
succede, qui? Che state combinando voi due?” chiese.
“Nulla,
signora, giochiamo a prendi la parola”
rispose Paolo, che aveva la scusa sempre pronta.
“Prendi la parola? Che gioco è? E poi che ci fanno qui tutte
queste mosche? Ce le avete portate voi due, eh? Le voglio subito fuori di qui,
alla svelta!”
Per
fortuna la madre di Giovanni era presa da mille pensieri e non si accorse che quelle cose scure che giravano
per casa non erano affatto mosche. Comunque si era arrabbiata e in un modo o
nell'altro bisognava risolvere la faccenda.
Farle
uscire? No, sarebbero andate perdute per sempre. E allora?
“Giovanni,
conto fino a tre, se al mio tre quelle mosche non saranno uscite stasera niente
cartoni.”
Intanto
quelle vigliacche delle parole avevano sentito tutto ma neanche ci pensavano a
rientrare al loro posto, macché! Anzi, tanto per fare più dispetto si misero a
girare intorno alla testa della mamma che si infuriò ancora di più.
Paolo
e Giovanni non sapevano più che fare.
“Dille
la verità, è l’unica” sentenziò Paolo.
Allora
Giovanni si avvicinò alla madre che stava sistemando la verdura in frigorifero,
le fece segno di porgergli l’orecchio e mormorò:
”Non s-s-ssono mosche, mamma”
”Non s-s-ssono mosche, mamma”
“No?
Dio mio, e che insettacci sono, allora?”
“Non
s-s-ssono insetti, mamma.”
“E
allora che cosa sarebbero, sentiamo?”
“S-s-ssono
le mie parole. Mi sono uscite dalla bocca e non vogliono rientrarci.”
“Questa
poi! Come ti è venuta una bugia così fantasiosa? Guarda, è così originale che
quasi mi passa la voglia di arrabbiarmi. Comunque sia voglio quegli insetti
fuori di qui, subito.”
“Ma...mamma,
guardale bene...non s-s-ssono insetti, sono pa-pa-paparole”.
La
madre, finalmente, fissò l’attenzione su quella nuvola nera e brulicante e quel che vide la fece restare a bocca aperta,
tanto che non ebbe neppure la forza di arrabbiarsi con Giovanni.
La
nuvola nel frattempo si era ricomposta, parole sparse avevano formato racconti, poesie, perfino un romanzo che finì appiccicato sul soffitto, la mamma lo lesse tutto d’un fiato.
"Appassionante" esclamò, quando ebbe finito.
"Appassionante" esclamò, quando ebbe finito.
I
tre, tutti insieme, lessero fino a tarda
sera e ancora non ne avevano abbastanza.
Quando arrivò il padre di Giovanni era già ora di cena, li trovò che dormivano uno accanto all'altro sul divano con un’espressione beata sulla faccia.
Le
parole, intanto, come l’acqua di un fiume in piena quando ritorna nel suo letto, si erano ritirate nella bocca
di Giovanni che ora le teneva ben
strette dentro di sé.
“Ehi,
svegliatevi, voi tre!” disse il papà scuotendoli dolcemente.” Che cosa avete
combinato per essere così stanchi?”
“Niente,
papà,” rispose Giovanni, “ avevo perso le parole e ora le ho ritrovate.”
“Ma tu non balbetti, te ne sei accorto?”
“Io?
Non so, io...è vero. Mamma, Paolo, sentite come parlo? Non balbetto, non
balbetto più!”
Che
cosa era successo?
E chi lo sa? A volte, le parole fanno scherzi che neanche si possono immaginare, fatto sta che da quel giorno Giovanni non balbettò mai più e le sue parole restarono per sempre insieme a lui, a fargli compagnia, uscendo solo e sempre al momento giusto.
E chi lo sa? A volte, le parole fanno scherzi che neanche si possono immaginare, fatto sta che da quel giorno Giovanni non balbettò mai più e le sue parole restarono per sempre insieme a lui, a fargli compagnia, uscendo solo e sempre al momento giusto.
martedì 6 novembre 2018
L'inventastorie senza storie
Uno scrittore che ha perso l'ispirazione è come se fosse diventato cieco all'improvviso: perduto nel buio e solo, non gli resta che tentare il tutto per tutto per ritrovarla.
Buona lettura.
L’inventastorie senza
storie
Barbara Cerrone
“Povero me, povero me!” si
lamentava Aliseo, l’inventore di storie.” Ho perso l’ispirazione e non ho più
storie da raccontare”.
Passava di lì Mafalda, la
gallina, e subito cercò di consolarlo.
“Nessuno ti capisce più
di me. Anch’io, sai, non faccio uova da due settimane, e il contadino dice che se
continuo così mi tirerà il collo e con me ci farà il brodo.”
“E io, allora?” mugolò il
cane Astolfo.”Una volta andavo in cerca di tartufi col mio padrone e ritornavo
sempre con certi esemplari...ora, invece, ho perso il fiuto e tutto mi va
storto. Il mio padrone dice che mi darà a un suo amico che sta sulla collina.
Non sono più buono a nulla.”
“A chi lo dici,” muggì la
mucca Gerardina,” da un mese non faccio più una goccia di latte. Se va così un
giorno o l’altro mi porteranno al macello, già lo so.”
“Amici, vi ringrazio ma
tutto ciò non mi consola. Devo ritrovare subito la mia ispirazione, o per me sarà la fine. Non posso più aspettare: esco subito a
cercarla.”
Detto ciò, salutò gli
amici del cortile e uscì, in cerca dell’ispirazione perduta.
Andò per campi e per
valli, per boschi e per foreste, guadò fiumi e scavalcò muraglie ma della sua bella
ispirazione nessuna traccia.
“Sono alla rovina, se non
la ritrovo tanto vale che mi nasconda nella valle buia a finire i miei giorni
in compagnia dei topi briganti.”
Mentre piangeva così ecco
avvicinarsi una fila di formiche in gita che portavano una briciola di pane e
marmellata per il picnic.
“Oh, chi si vede: l’inventastorie! Come mai da queste parti?” chiese la più anziana
“Ho perso la mia
ispirazione, l’ho cercata dappertutto, per caso l’avete vista?”
“Noi? Hummm...no,
lavoriamo e basta, non badiamo alle fantasie. E ora, se vuoi scusarci, abbiamo
un picnic da metter su.”
E se ne andarono,
lasciando il povero Aliseo al suo destino.
“Formiche,” borbottò,
“che mi è venuto in mente di chiedere proprio a loro? Si sa che non hanno
fantasia. Basta, è inutile cercare ancora, tanto vale che torni a casa.”
Mestamente, il nostro
amico prese la via del ritorno, fermandosi ogni tanto a guardare qua e là per
vedere se non gli fosse sfuggito qualcosa.
Aveva fatto solo pochi
passi quando si vide venire incontro una formica tutta sola.
“E tu? Che fai da sola?”
le chiese.
“Mi hanno cacciata dal
formicaio” rispose quella.
“Cacciata? E perché?”
“Dicono che sono strana.
Sai, mi piace sognare. Volevo dirti che io so dove puoi trovare quello che
cerchi.”
“Davvero? E dove, dimmi,
dove?”
“Seguimi e te lo
mostrerò.
Camminarono per ore e ore
fino ad arrivare a una vallata deserta, dove neanche un filo d’erba poteva
crescere.
“Ecco, la tua ispirazione
è qui. Devi solo scavare” disse la formica, e poi corse via via verso il bosco.
Aliseo non se lo fece
ripetere e con le sole mani prese a scavare la terra sotto di sé.
Scava scava trovò una
pietra durissima e trasparente come acqua, la prese, la guardò in controluce e
vide che intrappolata nel suo cuore c’era qualcosa, sembrava un foglio bianco
piegato in due: raccolse da terra un sasso, spaccò la pietra e lo tirò fuori.
Aprì il foglio per
leggerlo ma...sorpresa! Dentro ce n’era
un altro uguale, aprì anche quello e ne trovò uno gemello.
Aprì cento, mille fogli: tutti
uguali! Il bello era che ogni pagina bianca gli ispirava una nuova, bellissima
storia.
Quella sera, a casa, ne
scrisse così tante da riempirne volumi.
Fu così che la sua fama come scrittore
varcò i confini del paese, tutti volevano leggere le sue storie.
Aliseo continuò a scriverle per tutta la vita, e da quella volta non perse mai più, nemmeno
per un istante, l’ispirazione.
E la formica?
Una sera, sognando a
occhi aperti, si mise a fissare la luna
nascente con tale intensità che uno dei suoi raggi la rapì e la portò nel cielo, dove rimase come una nuova
costellazione a guardare la terra da lassù.
lunedì 8 ottobre 2018
La solerzia di Armando.
Anche gli impiegati modello a volte perdono la testa.
Buona lettura
La
solerzia di Armando
Barbara Cerrone
Quello
che sto per raccontare è successo in un tempo lontano, e a dirla tutta fa rabbrividire.
Ancora
oggi a pensarci si diventa pazzi; effettivamente uno ce ne fu che
impazzì, e sì che era un tipo posato, tranquillo.
Un
impiegato di non so quale amministrazione, il suo nome era Armando.
La
cosa accadde un giorno di inizio autunno, con le giornate ancora così calde e
ingannatrici che sembrava di stare in piena estate.
Armando
doveva espletare una certa praticaccia che gli portava via tempo ed energia, e
quasi disperava di riuscirci, tanto era ostica e il tempo, come al solito,
tiranno.
L’interessato
era venuto a chiederne notizie molte volte, si era perfino spazientito a sentire che c’era ancora da aspettare un bel
po’, che il procedimento richiedeva questo e quello, e che bisognava esercitare
senza risparmio la virtù più richiesta agli
utenti dei pubblici servizi: la
pazienza.
“Un
corno!” proruppe il cittadino esasperato.” Io non aspetto più, e lei mi renderà
conto...”
Di
che cosa però non lo disse perché proprio in quell'istante per il troppo urlare
gli mancò la voce, poveretto.
Armando,
conscio delle responsabilità che il
suo incarico comportava, prima si
assicurò che nessuno avesse udito quell'esternazione,
poi si grattò significativamente il naso
e rivolgendosi all'urlatore disse:
“Mi
dispiace, signore, ma questi sono i tempi della burocrazia”.
Tanto bastò a far crollare le braccia al disgraziato che se ne andò, lasciando la
speranza allo sportello.
Armando,
dal canto suo, si rimise subito al
lavoro.
E
come avrebbe potuto immaginare quel che poi vide? Lo vide ma per un pezzo pensò
di non averlo visto affatto.
"Non è possibile, è un'allucinazione!" pensò vedendo un fascicolo che si apriva da solo.
Certo,
una pagina non si gira se non c’è almeno un venticello che la muove.
E
il timbro non prende e vola sulla pagina, andandosi a posare proprio lì dove
deve stare per dar valore a tutte quelle frasi.
No,
per questo ci vuol la mano di una persona, nessuna pratica si svolge da sola:
come faceva quella, allora?
Eppure...
Non
fu nemmeno l’ultima a sbrigarsela in autonomia, ce ne furono, uh, se ce ne
furono! Una dopo l’altra, quella mattina.
Veloci come il vento, e Armando
che guardava e più che stupito era attonito, inebetito come quella volta che
era caduto dalla sedia all'osteria.
Passati
i primi attimi di stupore, il nostro uomo volle capire.
“Ma
come fate ad esser così svelte?” chiese a quei fascicoli pieni di fogli che si
scrivevano da soli.
Avrebbe
dato una decina dei suoi anni per scoprire quel segreto, il trucco di far così alla svelta e così bene!
C’era da avere un bell'encomio, una gratifica, o chissà che. Ma quelle niente! Non lo filavano nemmeno, non rispondevano, certo! Perché era chiaro che
puntavano a qualcosa, e quel qualcosa l’avrebbero raggiunto se Armando non avesse preso subito le sue precauzioni.
Meditò
a lungo, finché gli venne l’idea un po’
mascalzona di darsi il merito di tutto quel lavoro.
“Del
resto, chi può smentirmi? Qui sono solo, stamattina, nessuno ha visto tranne
me. Che provino, quei fogliacci, a dir la loro: glielo farò vedere io chi
comanda in questo ufficio!”
Così
risolse di andare subito dal capo, prima che lo facessero le sue rivali.
“Oh,
bravo, così si fa!” gli disse il capo ufficio con gli occhi che brillavano. E gli
affibbiò subito un’altra pila di scartoffie.
Armando
non se ne fece certo un cruccio, già le vedeva all'opera da sole, solerti e
svelte a toglierlo dai guai.
Rideva
piano di un riso soffocato, come un leggero ringhio, e così ringhiando attese che le pratiche
finissero il lavoro.
La
sua forbita mente stava già sognando gli
applausi e i complimenti dei colleghi quando un dubbio atroce lo attanagliò
all'improvviso: e se fosse arrivato qualcuno proprio mentre quelle lavoravano?
Il rischio c’era, se le avessero viste come avrebbe potuto negare
l’evidenza? Encomio, applausi e gratifiche di sorta, tutto sarebbe andato a
quelle carte e addio ai sogni di un povero impiegato!
Ma
ecco la soluzione che balenò furtiva al suo cervello sopraffino: chiuderle
nell'armadio.
E
così fece.
Le
stipò tutte bene bene nell'armadio a muro, girò la chiave e se la mise in
tasca.
“Ecco,
ora potete lavorare senza che nessuno vi veda” disse, e si mise subito a recitar la parte di uno
molto occupato, tenendo la testa china su una cartellina vuota che aveva messo
lì sul tavolo allo scopo.
Il
capo ufficio entrò solo una volta, vedendolo immerso nel lavoro fino al naso se ne andò
subito senza proferir verbo e non lo
cercò più per tutta la mattina.
Venne
l’ora di uscire e Armando aprì finalmente l’armadio. Le pratiche, tutte svolte alla perfezione, stavano ultimando
la fase della timbratura.
Appena
ebbero finito le estrasse piano piano, controllò che tutto fosse a posto e se
ne andò, col sorriso sulle labbra.
Il
giorno dopo la stessa tiritera e quello successivo, nemmeno a dirlo, uguale.
A
fine mese ebbe una gratifica, il capo ufficio, con una pacca sulla spalla, gli
offrì un caffè e i colleghi per poco non lo portarono in trionfo.
Il
salto di qualità di quell'ufficio non sfuggì alle alte gerarchie
dell’amministrazione che non mancarono di far conoscere all'impiegato Armando i
sensi della loro profonda ammirazione.
Insomma
tutto andava a gonfie vele, Armando era
felice, talvolta nello specchio gli pareva perfino di essere cresciuto dal suo
metro e cinquantacinque, tanto era gonfio d’orgoglio e vanità.
Si
fece crescere anche una bella barbetta che gli incorniciava il mento dandogli
un’aria d’importanza, di saggezza, gli pareva,
tale che ormai nessuno lo avrebbe più ignorato, come accadeva sempre alle feste o lungo il viale del passeggio giù in città.
Ad
un certo punto ci fu addirittura una donna, piacente anziché no, che gli ronzò
intorno con l’intenzione di sposarlo e per poco non ci riuscì.
Tutto
finisce, a questo mondo, compresa la fortuna, così finì anche quella di
Armando.
La
primavera era appena all'inizio, Armando
era in ufficio come al solito e come al solito fingeva di lavorare ficcando gli
occhietti a spillo nella solita cartellina.
Il
capo ufficio gli chiese notizie di una pratica che interessava un suo lontano
cugino, immediatamente Armando scattò sugli attenti e andò a guardare
nell'armadio.
Quello
che vide, però, non gli piacque affatto.
Le
pratiche, quelle stacanoviste che fino al giorno prima avevano lavorato tanto
non avevano mosso pagina.
“Che
succede, stamani? Siete in sciopero?” chiese Armando.
Poi
pensò che in fondo anche loro avevano
diritto ad una pausa, richiuse lo sportello e si mise ad aspettare un quarto
d’ora, giusto il tempo di farle
riposare.
Passato
il quarto d’ora tornò alla carica: nulla. Ferme come fogli inerti.
“Che
avete, dannazione? State attente, non mi piacciono certi scherzi!” sibilò
richiudendo ancora una volta lo sportello.
Quella
mattina la passò così, aprendo e richiudendo invano l’armadio; le pratiche restarono ferme, e così anche il
giorno dopo, e quello successivo.
Passò
una settimana e niente era accaduto, il capo ufficio cominciava a innervosirsi,
puntava i piedi, faceva allusioni e tormentava il
povero Armando perché sbrigasse al più presto il suo lavoro.
“Che
ti succede? La gratifica ti ha dato alla testa?” gli disse una mattina.” Si fa
presto a scendere dopo essere tanto saliti, che credi? Bada, ti tengo
d’occhio!”
Armando,
di necessità virtù, aveva ripreso a lavorare ma il suo ritmo non era certo
quello delle pratiche; studiava, ponderava, esitava, timbrava ma quanto a
chiudere.. eh! Ci voleva tempo.
In
capo a due settimane accumulò un bell'arretrato, il capo ufficio già progettava di fargli una
sanzione.
“Dalle
stelle alle stalle,” rimbrottò, “ del
resto te l’avevo detto di non montarti la testa!”
Inutilmente
Armando aveva schierato tutte le pratiche sul tavolo al centro della stanza e
ogni giorno le guardava con occhio supplichevole, le vigliacche restavano impassibili.
Tutto
era finito ormai. La gloria, le gratifiche, le soddisfazioni. Tutto.
Il
sedicesimo giorno del suo martirio Armando si presentò al lavoro in ritardo.
Nessuno
dei suoi colleghi riuscì mai a scoprire il perché ma alle dieci e trentacinque
esatte, due minuti dopo la fine della pausa per il caffè, una sottile lingua di fumo acre cominciò a spirare
da sotto la porta del suo ufficio.
Il
primo ad accorrere fu Ernesto. Curiosità e invidia lo rodevano da tempo per
quell'omino che all'improvviso era diventato il cocco del capo ufficio, sperava che per una volta ci fosse da
divertirsi tanto da scoprire i suoi denti gialli
schierati in un bel sorrisetto.
Non poteva certo immaginare lo spettacolo che gli
si sarebbe presentato: un gran falò in mezzo alla stanza e lui,
l’irreprensibile Armando che ghignando come un indemoniato gli ballonzolava intorno.
Ci
vollero due robusti infermieri per bloccarlo, lo portarono via a fatica e di
lui non si seppe più nulla.
Intanto
il fumo aveva già invaso il corridoio e
tutti gli impiegati erano usciti dalle loro stanze precipitandosi fuori, a respirare l’aria fresca del mattino.
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