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lunedì 22 giugno 2020
A proposito di un bel post
mercoledì 17 giugno 2020
Filastrocca senza memoria
Perdere la memoria, che brutta, brutta storia! Ma questo è solo un gioco e come sempre, cari, dura davvero poco!
Buona lettura
Filastrocca senza memoria
Barbara Cerrone
C’era una volta…ma chi se lo ricorda? Ho perso la memoria, nascosta nel
sacchetto della mia amica Beba, l’ha messa nel cassetto e or va tutto in
gloria.
“Suvvia, dammi la prova che ora non ce l’hai, che non me la nascondi per
puro sciocco gioco” io dico un po’ arrabbiata alla mia amica amata.
Lei non risponde affatto, mi porta dal suo gatto, mi dice: “Ma dai, non è carino?
Si chiama Guglielmino”.
Ma cosa mi racconti? Inventi mari e monti ma qui manca qualcosa e mica è
una rosa! Si tratta di un tesoro prezioso come l’oro: manca la mia memoria,
senza la quale, cara, non so più la mia storia.
E tu non vuoi capire, mi mostri il tuo cassetto: dentro non c’è più
nulla, nemmeno il tesoretto fatto di monetine, sassetti colorati, pagine di
giornali ormai mezzo strappati.
Allora lascio stare, ma tu non sei mia amica, non lo sei più per davvero. Per
quanto sia sincero quel tuo gran dispiacere, non me la dai a bere: l’hai fatto
certo apposta, e ora, faccia tosta, non vuoi neanche dire che ridi da morire
dietro quel tuo visino da dolce angiolino.
Faccio per andar via ma ecco che mi chiami…allora tu mi ami? Mi vuoi bene davvero? Ed è bene sincero? Come a una sorella, pure se non son bella e porto dei vestiti che sono un po’ sdruciti?
Che dici? La memoria l’hai messa in cassaforte? Temevi per davvero per la sua bella sorte? Mi sembra esagerato, ma ti ringrazio assai, e ora vai a prenderla: sai la combinazione? Portamela qui subito, che ho l’interrogazione e devo ricordare il mare che da sempre bagna le nostre spiagge, come si chiama, uffa? Memoria che ha la muffa!
Su, sbrigati, veloce, che poi ad una voce andremo noi a
cantare canzoni vecchie e nuove, abbiam fatto le prove davanti alla stazione e
nella confusione abbiamo già capito che oramai è finito quello che è cominciato,
non si sa più da dove.
domenica 14 giugno 2020
Fiori di pietra
Quando l'affetto vince anche il più terribile degli incantesimi...
Buona lettura
Fiori di pietra
L’inverno si era rifatto vivo, in paese, crudo e
cattivo come se fosse appena cominciato.
“Stai a vedere che adesso nevica” disse la madre
sbattendo le uova.
Gemma sorrise: come poteva nevicare in pieno mese di
maggio? Sua madre esagerava. Era solo un capriccio momentaneo del tempo e poi
sarebbe tornato il caldo, lo aveva sentito alla televisione.
“No, mamma, non nevicherà. Farà solo un po’ più
freddo, per qualche giorno, e poi ci sarà di nuovo il sole.”
“Uhm, eppure una volta è successo, sì, la neve a maggio…ero
una ragazzina. Che rabbia! Avevo già messo la maglietta con le maniche corte.
Se ora fa uno scherzo del genere poveri i miei fiori!”
Gemma sorrise di nuovo. Per la madre i fiori erano
come altri figli, ci teneva tanto; li coccolava; li curava; le ore più belle
della sua giornata le passava in giardino, a parlare con le piante.
“Non nevicherà, mamma, e i tuoi fiori staranno
benissimo”.
Le parve che a quelle parole il viso di sua madre si
distendesse, come se avesse avuto solo bisogno di essere rassicurata. La vide
gettare all'indietro la testa per scostare i riccioli scuri dalla fronte mentre
accennava un sorriso.
Gemma riprese a fare i compiti, la mamma infornò il
dolce che avrebbe servito a cena.
Verso sera tornò anche il padre di Gemma. Era stanco,
aveva avuto una brutta giornata e non voleva quasi parlare.
Gemma gli ronzò intorno per un po’, tentò di
raccontargli della mamma e della sua paura che nevicasse ma lui era distratto e
non sembrava disposto ad ascoltarla.
Capita agli adulti di essere troppo stanchi, Gemma
lo sapeva e non se la prese troppo. Avrebbe parlato con il padre la mattina
dopo, con una bella notte di sonno sarebbe stato più disponibile.
La cena fu particolarmente buona, quella sera,
c’erano i piatti che a Gemma piacevano di più e la torta, che era da leccarsi i
baffi. Poteva andare a dormire
soddisfatta, magari dopo un po’ di tv e le solite coccole a Teo, il gatto.
Il giorno dopo un insolito chiarore la svegliò prima
del solito. Si affacciò alla finestra: neve! Fuori il giardino era tutto
imbiancato.
“Mamma, mamma, hai visto?” Disse correndo in cucina.
“La neve! La neve a maggio, mamma.”
“Che ti avevo detto? Sono cose che possono
succedere. Io me lo sentivo, ieri, e poi il meteo aveva parlato di
precipitazioni nevose a bassa quota. Però, i miei poveri fiori! Dovrò coprirli
per proteggerli, non vorrei che stanotte ci fosse una gelata. Questo tempo
folle non si sa cosa ti può combinare.”
“Prepiciti…sì, insomma, io non avevo sentito di
queste prepiticipi…come si chiamano. E ora? Chissà se chiudono la scuola.”
“Internet non funziona oggi, non posso collegarmi
col sito della scuola o del comune per vedere se ci sono comunicazioni. Ora
chiamo la mamma di Clotilde, lei abita vicino alla tua maestra, magari si sono
già parlate.”
Gemma guardò la madre allontanarsi a caccia del
telefonino che lasciava sempre in giro qua e là, e puntualmente dimenticava
dove l’aveva messo.
“Pronto? Sì, Anna, sono Mara. Sai mica se con questa
neve chiudono la scuola? Sì? Bene, sarà contenta Gemma. Domani poi è sabato, di
andare a scuola se ne riparla lunedì.”
Gemma aveva sentito tutto e già si immaginava una
giornata di pacchia a fare palle di neve con Michela, la sua migliore amica.
Andò a lavarsi di gran carriera, come non faceva mai
quando doveva andare a scuola.
“Mamma, vado da Michela, così facciamo i compiti
insieme e poi un pupazzo di neve, in giardino.”
“Va bene, va bene ma state attente a non cadere. E
mettiti la sciarpa, che fa freddo. Ah, e gli scarponcini rossi, quelli che
porti sempre quando andiamo in montagna.”
“Sì, mamma!”
Gemma uscì con le ali ai piedi per andare da Michela,
la sua amica abitava a poca distanza da casa sua, in un grande appartamento al
terzo piano di un tranquillo caseggiato.
I compiti, quella mattina, li fecero per davvero. D’accordo,
un po’ alla svelta, ma li fecero. Poi decisero che era l’ora di andare da
Gemma, in giardino, a fare il pupazzo.
A casa trovarono la mamma di Gemma intenta a coprire
i fiori con il telo perché il freddo improvviso non li uccidesse.
Si misero a fare il loro pupazzo, ridendo e
tirandosi palle di neve. Come si divertirono!
Mentre giocavano così una strana donna passò per la
strada, indossava una specie di palandrana nera e aveva un cappello grigio dal
quale spiovevano lunghi capelli bianchi e arruffati. Con fare misterioso di
avvicinò al cancello, Gemma e Michela ne furono quasi spaventate.
“Vi divertite, eh, bambine? Eh, questo è un paese
pieno di gente allegra. Si sta bene in questo posto, vero? Sì, ma non sarà per
molto!” disse la donna con una risataccia acida che avrebbe fatto venire i
brividi al più coraggioso degli eroi, e poi si allontanò in gran fretta,
guardandosi attorno come se avesse paura di essere inseguita
Le bambine si guardarono negli occhi: che fosse una
pazza, quella strana donna?
Gemma avrebbe voluto correre subito dalla mamma per
parlarle di quello strano incontro ma Michela, che non aveva voglia di tornare
a casa, l’aveva fermata e, portando il dito indice alla tempia, le aveva fatto
capire che quella donna doveva essere matta e non bisognava badarle. Meglio
continuare a giocare.
Il pomeriggio passò veloce, fecero un bellissimo
pupazzo e poi l’amica tornò felice a casa sua, Gemma rientrò in casa per la
cena e andò a letto presto, perché fra una cosa e l’altra si era stancata un
bel po’.
Durante la notte fece strani sogni e la mattina seguente
si svegliò piuttosto agitata.
Come faceva ogni giorno, per prima cosa si diresse
verso la cucina per salutare la mamma che, come sempre, a quell’ora preparava
la colazione. Passando lanciò
un’occhiata veloce alla finestra: quello che vide la lasciò di sasso.
Il giardino, il suo bel giardino pieno di fiori, ora
era un cumulo di sassi. La neve era scomparsa, la terra, arida, senza un filo
d’erba, dava a tutto l’insieme l’aspetto di un deserto.
“Mamma, mamma! Hai visto? Il nostro giardino…” gridò
correndo in cucina.
Ma la mamma non c’era, anzi, in casa sembrava non ci
fosse nessuno, tale era il silenzio che regnava ovunque.
Gemma fece il giro delle stanze, ma non trovò
neppure Teo, il gatto. Tutti sembravano scomparsi.
“Forse sono a far la spesa?” si disse per
rincuorarsi, anche se i suoi non andavano mai a far la spesa così presto.
Quanto al gatto, poi, uscì in giardino a cercarlo ma non era nemmeno lì.
Dileguato anche lui. Di certo non era nei paraggi: un gatto pigro e fifone come
lui, che non aveva mai varcato la soglia del cancello…impossibile.
Si guardò intorno, il giardino-deserto le faceva
quasi paura. Che cosa era successo? Le veniva da piangere, non avrebbe voluto
ma le lacrime le pungevano gli occhi. Pungevano così tanto che alla fine pianse
davvero.
“Mamma, papà, dove siete? Cosa è successo?” gridava,
tra le lacrime.
Finalmente si fece coraggio e andò a cercare
Michela, voleva vedere se almeno da lei era tutto normale.
A casa di Michela non c’era nessuno. Gemma suonò più
volte il campanello ma non ebbe risposta.
Si guardò intorno: silenzio e vuoto ovunque.
“Che cosa faccio, ora? Dove vado?”
Decise di andare al negozio di alimentari della Gina,
per vedere se i suoi erano lì. In ogni caso, pensava, il negozio della Gina era
una specie di centro smistamento chiacchiere dove se in paese succedeva
qualcosa si sapeva subito.
Con suo grande sgomento vide che anche il negozio era
chiuso. La faccenda si faceva preoccupante sul serio.
Non sapendo più che fare, la bambina decise di
provare con i suoi vicini, chissà che non sapessero qualcosa, e in ogni caso la
potevano aiutare: era sola, la casa sembrava abbandonata e in giro nessuno che
potesse dirle cosa era successo.
Prima di andare dai vicini passò da casa, per vedere
ancora se per caso erano tornati i suoi, o almeno Teo si era rifatto vivo.
Il giardino, a guardarlo, era una desolazione. Ci
passò in mezzo come in un campo di battaglia. C’era di che mettersi a piangere
di nuovo, Gemma sentiva arrivare un fiume di lacrime dal profondo del suo cuore
smarrito quando improvvisamente lo vide. Un fiore. Di pietra, sembrava…no, no,
forse era sale…no! Sabbia, ecco, era sabbia. Insomma Gemma non capiva che
strano tipo di fiore fosse, somigliava ad un’enorme margherita, ma le faceva
così tanta impressione!
Fece per avvicinarsi quando PUF! Eccone spuntare un altro, a poca distanza dal primo.
“Quante stranezze in un giorno solo!” mormorò la piccola
avvicinandosi ai fiori.
All'improvviso Gemma ebbe come un’illuminazione, si
ricordò della strana donna che lei e Michela avevano visto il giorno prima.
Ripensare a quell'episodio ora, con quel mistero
inspiegabile, tutta quella gente che sembrava scomparsa e quegli strani fiori
le faceva venire i brividi: e se fosse stata una strega? E se avesse lanciato
una maledizione sul paese, sulla sua casa? Una specie di maleficio, insomma.
Annusò entrambi i fiori.
“Buffo, “pensò, ”questo ha lo stesso profumo che
indossa mamma quando esce. E quest’altro, poi…è uguale al dopobarba di papà.”
“Per forza, piccola mia, “disse una voce che
conosceva bene, “sono io, la mamma! E quello è papà.”
“Mamma!” Gridò la bambina guardandosi attorno. “Dove
sei? Non ti vedo.”
“Dove meno te lo aspetteresti. Qui. “
“Qui dove?”
“Il fiore, Gemma.”
“Il fiore? Vuoi dire che sei diventata un fiore?”
“Proprio così, un fiore di pietra. E lo stesso tuo
padre ma lascialo stare, per ora. Sta dormendo, gli parlerai più tardi.”
“Mamma com'è possibile? Chi è stato a farvi questo?”
“E chi lo sa? Io stavo preparando la colazione, Teo
stava mangiando nella sua ciotola quando…PAF!
Ci siamo ritrovati così.”
“Una magia, per forza. Lo sapevo, non dovevo dar
retta a Michela. Ieri sera abbiamo incontrato una donna misteriosa, ci ha detto che ci vedeva
felici ma non lo saremmo state ancora per molto. Sembrava proprio una strega.”
“Oh, figliola, non so se raccontarmelo sarebbe
servito a qualcosa, che avrei potuto fare contro una strega? ”
“Ma Teo dov'è? Non vedo altri fiori, qui.”
“Lui è proprio scomparso, non si sa che fine abbia
fatto, povero micio. Mi dispiace, tesoro, non so dirti altro.”
“E tutti gli altri? I nostri vicini? La gente del
paese? Dove saranno?”
“Scomparsi anche loro? Poveri noi, Gemma, qui la
faccenda è seria davvero”.
Madre e figlia chiacchierarono ancora un poco, poi
la mamma disse a Gemma che era ora di cenare, del resto in frigo c’era di tutto
e le avrebbe detto lei come e cosa preparare. Stesse pur tranquilla.
La bambina obbedì, seppure a malincuore, perché
l’idea di cenare tutta sola, senza i suoi né Teo che si sdraiava sulle sue
gambe le dava una grande tristezza.
“Chissà come mai solo i miei sono diventati dei
fiori di pietra mentre tutti gli altri sono scomparsi. Ci sarà pure un motivo…”
pensava la bambina apparecchiando la tavola vicino alla finestra per vedere i
suoi genitori.
“Certo che c’è!”
Gemma si voltò, spaventata: dietro le persiane c’era
lei, la strega del giorno prima.
La piccola fece un salto.
“Mamma, mamma!” gridò.
Ma che poteva fare sua madre?
“Che vuoi ancora da me? Non ti basta quello che hai fatto?”
disse Gemma alla strega.
“Mi basta, mi basta. Tu chiedi perché solo i tuoi
sono stati trasformati in fiori ed io voglio risponderti. Tutto il paese è
scomparso. La tua gente è prigioniera nella terra della dimenticanza. Nessuno si
ricorderà di quelle persone, resteranno per sempre laggiù e tu non le vedrai mai
più. I tuoi, invece, li ho fatti diventare dei fiori di pietra perché tutti
erano felici, in questo paese, ma tu eri la più felice di tutti. Per questo ho deciso
che fossi la sola ad avere sempre qui, sotto gli occhi, i tuoi genitori in modo
da non poter mai scordare come li ho trasformati. Volevo che ti tormentassi nel vederli e soffrissi
più degli altri.”
“Ma perché? Che ti ho fatto?”
“Nulla. Io odio le persone felici, e buone, come te.
Io non sono né buona né felice. E ora, se permetti, torno da dove sono venuta.
Buon divertimento, carina. Ah, ah, ah!”
Gemma restò senza fiato. Una cattiveria così non
pensava proprio che esistesse.
Il guaio era che non sapeva come uscirne, ammesso
che ci fosse una via d’uscita.
“Ci vorrebbe un mago, o una fata. E chi conosce fate
o maghi? Io no di certo”.
Con questi pensieri si addormentò quella sera. Anche
il lettino, come la tavola prima, lo aveva portato vicino alla finestra, così
da vedere i suoi e magari mandargli un bacio, prima di dormire.
Nonostante i mille pensieri che le affollavano la
mente si addormentò subito, e sognò.
Sognò la sua amica Michela, vestita di azzurro, le
veniva incontro con un sorriso triste.
“Gemma, “le disse,” sono prigioniera della terra
della dimenticanza, tutto il paese è con me. Resteremo per sempre laggiù se tu
non ci aiuti. Pensa a noi, Gemma, ogni giorno, non ci dimenticare. Solo così
possiamo sperare di tornare”.
A questo punto Gemma si svegliò, con il cuore le
batteva forte. Il messaggio della sua
amica le dava nuova speranza, no, non l’avrebbe mai dimenticata! Né lei né la
sua gente.
Era ancora notte fonda e si rimise a dormire.
La mattina seguente appena sveglia corse a
raccontare tutto ai suoi genitori.
“Che dici, mamma? Era davvero un messaggio di Michela?
O era solo un sogno?”
“Io credo di sì, “rispose la mamma,” in ogni caso
non resta che aspettare questa notte. Se Michela comparirà di nuovo nel sonno,
se ti parlerà ancora allora è probabile che non si tratti solo di sogni ma che
sia proprio lei a comunicare con te nell'unico modo che ora le è possibile.”
“Sì, credo anch'io. E tu, papà? Cosa ne pensi?”
“Credo che tua madre abbia ragione. Bisogna
aspettare stanotte, e chissà che la tua amica Michela non abbia qualche
messaggio utile anche per noi”.
Il cuore di Gemma si riempì di nuova speranza, la
notte, che prima le faceva paura così, tutta sola, nella casa vuota, ora le
sembrava il più bel momento della giornata e non vedeva l’ora che arrivasse.
Quella sera andò a dormire prima del solito e si
addormentò subito perché la giornata era stata pesante, con tutte quelle cose
da fare! Ora che mamma e papà erano stati tramutati in fiori di pietra toccava
a lei fare tutto, dalle pulizie alla cucina, e la sera era completamente esausta.
Dopotutto era pur sempre una bambina.
Insomma, si addormentò come un angioletto, e dopo
pochi minuti il sogno arrivò.
“Gemma, sono io, Michela. Non posso stare molto, questa
volta. Non mi è permesso venire a trovarti ma io ho trovato il modo: penso
intensamente a te, alla casa. Tutto qui, il segreto, ma guai se la strega se ne
accorge! Mi spingerà nel fondo dell’oblio e per me non ci sarà più scampo. Dunque,
se vuoi farci tornare tutti devi fare lo stesso, ogni giorno. Pensa a noi,
pensa al paese com’era. Mi raccomando! Ora devo andare. Non so se riuscirò a
tornare, ma tu pensaci e desidera fortemente che tutto torni come prima”.
Gemma si svegliò. Questa volta non c’erano più dubbi,
il messaggio veniva proprio da Michela.
Il giorno dopo ne parlò di nuovo con i genitori.
“Gemma,” disse sua madre, “adesso non ti resta che
fare come dice la tua amica. Forse è la soluzione per liberare anche noi
dall'incantesimo. Non resta che provare.”
“Sì, mamma. Non sarà difficile pensarvi tutti,
ricordarvi com'eravate. Vi penserò giorno e notte, vedrai. Anche Teo, penserò”.
La mamma annuì, come poteva annuire un fiore,
scuotendo leggermente la corolla, mentre suo padre (così almeno le parve)
abbozzò un leggero sorriso. Come sorrida un fiore non so, ma lui secondo Gemma
lo fece e così dolcemente che alla bambina veniva quasi da piangere pensando al
volto di suo padre quando le sorrideva.
Ecco,
pensa, pensa! Si diceva Gemma, e la sua mente riviveva
il passato con la vividezza del presente.
Giorni e giorni così, sempre a pensare intensamente
ai suoi, al suo paese, al passato insieme.
Dopo due settimane così Gemma era scoraggiata.
“Non succede niente, niente!” si sfogò un giorno con
la madre.
“Bambina mia, non so che dire, eppure sembrava
proprio che Michela volesse suggerirti il modo per uscire da questi guai. “
“Forse era solo un sogno, mamma”.
Già, così sembrava. Solo un sogno, e la realtà un
incubo senza fine.
La bambina era disperata, ma ugualmente non smise di
pensare alla vita com'era prima dell’incantesimo.
Un giorno, tornando da una bella passeggiata lungo
il fiume, le venne in mente un episodio di un anno prima. Lei e Michela che
facevano lo stesso tragitto, nel pomeriggio, e si fermavano a casa di Gemma per
la merenda.
Ad aspettarle, sua madre, che salutava dal
pianerottolo col barattolo della marmellata in mano e l’aria allegra di chi ha
fatto una bella sorpresa e non vede l’ora di dirlo.
“Forza, sbrigatevi, c’è la crostata in tavola!”
Gemma si riscosse. La sua immaginazione galoppava
davvero molto forte se le sembrava di sentire proprio quella frase, come un
anno prima.
“Allora, lumachine, avete perso le energie sul
fiume? C’è la cro-sta-ta”.
No, non era la sua immaginazione. Qualcuno stava
tirandole la manica del vestito, si voltò: era Michela!
“Ma…ma…tu sei qui!” gridò.
“E dove dovrei essere, scusa? Gemma, che hai? Mi
sembri strana?”
“Io, eh?”
“Sì, dai, smettila con queste scene. Tua madre ci
sta chiamando. Ha fatto la crostata. Corri, io ho fame”.
Michela sembrava non ricordare nulla di quello che
era accaduto. Gemma era sconvolta e felice insieme.
A casa tutto era tornato come prima, il giardino era
di nuovo verde, pieno di belle piante, nessuna traccia dei fiori di pietra. Teo
le corse incontro miagolando, faceva le fusa e le saliva con le zampette sui
piedi, come faceva sempre. La bambina lo prese in braccio e non finiva più di
fargli le coccole.
“Mamma, ti ho liberata, ce l’ho fatta. E papà? Papà
dov'è?”
“Liberata? Che dici, Gemma? Su, basta con le
sciocchezze, ora. Papà è in bagno, appena esce andate a lavarvi le mani. Con le
mani sporche niente crostata”.
Neanche la mamma ricordava, ora era chiaro. L’unica
che sapeva e avrebbe custodito in sé il segreto di quello che era accaduto era
lei, Gemma. Un grosso peso, per una bambina, ma lei aveva dimostrato di essere
forte e sapeva che ce l’avrebbe fatta a sopportarlo. In fondo, l’importante era
che quell'incubo fosse finito.
“Ma sarà finito per sempre? E se la strega tornasse?”
si chiese, tornando triste per un attimo.
“Non accadrà più, stai tranquilla” disse una vocina
dietro di lei.
Si voltò. Un passerotto era sul davanzale della
finestra.
“Non temere, e ascolta, “proseguì l’uccellino, “la
strega è scivolata nel fossato dell’invidia, e più si arrovella, più si mangia
il fegato per la rabbia più sprofonda, senza speranza di tornare. Non ti darà
più fastidio, stai tranquilla. Goditi questo giorno felice, è solo il primo di
tanti altri che ti aspettano. Ciao, piccola Gemma”.
E volò via, lasciando la bambina a bocca aperta.
“Gemma, allora? “Disse di nuovo la mamma. ”Michela si
è già lavata le mani e sta mangiando la crostata. Vieni anche tu, dai”.
Gemma sorrise. A questo punto non le restava che
obbedire.
giovedì 11 giugno 2020
Matriosca
Matriosca
Barbara Cerrone
La fata Aurelia era stanca. Aveva lavorato tanto durante
l’inverno, e ora che la primavera era arrivata e il sole scaldava la terra,
sentiva proprio il bisogno di prendersi una vacanza.
“Sono a pezzi. Ho bisogno di un periodo di ferie,” disse
alla sua fata capo,” vorrei andare a trovare mia cugina Nasturzia. Un po’ di
riposo mi farà bene, tornerò fra una settimana.”
“C’è ancora tanto lavoro ma se sei proprio stanca va
bene, mi raccomando però, tra una settimana esatta ti voglio di nuovo in
servizio!”
“Va bene, ci sarò”.
Fata Aurelia preparò le valigie in quattro e quattro otto,
mise nella sua gabbietta il gatto Fred e saltò sulla sua carrozza alata,
diretta a sud.
Fu un bel viaggio, sereno e senza contrattempi. Nasturzia
l’aspettava in giardino, in mezzo agli oleandri e ai limoni fragranti.
“Benvenuta, cugina! Ti vedo un po’ sciupata, hai fatto bene
a prenderti una vacanza.”
“Cara Nasturzia, lo credo bene che sono sciupata, mesi di
duro lavoro senza un attimo di tregua sciuperebbero qualunque fata. Eh, ma ora
starò qui, in buona compagnia e senza far niente per almeno una settimana.”
“Ben fatto. Olmina, fammi la cortesia: prendi tu le valigie di Aurelia
che io ho il solito mal di schiena e non posso portare pesi”.
Olmina era l’anziana tartaruga che viveva con Nasturzia fin
da cucciola. Era molto robusta e nonostante l’età si rendeva sempre utile nelle
faccende di casa.
“Eccomi, eccomi. Bentornata, Aurelia. Felice di rivederti”
disse Olmina caricandosi le valigie sulla corazza.
Olmina era una tartaruga di nobile famiglia. I suoi genitori
provenivano da una delle casate tartarughesche più in vista della zona,
vivevano nel parco della villa di proprietà degli Audibene, i più ricchi della
regione che si davano un sacco di arie perché il re in persona li aveva voluti a
corte in più di un’occasione.
La madre di Olmina si chiamava Eufrasia, il papà
Guidalberto. Si erano sposati in tenera età ed avevano avuto subito una bella
tartarughina, Olmina, appunto.
La nascita della piccola aveva reso perfetta la felicità dei
giovani sposi, finché un giorno…
“Ginevra, “ disse il signor Audibene alla moglie,” il re ci
ha di nuovo chiamati a corte, questa volta per sempre. Dobbiamo lasciare la
villa.”
“Oh, ma che onore, che alto onore! E cosa ne faremo della
casa? La venderemo?”
“Non so, vedremo. Intanto si parte, poi si vedrà.”
“ E i nostri cani? Le tartarughine?” chiese la moglie, che
intanto stava già pensando a quali abiti portare con sé.
“I cani li porteremo con noi, quanto alle tartarughe…si
arrangeranno. Qui hanno di che mangiare per un anno”.
Gli Audibene partirono il giorno dopo, lasciando le
tartarughine al loro destino.
Il parco era grande, è vero, e c’era un bell'orto, sul
retro, le tartarughe mangiarono insalata finché ce ne fu poi, dato che
nessuno coltivava più l’orto perché anche la servitù se n’era andata con i
padroni, di insalata non ce ne fu più nemmeno una foglia e le povere tartarughe
rischiavano di morire di fame.
“Che ne sarà di noi?” chiese un giorno Eufrasia al marito.
“Non lo so, moglie mia. Ciò che più mi preoccupa è come
faremo a crescere la nostra creatura. Ha bisogno di nutrirsi per crescere”.
Eufrasia e Guidalberto ci pensarono giorno e notte, alla
fine decisero di chiedere aiuto alla fata Nasturzia.
La fata, generosa com’era, accolse la famigliola nel suo bel
giardino, dove Eufrasia Guidalberto e la piccola Olmina furono di nuovo felici e con la pancia piena.
Quando Olmina fu adulta decise di restare con la sua amata
fata, non avrebbe saputo immaginare un posto migliore per vivere.
Era anziana, ormai, ma ancora forte e volenterosa, era
felice di aiutare Nasturzia quando c’era qualche lavoro pesante da fare.
L’aveva aiutata anche molti anni prima, quando avevano
traslocato dalla vecchia casa a questa, più grande e accogliente.
Insieme a loro viveva anche Tebaldo, il giardiniere.
Tebaldo era un omino piccolo e curvo, timidissimo, scappava
sempre quando avevano visite. Oppure si faceva rosso rosso in volto e
sorrideva pieno di imbarazzo.
Era nato in un lontano villaggio, oltre il monte, oltre
l’orizzonte.
I suoi erano contadini, la sua famiglia coltivava la terra
da generazioni. Suo nonno Erberto aveva avuto un premio dal re in persona per
l’abbondanza di messi che i suoi campi davano ogni anno. Nonna Elvira, invece,
era considerata la migliore sarta del paese, perfino la regina andava da lei
per farsi cucire gli abiti da gran sera.
Tebaldo aveva una sorella più giovane, Giovannina, che da
piccola era una vera peste, le era molto affezionato e al suo matrimonio aveva
pianto tanto per la commozione.
Il figlio di Giovannina, Guglielmo, voleva fare
l’esploratore, per questo una mattina, salutati i genitori, si era imbarcato
per terre lontane.
Aveva con sé pochi bagagli perché gli esploratori devono
viaggiare leggeri e sapersi arrangiare alla bisogna.
Sbarcò in Asia, prima, e la esplorò in lungo e in largo.
Laggiù conobbe un principe che gli offrì un passaggio sul suo vascello diretto
in una terra che Guglielmo non aveva mai sentito nominare.
Scesero a terra dopo quattro mesi e ciò che vide riempì i
suoi occhi di immensa meraviglia.
C’erano uccelli con ali di velluto, e mosche blu che si
posavano sui fiori e discutendo con le api si caricavano un po’ di nettare
sulle ali e lo succhiavano, volando qua e là.
C’erano volpi e tigri che facevano colazione con certa
frutta succosa e dolce, arrampicate sugli alberi, e buoi e cavalli tutti blu,
sdraiati sull'erba, a chiacchierare del più e del meno in una lingua che lui
non conosceva.
C’era di che esplorare per una vita intera, e Guglielmo
infatti restò lì, e ancora oggi vaga per quella terra misteriosa dove c’è
sempre qualcosa da scoprire.
Laggiù ha trovato anche una compagna, sua moglie Ottavia,
che percorre con lui quella terra in lungo e in largo, senza fermarsi
mai.
Ottavia è bionda, piccola e sempre allegra. Per forza, viene
dalla terra dei ridenti!
Dai ridenti non si conosce
la malinconia, tutti sono felici. Perfino la natura sembra che sorrida,
anche quando piove.
Una volta il loro re, stufo di tutta quell'allegria, fece un
editto col quale ordinava ai suoi sudditi di piangere almeno per cinque minuti
al giorno. La gente eseguì ma ogni volta che cominciavano a scendere le
lacrime su quelle guance abituate a sollevarsi in un sorriso ecco che a tutti
scappava da ridere e il re fu costretto a ritirare l’editto: “Come non detto”
disse, e tutto finì lì.
Anche Tolomeo, il mago del sorriso, proveniva dalla terra
dei ridenti.
Come mago non era un gran che ma come allevatore di formiche
un vero fenomeno.
Riconoscimenti, premi, coppe d’oro e d’argento…tutti lo
acclamavano, perfino i re.
Le sue formiche erano le più belle, le più addestrate, le
più educate del mondo intero e lui ne andava fiero, giustamente.
Anche di lei, Clorofilla, nonostante tutto.
Clorofilla era cresciuta poco, come formica sembrava più una
pulce ma Tolomeo l’amava ancor di più per questo. La sua era una storia triste.
Nata in una famiglia delle più illustri, educata nei migliori formicai, aveva i
modi di una vera signora ma era piena di complessi perché era così piccola che
spesso chi la incontrava per la prima volta faticava a capire da dove proveniva
quella vocina dolce e suadente.
Clorofilla allora non diceva niente ma tornata nel suo
formicaio, e di nascosto ai suoi genitori, piangeva lacrime piccole piccole, ma
pur sempre lacrime.
Se ne accorse un giorno la formica Eusebia, vecchia nutrice
di Clorofilla, e le parlò.
“Piccina mia, che hai da piangere? Sei una formica
fortunata, hai tutto quel che si può desiderare.”
“Nutrice mia, lo so,” rispose Clorofilla tra le lacrime, ”è
che sono troppo piccola, quasi non mi si vede. Le altre non sono come me.”
“Piccina mia, non piangere per questo, credi che a volte
esser piccoli e non esser visti può tramutarsi in una gran fortuna. Per esempio
un certo umano di nome Pollicino ne ebbe gran vantaggio”.
E gli narrò la storia che tutti conoscete, di Pollicino e di
come se la cavò.
La storia consolò un poco la piccina, soltanto un poco, ma
ciò bastò a farla smettere di piangere.
E quando Tolomeo partecipò ad una gara di formiche in
terra straniera, che per l’appunto era il
paese dove viveva la nostra Aurelia, Clorofilla decise di lasciare il formicaio
e di restare nel suo bel giardino dove formiche non ce n’erano ancora e i confronti
con le altre non si potevano fare.
Fu così che Clorofilla divenne la formica di Aurelia, una formica senza formicaio.
Fata Aurelia la portava sempre con sé, anche in vacanza.
Dormivano insieme, ora, nel lettone della bella stanza che
Nasturzia aveva preparato per loro.
Un buon riposo, ecco che ci voleva per Aurelia, che dormì a
lungo, per una settimana.
Fra un sonno e l’altro prendeva il tè con la sua buona
amica, e chiacchierava del più e del meno nel suo giardino pieno di fiori.
La bella vacanza passò in un attimo, si sa che volano sempre
via veloci, i giorni, in questi casi!
Aurelia fece ritorno a casa,
Clorofilla in tasca, ben riposata e pronta a ricominciare.
“Aurelia, ben tornata,” l’accolse la fata capo,” giusto in
tempo: abbiamo un problema. La vicina di casa…”
E sciorinò i guai più che disastrosi della vicina e di molti
altri ancora. C’erano un mare di interventi fatistici da fare, le vacanze erano
ormai lontane.
Aurelia si rimise subito al lavoro, e la nostra storia, come
le sue vacanze, ora è finita.
martedì 2 giugno 2020
Pronto soccorso tartarughe
Non siamo nel magico mondo delle fiabe, questa è una splendida realtà!
Il sito dell'ANSA riporta oggi questa bella notizia: nel ferrarese è nato il "pronto soccorso" per tartarughe marine, gestito dall'associazione di biologi marini Tao Turtle of the Adriatic Organization, in collaborazione con il centro ricerche Cestha.
Un centro di primo soccorso che accoglie gli esemplari feriti o in difficoltà che vengono successivamente esaminati per verificare che non abbiano patologie gravi. Se l'animale è sano e non richiede una degenza si procede alla marcatura e viene reimmesso in mare, se invece il caso è serio, la tartaruga viene trasferita al centro di terapia più vicino, che in questo caso è il centro di riabilitazione di Marina di Ravenna.
Creature affascinanti, arcaiche, le tartarughe, auguri di buon lavoro ai biologi marini dell'associazione Tao Turtle of The Adriatic Organisation!
Elena
Questo racconto, in fondo, ha il sapore di una fiaba.
Qualunque riferimento a fatti, luoghi o persone è puramente casuale, ecc.,ecc.
Buona lettura.
Elena
Barbara Cerrone
Elena
era molto devota alla Madonna; la pregava ogni giorno, mattina e sera; la
pregava quando si alzava, quando si metteva a tavola e quando andava a dormire.
Tutti in paese conoscevano la sua devozione, tutti l’ammiravano, dicevano:
“Eh! Com'è pia Elena, come prega sempre la Madonna! Bisognerebbe prendere esempio”.
Però
l’esempio non lo prendevano mai. Piuttosto si rincorrevano le bestemmie, fra i
vicoli sporchi e le case color della polvere.
Eppure
Elena viveva in una di quelle case, camminava in uno di quei vicoli e anziché
bestemmiare lei pregava: vai a capire cosa passa nella testa di uomini e donne
che percorrono le stesse vie ma non fanno lo stesso percorso.
Di
mestiere faceva la ricamatrice; ricami che erano pitture uscivano fuori da
quelle mani svelte, inossate e stanche come quelle di una vecchia. Lei però non
era proprio vecchia, galleggiava con grazia in quell'età mediana che vede già
dei segni spargersi come petali sul viso, non ancora profondi e non definitivi,
come appoggiati lì a caso da una mano distratta.
Non
era nemmeno una santa, solo una donna che aveva molta fede, tutti però consideravano
la sua condotta parente prossima della santità.
Quando
passava, le donne anziane quasi si inchinavano, e se per caso non avevano
ancora detto le preghiere improvvisavano qualcosa lì per lì, tanto per non
essere da meno.
E
del latino che il prete ammanniva dal suo altare a quella brava gente soltanto
Elena prendeva anche le briciole, soltanto lei, con la sua pazienza, coglieva
tutte quelle parole e le spargeva come unguento dentro l’anima.
Non
erano tutti lì ad ammirarla, c’era anche qualcuno che la criticava, diceva, per
esempio, che era troppo perfetta e chissà? Magari falsa. Ci fu perfino chi la
paragonò ai farisei. Si valutò perfino quanta beneficenza avesse fatto, per
poi concludere che non era abbastanza.
“Ecco un difetto grosso, ecco una mancanza
grave per una che si vuol dire cristiana” si mormorò dietro le persiane, senza
pensare che era povera anche lei e col ricamo non sempre si pagava pranzo e
cena.
Tale
era il paese e tale sarà sempre; la perfezione piace fino ad un certo punto;
finché non toglie il gusto e la maniera di criticare chiunque si ha davanti.
Accadde,
un giorno di primavera imbiondito dal primo sole, che Elena non fosse uscita
per la spesa; non era passata come al solito dalle stradine sporche, rasentando
i muri e i portoni sbiaditi, né era sgusciata in chiesa come un’ombra
silenziosa. Macché. Nessuno l’aveva incontrata, nessuno l’aveva vista.
Allora
si mise in moto tutto quel complicato meccanismo che porta a far ricerche così,
alla meglio, prima che se ne occupi chi le ricerche le sa fare per davvero.
Perfino
i detrattori si diedero da fare, dato che non avevano malignità fresche di
giornata da raccontare agli amici, giocando a carte dopo colazione.
A
mezzogiorno una vicina prese l’iniziativa e bussò alla porta di casa sua.
Nemmeno
un fiato uscì dalle finestre o dalle stanze buie. Non era in casa e non era
uscita: che fosse morta? Magari nel suo letto, come una vera santa, composta, e
col rosario tra le mani?
Allora
si entrò in casa con la forza, ma era vuota e il letto era rifatto. La fantasia si spinse più lontano e si pensò
che un angelo dal cielo l’avesse presa e portata via. “Eh no,” si disse poi, “l’avremmo
visto!”
Si esclusero interventi superiori e si
concluse che era proprio scomparsa, che si chiamassero le guardie, si
denunciasse che quella donna tanto pia non si trovava più; si rintracciassero i
parenti e si cercasse ovunque la figurina spiritata di Elena, la santa.
Partirono
le ricerche ufficiali e si affannarono gli amici; i parenti giunsero,
malvolentieri ma giunsero, dal polo opposto della regione come dall'altro mondo;
nessuna novità, nessuno che l’avesse vista uscire e scappar via col fagotto
sulle spalle.
Passò
un mese senza risultato, si cominciò a pensare che fosse morta, magari
uccisa... ma da chi? Dov'era, poi, il cadavere, per seppellirlo e dar l’eredità
ai suoi parenti che fosse pure quella misera casuccia?
Di
ipotesi ne furono fatte tante, nessuna, poi, risultò quella buona.
Dopo
sei mesi di ricerche vane, s’interrogarono quei bravi compaesani su quanto
tempo si dovesse attendere per la faccenda della morte presunta. Preghiere e
messe in suffragio furono dette e celebrate ogni giorno, perfino gli atei
furono visti in chiesa. Si pregava la Madonna e si invocava protezione per il
paese, preda di demoni che avevano seminato la cattiveria e tolto nientemeno
che una santa alla sua gente.
Il
tempo poi si depose su quei giorni, come fa sempre e senza tanti riguardi. Passarono
venti anni e più nessuno si ricordava di Elena, sparita senza lasciar traccia
in una fresca notte di primavera.
In
paese arrivavano i primi turisti, giugno splendeva di un sole già agostano, un
uomo, uno straniero, andò al forno per comprare il pane; fu lì che si diffuse
la notizia, fu lì che nacque la leggenda di una strana donna che l’uomo aveva
visto su in collina.
Disse che aveva i capelli bianchi, lunghi fino
alle spalle e scarmigliati; disse che pascolava cinque pecore un po’ smagrite e
che con loro attraversava i prati; disse che sorrideva e tra le mani aveva un
rosario e che pregava, pregava senza sosta e inneggiava al Signore ad ogni
passo.
Neanche
un’ora era trascorsa che in ogni strada viaggiava la paura: ci si convinse che
in collina c’era una pazza e bisognava stare attenti e non mandare i piccoli da
soli a giocare, casomai fosse scesa in paese. Il terrore si diffuse molto
presto fra quella gente indaffarata, e la tranquillità fu messa via in
soffitta, come una cosa vecchia da buttare.
A
qualcuno venne perfino in mente di organizzare una spedizione, una caccia per
stanar la donna e semmai portarla in ospedale.
Nessuno
pensò che potesse essere Elena a vagare su e giù per la collina come un
fantasma. Nessuno lo pensò, nessuno
volle crederlo: troppo dimenticata perché fosse possibile tirarla fuori dalla
naftalina e darle ancora forma di essere vivente.
Ma
per la gioia dei paesani quella creatura non fu più avvistata e la spedizione
non si fece mai
In
breve tempo tutto tornò alla calma conosciuta.
Tutto
finì come spesso finisce nel nulla della dimenticanza.
Soltanto
nelle sere in cui il silenzio era un rumore capitava ci fosse qualcuno che
credeva di sentire una voce cantare inni, e belati di pecore al pascolo ad
accompagnarla.