Modulo di contatto

Nome

Email *

Messaggio *

lunedì 25 giugno 2018

Campane addormentate


Un'altra fiaba che trova ispirazione nella tradizione popolare, dove diavoli e diavoletti complicano spesso la vita a poveri contadini, preti e varia umanità ma per fortuna tutto è bene...eccetera, eccetera.

Buona lettura.








Le campane addormentate
Barbara Cerrone




Le campane addormentate

 

 

C’era una volta un bellissimo paese dove la gente viveva felice e in pace con tutti.

La chiesa di questo villaggio era piccola ma molto bella, e aveva le campane più famose della vallata.

Suonavano così bene che venivano a sentirle dai paesi vicini, come fosse un concerto.

I campanari del paese, poi, erano fra i più rinomati, e vincevano gare su gare, portando a casa fior di trofei.

Il sagrestano era così orgoglioso di quelle campane che le lustrava come l’argenteria, dimodoché queste brillavano al sole, richiamando l’attenzione di tutti coloro che passavano da quelle parti.

Niente turbava la serenità di quella gente, nessun litigio, nessuna guerra, tutti lavoravano e vivevano tranquilli, secondo le proprie possibilità.

Accadde una mattina che l’anziano parroco si svegliasse più presto del solito.

Si alzò che la perpetua non era ancora arrivata a preparargli il caffè, guardò su, nel cielo, e vide che era ancora buio.

“Uhm, troppo presto, stamani. Vuol dire che tornerò a letto, anche se non ho sonno riposerò le mie gambe”.

Si distese nel lettuccio e provò a chiudere gli occhi ma un rumore lo fece scattar su come una molla.

“Chi è? Che succede?” gridò.

Nessuna risposta.

Si convinse allora che era stato un topo giù in cantina e tornò a sdraiarsi.

Ma ecco di nuovo il rumore, più forte di prima.

“Insomma, chi è là?” fece alzandosi dal letto.

Anche questa volta non ci fu risposta e il parroco decise di andare a vedere.

Aveva paura ma procedeva come se non ne avesse avuta perché, pensava, un ministro di Dio non può mostrarsi timoroso, confida nel Signore che è il suo baluardo, perciò non teme nulla. 

Se lo diceva mentre si dirigeva piano piano, circospetto, verso la cucina.

Se lo diceva e se lo ripeteva ma di paura ne aveva eccome, povero parroco, che in fondo era pur sempre un essere umano.

In cucina non c’era nessuno, e nemmeno nella piccola stanza da bagno, nell’ingressuccio o in cantina.

“Che sarà stato, allora?”  si chiese.

Di lì a poco bussò alla porta la perpetua.

“Che ha,” chiese entrando, “sembra un morto...che le è successo?”

“Nulla, Bertina, è solo che ho sentito un rumore e non capisco da dove viene. Qui non c’è nessuno.”

“E se non c’è nessuno vuol dire che era un rumore da poco” disse la perpetua, sbrigativa.      

“Sarà così” rispose il parroco, e si dispose a dir messa come ogni mattina.

Il rumore, però, si rifece vivo.

“Ah, sentito, Bertina? Qui c’è qualcuno nascosto.”

Bertina era una brava donna, puliva, pregava e faceva il suo dovere ma quanto a sentire...

“Eh, come? Io non ho sentito nulla!” borbottò mentre spolverava le mensole in cucina.

“Eh, già, siamo sordi, siamo! Come al solito dovrò sbrigarmela da solo”.

Il buon prete si fece coraggio, e si diresse come uno sparviero verso la cantina, dalla quale il rumore sembrava provenire.

Quando fu davanti alla porta, un topo, neanche troppo grosso, gli si fece incontro con aria minacciosa, alzandosi sulle zampette che pareva un leone arrabbiato.

“Tu, dove pensi di andare? Io sono qui per rovinarti la festa! “Gridò il topo.” E te la rovinerò. Non passerà un minuto che tu, e le tue campane, cadrete in un sonno profondo e  i cari compaesani se vorranno assistere alla Messa  dovranno far dei chilometri, fino al paese vicino, perché la tua chiesa da questo momento è sotto  la mia giurisdizione. Nessun prete ti potrà sostituire, perciò niente più messe e niente più preghiere. E ringrazia che ti addormento e non ti ammazzo!”

Figuratevi il parroco! Capì subito chi gli stava davanti e corse a prendere l’acqua benedetta ma non fece in tempo a fare un passo che già dormiva, e con lui le sue campane, che sembravano legate come prima di Pasqua.

La notizia corse velocissima sulle bocche stupite dei paesani: la buona perpetua, accortasi dell’accaduto, non perse tempo ad informare tutto il paese, e il paese tutta la vallata.

Si tentò di chiamare un prete esorcista ma il più vicino era in pellegrinaggio e non sarebbe tornato che dopo qualche mese. Ne fu convocato un altro che, a quei tempi, per arrivare fin lì avrebbe comunque impiegato il suo bel tempo, intanto i fedeli si dovevano arrangiare se volevano assistere alla Santa Messa.

Ebbe così inizio un via vai di fedeli fra il paese colpito dal maleficio alle chiese più vicine, via vai che faceva somigliare quella brava gente devota a una fila di formiche in cammino verso una briciola di pane.

Passò un mese, il parroco dormiva ancora della grossa, appoggiato sul lettino sistemato dalla fedele perpetua con quattro cuscini, come fosse un re.

Giunse dalla città la notizia di un incidente capitato all’esorcista che veniva da lontano.

Come se non bastasse quel che è successo e Le disgrazie non vengono mai sole furono i commenti della gente, assai poco originali, ma di originale c’era già un prete che dormiva da un mese e un maledetto maleficio che colpiva le campane e la chiesa, per quella gente era già abbastanza.

L’esorcista, nel tentativo di cacciare un diavolo dal corpo di un anziano contadino quasi alla fine della propria vita, per lo sforzo immane era caduto dentro una fossa, e lì si era spiacevolmente accorto che una delle sue robuste gambe non aveva gradito il volo e si era, guarda un po’, proprio rotta, costringendolo a star fermo per un pezzo.

E ora che si fa?  Fu il seguito del commento, anche questo poco originale ma che ci potevano fare se il problema era proprio quello: che fare?

Fra tante facce costernate e incerte, si fece avanti un giovanotto dal fisico robusto e il cuor di leone, proprio come si addice a un giovane che non conosce il pericolo e ci va incontro come ad una festa.

Disse, con gran baldanza, che avrebbe tolto lui le castagne dal fuoco e il parroco dal letto.

“Che ci vuole? Basta stanare il topo invasato e fargli uscire a forza quel demoniaccio dal corpo. Ci penso io, non occorre il prete.”

Gli occhi della gente fecero un domino nel guardarsi l’un l’altro, l’ultimo sguardo ritornò al ragazzo che se lo prese e ridendo disse:

“Non vi preoccupate, me la cavo. Sono grande e grosso e il topo è piccolo, glielo caccio io il demonio dal corpo”.

Fu inutile ricordare al ragazzotto che non era tanto questione di forza quanto di preghiere, di autorità nel cacciar diavoli e di esperienza, infine, che solo un prete esorcista poteva avere; fece spallucce, poi prese un bastone e se ne andò a caccia del topo come un gatto.

Rivoltò la casa da cima a fondo finché non lo trovò, quel maledetto, col naso ficcato nel formaggio.

“Eccoti qua, ora ti sistemo a dovere!” gli urlò roteando il bastone.

Ma il topo, invasato, era più forte di lui.

Con i denti aguzzi gli diede un morso sulla mano e così forte che lo costrinse a lasciare cadere il bastone, il topo fu lesto a raccoglierlo e cominciò a picchiarlo.

Ne prese così tante, quel povero ragazzo, che quasi ne moriva o giù di lì.

Scappò, approfittando di un momento di distrazione di quell’ infame, e non si ebbero più notizie di lui per anni e anni.

Appena fu noto l’esito della missione lo sconforto si impadronì di nuovo di quel popolo smarrito.

“E ora cosa ci si inventa?” questa la domanda che ora circolava di bocca in bocca.

Venne su un vecchio, un anziano che andava in chiesa tutti i giorni e pregava come un santo.

Gli dissero:” Per carità! Vuoi morire? Quel topo ha il maligno in corpo e ti ucciderà!”

Il vecchio, però, non volle saperne e andò deciso incontro al suo destino.

Trovò il topo ma non lo sfidò. Non aveva armi, solo il suo rosario.

Si mise a sedere davanti a quella bestia cominciò a sciorinare preghiere su preghiere.

Il topo gli vomitava addosso tutti gli insulti che il suo infame ospite gli suggeriva, finché gli insulti non gli bastarono più e passò all’azione.

Gli si avventò contro come una furia e prese a morderlo con tutte le sue forze.

Il vecchio sanguinava, aveva il corpo piagato dalle ferite ma continuava a pregare e a pregare, con più fervore, semmai.

Continuò fin quasi all'alba, le sue forze erano esaurite e pensava già di morire quando finalmente il topo ebbe un sussulto e stramazzò a terra che sembrava morto.

Nello stesso istante dalla sua bocca uscì una melma nera e fetida che a contatto con l’aria si dissolse e sparì.

Il topolino, allora, aprì gli occhietti furbi e si rialzò, correndo via veloce.

“Venite, fratelli, è tutto finito!” urlò il vecchio.

Una fiumana di gente si riversò nella casa e gli si fece attorno: medicarono le sue ferite, lo abbracciarono, lo acclamarono come un eroe e lo portarono in trionfo giù per strada.

Le campane suonarono a festa e il parroco finalmente si svegliò gridando il nome della perpetua, che non lo sentì perché la sua sordità era rimasta tale e quale.

Nella chiesa si riprese a celebrare la messa e in paese tornò la felicità che non se ne andò più, perché fra quella brava gente ci si trovava bene. Molto bene.


mercoledì 13 giugno 2018

Sogni d'oro



Sogni premonitori, oroscopi, divinazioni più o meno azzeccate:vi siete mai chiesti a che serve conoscere il futuro prima che accada? A cambiarlo? Uhm, no, direi di no. Anzi, forse impigrisce o terrorizza prima del tempo.  Dunque? Il futuro si puo' impostare nel presente ma anche così tutto puo' succedere, tutto puo' essere sconvolto. Fare il possibile per avere il futuro che vorremmo è sacrosanto, di più non possiamo fare. 
Intanto, viviamo il presente.
Nel frattempo auguro anche a voi...





Sogni d’oro
Barbara Cerrone


Amedeo era un contadino felice. Zappava la sua terra, la seminava, ne raccoglieva i frutti e sorrideva al nuovo giorno quando si alzava.
Viveva in compagnia di sua madre e di un cane di nome Arnolfo che lo seguiva dappertutto ed era il suo guardiano, la sua guida e il suo migliore amico.
Una mattina Amedeo si alzò come al solito molto presto per andare nel campo, sua madre gli aveva già preparato la zuppa di latte con pane e zucchero, e ora stava lavorando a maglia seduta sulla sedia a dondolo.
“Buongiorno, mamma, come stai oggi?”
“Meglio, meglio. La sciatica non si fa sentire, sarà bel tempo, oggi.”
“Benone, allora. Mangio e vado subito al lavoro.”
Amedeo mangiò avidamente la zuppa, salutò la madre con un bacio e uscì seguito dallo scodinzolante Arnolfo.
Fuori il sole stava facendo capolino, le nuvole del giorno prima erano scomparse, il cielo era terso e pulito come l’acqua limpida di un ruscello.
“Che bella giornata!” disse Amedeo.” Voglio proprio godermela. Quando avrò finito mi stenderò sull'erba fresca a riposare, e chissà che non mi venga un bel sogno, se mi addormento.”
Dovete sapere che Amedeo era famoso per i suoi sogni. Sognava cose che poi si avveravano sempre, cose belle, cose da augurarsi succedano nella vita, insomma.
Per questo motivo ogni volta che si stendeva a dormire sull'erba i suoi compaesani, passando, mormoravano:
“Ecco Amedeo che dorme beato, ora arriva un bel sogno. Chissà a chi toccherà?”
Anche quel giorno fece un bel sogno, e quando riaprì gli occhi  lo raccontò con tutti i particolari alla piccola folla radunata intorno a lui.
“Ho sognato, “cominciò,” che Peppe il sellaio aveva un sacco pieno di monete d’oro e con questo andava in città a comprare dei bei vestiti per la moglie e tanti giocattoli per i suoi bambini.”
“E poi, e poi? “ lo incalzavano i suoi compaesani.
“E poi nulla, il sogno finisce qui.”
“Oh!” fecero quelli, delusi. Speravano di sapere come andava a finire il sogno, cosa vedeva Peppe in città, come lo accoglievano al ritorno  i suoi familiari, ecc., ecc.
Insomma, avrebbero voluto un romanzo intero, ma Amedeo si era fermato all'inizio: e che ci poteva fare? Lui, di più, non aveva sognato.
Quando Peppe seppe la cosa si rallegrerà tutto, e cominciò ad aspettare che il sacco d’oro finisse nelle sue mani, anche se non sapeva come.
Tanto per cominciare, il giorno dopo non andò al lavoro, e nemmeno quello successivo.
La gente cominciò a guardarlo con rimprovero, aveva due bambini e una moglie malata e stanca, cosa aspettava a darsi da fare? Il sogno non diceva quando sarebbe arrivato il sacco pieno di monete, e se fossero passati degli anni? Cosa avrebbero mangiato i  bambini nel frattempo?
Stanco di tante critiche, Peppe un giorno fece fagotto e se ne andò, dicendo alla povera moglie che andava a cercar fortuna in un altro paese.
Nonostante i pianti e le preghiere della sua consorte, i Pensa ai bambini e i Come farò a da sola? Amedeo se ne andò, promettendo e giurando che sarebbe tornato presto con tanti di quei soldi che avrebbero avuto di che vivere da pascià per il resto dei loro giorni; nel frattempo si raccomandasse al prete, che era di cuore e aiutava tutti, il buon Dio avrebbe pensato al resto.
Convinto di far bene e non male, il nostro Peppe salì sul suo asinello e partì, lasciando moglie e figli in lacrime.
Quando in paese si seppe della sua partenza, ci fu una gara a portar cibo alla povera famiglia abbandonata e, fra un Disgraziato, sarà punito per avervi abbandonato e un Si vergogni, quello sciagurato, lasciarvi così senza mezzi e andar via come un giovane scapolo alla ventura consolarono la donna e anche i piccolini, che ebbero da mangiare e da vestirsi per un pezzo.
Il prete poi la aiutò a trovare un posto come domestica in una famiglia benestante, in modo che si guadagnasse il pane e il paese smettesse di mormorare.
Passò un anno, la famiglia di Peppe viveva serena con i pochi mezzi che la sua condizione le permetteva, ogni tanto una certa tristezza per la sua assenza calava  come una nuvola su quella povera gente che si chiedeva, tra le altre cose, se Peppe fosse vivo e in salute e quando sarebbe tornato.
I sospiri di quei tre non lasciavano indifferente  Amedeo, il quale sapeva di avere un dovere ben preciso: mettersi subito a sognare qualcosa di buono,  sperando fosse per quella famiglia.
Così, una mattina di luglio, prima che il sole infuocasse la terra, si sdraiò sul suo campicello e si addormentò.
Quel che sognò, però, non solo non era per niente bello ma la paura che ebbe fu tanta che si svegliò di soprassalto, gridando come un forsennato.
“Aiuto! Aiuto! “
In venti  e più corsero a dargli soccorso, pensando che avesse avuto un malore o che qualcuno lo avesse aggredito.
“No, no, io sto bene,” li rassicurò,” si tratta del sogno. Non era affatto bello. Ho visto il nostro Peppe scendere da una carrozza signorile con un sacco di monete d’oro scintillanti come stelle, rideva e correva verso il suo asino dicendo che sarebbe presto tornato a casa dalla sua famiglia...”
“...e dove sarebbe il brutto?” lo interruppe Giovannino, un contadino che era corso fin lì dal lavoro con la zappa ancora in mano.
“Ora arriva,” rispose Amedeo,” un po’ di pazienza.Dicevo? Ah, sì! Peppe si consolava tutto e saliva sul suo asino quando due malfattori, brutti come la peste e la fame messe insieme, lo hanno preso e gli hanno dato tante di quelle botte da non farlo più rialzare e sono scappati  con le monete lasciandolo lì a terra, mezzo morto. Non contento, uno di quei disgraziati è tornato indietro. Temendo che Peppe si potesse riprendere e denunciarlo ha pensato fosse meglio caricarlo sul mulo e portarlo nel bosco, e così ha fatto, aiutato dall'altro malandrino. Una volta arrivati nel bosco lo hanno appeso per il collo a una quercia e addio Peppe!”
“No!” gridarono tutti insieme quei paesani, inorriditi.
“Sì! Questa volta vorrei proprio non aver sognato. Mi raccomando, non dite nulla a quella povera donna, non mettiamole altri pensieri nella testa”.
Dato che Amedeo di solito faceva bei sogni, la popolazione si trovò spiazzata e sgomenta di fronte a un incubo come quello, ma il più triste di tutti era Amedeo.
La notte non chiuse occhio, pensava a Peppe, alla sua famiglia,  si chiedeva cosa poteva fare.
Ma a volte la notte porta davvero consiglio.
Il giorno dopo Amedeo prese la sua decisione: lasciò madre e campo e  partì alla ricerca di Peppe. Portò con sé solo il cane.
Andò per terra, andò per mare, finché un giorno, stanco di tanto peregrinare, si sdraiò sotto un albero in un bel prato verde e fece un sogno.
Sognò Peppe che chiedeva aiuto appeso per il collo a una quercia e si vide mentre cercava di slegarlo e riportarlo a terra, ma proprio quando ce l’aveva quasi fatta ecco arrivare una volpe che lo guarda e comincia a parlare.
“Uomo, tu sei uno sciocco. Se non avessi raccontato il sogno delle monete d’oro questo poveretto sarebbe a casa sua e non sarebbe partito in cerca di fortuna, convinto che in giro per il mondo avrebbe trovato le monete d’oro. Lascia, ti prego, che la sorte si avveri senza annunciarla, perché puoi causare molti guai a chi ti ascolta.”
“Ma io non gli ho detto che le monete le avrebbe trovate andando via da casa!” replicò Amedeo.
“No, è vero, ma quando si dice a un uomo tanto povero che presto avrà fra le mani una fortuna bisogna prevedere che possa perdere la testa e fare qualche sciocchezza. Hai sbagliato. D’ora innanzi, belli o brutti, non rivelare più i tuoi sogni. Tanto, qualunque sia la sorte che predicono, né tu, né altri potranno cambiarla: a che vale, dunque, conoscerla prima del tempo?”
Detto questo la volpe sparì e Amedeo si svegliò tutto tremante.
“La volpe ha ragione. È da folli voler sapere prima cosa ci accadrà, perché se è cosa brutta a che scopo saperla se non si può evitare? E se è bella arriverà di sorpresa e ci darà ancora più gioia. Lo dirò ai miei compaesani, e d’ora in avanti terrò per me ciò che i sogni mi riveleranno. A dirla tutta, vorrei non aver più certi presentimenti, tenere dentro cose che nessuno sa è un brutto peso da portare. E ora che sono bello che riposato torno a cercare Peppe”.
Dopo un’ora di cammino si imbatté in una intricatissima foresta, era quasi buio e le gambe gli si piegavano dalla paura all'idea di entrarci, ma nel sogno aveva visto Peppe appeso a un albero e bisognava vedere che non fosse proprio lì, in mezzo a quei giganti verdi.
Si inoltrò piano piano nella boscaglia chiamando a gran voce:
“Peppe, Peppe!”
Nessuna risposta. Si spinse fino al limitare della foresta, vedeva già in lontananza le prime case sparse.
“Niente, nessuna traccia. Tanto vale che ora vada avanti. Mi fermerò al villaggio per la notte e domani ripartirò.”
Nel buio imminente anche le voci a volte sembrano più sfumate.
“Amedeo! Amedeo!”
“Chi è? Chi mi chiama?” chiese voltandosi di scatto.
La paura gli faceva tremare mani e labbra ma quando lo vide, così appeso ad una quercia altissima, si precipitò verso di lui.
“Peppe, Peppe! Arrivo, eccomi”.
Il problema era arrivare fino a lui. Amedeo non aveva una scala tanto alta, anzi, non aveva proprio una scala.
“Amico mio, abbi fiducia. Il villaggio è vicino, corro subito a cercare aiuto. Vedrai che ti salveremo.”
Mai aveva corso così in vita sua. Arrivò in paese come un fulmine, radunò uomini, donne, cavalli e  buoi; tutti, anche i gatti, andarono a liberare Peppe.
Ci volle del bello e del buono, ma quelle brave persone riuscirono insieme a tirar giù quel disgraziato che per fortuna era appeso per le spalle, non per il collo.
Qualche volta anche i sogni sbagliano.
Lo portarono subito alla locanda, dove fu medicato delle ferite, rifocillato e messo a nanna in un comodo lettino.
Il giorno dopo Amedeo e Peppe fecero ritorno a casa.
L’accoglienza in paese fu trionfale. Moglie e figli, in lacrime, lo abbracciarono e non lo volevano lasciare, nessuno lavorò quel giorno perché era festa, la festa di un amico ritrovato.
Passarono i mesi, Amedeo continuò a sognare e i suoi sogni, come sempre, si avveravano ma lui restò fedele alla promessa.
Non rivelò mai più a nessuno quel che sognava.


Fu durante una bella giornata di primavera.
 Peppe era intento al suo lavoro, ad un tratto si accorse di un enorme sacco che qualcuno aveva lasciato lì, forse dimenticandolo.
“Chissà di chi è, “ si chiese, “ l’ultimo cliente se n’è andato un’ora fa ed era un forestiero. Vediamo un po’ che c’è qui dentro.”
Lo indovinate? C’erano proprio le monete d’oro. Ma insieme a quelle ecco  anche un pergamena, diceva:
“ Un sellaio d’oro merita una ricompensa d’oro. Queste monete sono per te, te le sei meritate”.
Chiudeva con una firma tutta ghirigori e un bel sigillo che non era altri che quello del re in persona, passato sotto mentite spoglie, e per chissà quale missione o scopo, da quelle parti.
“ Pensare che sono andato tanto lontano a cercarvi, monetine mie!“ gridò Peppe prima di andare a comprare vestiti e giocattoli senza risparmio.
E da quel giorno vissero tutti, ve lo garantisco, molto felici e anche più contenti.

martedì 12 giugno 2018

Andersen, fiabe dalla Danimarca



Hans Christian Andersen (Odense, 2 aprile 1805 - Copenaghen, 4 agosto 1875).
Sapete tutti chi era, vero? Nonostante non abbia scritto solo fiabe è a queste ultime che deve la sua fama mondiale.
Sirenetta, La principessa sul pisello, La piccola fiammiferaia e molte altre, celebrate anche dal cinema, vere e proprie icone dell'immaginario fiabesco.
Andersen colma la lacuna fra la fiaba dell'arte romantica e il racconto popolare così come è stato raccolto dai Grimm. 
La sua ispirazione trae spunto sia dal folklore che, soprattutto, dall'elaborazione del ricordo personale; è una fiaba innovativa che coniuga sperimentazione e tradizione, anche attraverso un uso all'epoca giudicato sconveniente della lingua: espressioni tipiche del linguaggio parlato, suoni e voci sconclusionati, ecc.
Andersen sembra sorridere e allo stesso tempo credere con la fresca ingenuità di un bambino nelle immagini fantastiche che lui stesso evoca. 
Le sue fiabe sono cibo per la mente, aiutano ad osservare la realtà da punti di vista diversi, a vedere l'invisibile.
Premesso ciò, devo ammettere che da piccola  ho avuto molte difficoltà a reggere l'impatto emotivo di una fiaba come La piccola fiammiferaia: straziante, davvero troppo triste per una bambina che sognava sempre e comunque il lieto fine. E ancora adesso...

venerdì 8 giugno 2018

Anche i gatti qualche volta si arrabbiano...



Qualche volta i mici, come noi, si possono arrabbiare, specialmente se c'è di mezzo una buona causa.
Buona lettura.






La rivolta dei gatti
Barbara Cerrone




C’era una volta un gatto, anzi: due. No, che dico? Tre. Macché! Erano almeno quattro...o cinque.  Ecco, ora ricordo: sette. Sette gatti.
Dunque, dove eravamo rimasti? Ah, sì: c’erano una volta sette gatti.
 Vivevano tutti insieme  in una grande casa di campagna, con l’orto e il giardino, tante oche e galline e un cavallo.
Insieme a loro nella grande casa c'era anche una coppia di umani, Anselmo e Aldina, con i  tre figli: Giovanni, Mimmo e Anna, la più piccolina.
Un giorno bussò alla porta  un inviato del re per riscuotere certe gabelle.
“Ma noi abbiamo già pagato le gabelle,” fece notare Anselmo,” cos'altro ci può essere?”
“Eh, le gabelle non finiscono mai. Il re ha bisogno di denaro per la nuova guerra che si appresta a fare. Suvvia, non vedete, buon uomo? Ho qui l’ordine firmato da sua maestà in persona”.
Anselmo sospirò, guardò la moglie che stava quasi per piangere, poi andò a prendere gli ultimi denari che gli restavano e li consegnò al messo del re.
L’uomo prese le monete fece un mezzo inchino e se ne andò, tutto soddisfatto.
Il giorno dopo, mentre la famiglia riunita  per il pranzo mangiava una bella zuppa di cipolle, ecco di nuovo arrivare l’inviato del re.
“Benone, vedo che di cibo ne avete. Il re vuole che ogni contadino del suo regno
consegni almeno un terzo del raccolto. Sono qui proprio per prendere il dovuto.”
“Ma anche questo lo abbiamo già consegnato a sua maestà,” disse ancora Anselmo,” cosa mangeremo noi se diamo via tutto?”
“Ingrato! Il re vuole il bene dei suoi sudditi, ecco perché ha dichiarato questa guerra che di sicuro vincerà, e il nostro regno sarà uno dei più potenti sulla terra. Cosa può desiderare di più un suddito? E poi ho qui l’ordine firmato dal re in persona”.
E Anselmo consegnò grano, olio, vino e già che c’era anche cipolle.
Tre giorni dopo, alle prime luci dell’alba, bussarono forte alla porta.
Anselmo andò ad aprire col berretto da notte ancora sulla testa e chi si trovò davanti un’altra volta? Sì, proprio lui. Il solito inviato del re.
“Sua maestà deve requisire il vostro alloggio ma non temete: voi potete restare. Vi sistemerete nella stalla, così i bambini staranno al caldo e anche voi. “
Anselmo sbiancò in volto.
“Ma...ma...perché?” osò chiedere.
“Che? Discutete un ordine del re? Qui, guardate, c’è il suo sigillo!” strillò il messo srotolando una pergamena.
Dopo un’ora Anselmo e la famiglia, gatti compresi, sloggiarono dalla casa  e si sistemarono alla meglio nella stalla.
Ma i mici non ci stavano a far le valigie dalla loro comoda casetta. I gatti, amici miei, non amano cambiar la residenza se non per loro scelta.
“ E chi sarà mai, questo re, che ci butta fuori da casa nostra?” disse il grigio che era il più scaltro e aveva nome Astolfo.
“Chi vuoi che sia? Un re, uno che comanda. Ma chi comanda dovrebbe far le cose con giustizia, invece ci ha privati della casa senza un motivo, e per  cosa?  Per farci vivere quel brutto ceffo del suo inviato con la sua signora. Io dico che bisogna ribellarsi” sentenziò Gigetto il rosso, il più vivace della compagnia.
“Ribellarsi, ribellarsi...si fa presto a dire ribellarsi! Siamo gatti, come vuoi che possiamo opporci agli umani? Hanno armi e uomini, non ce la faremo mai” brontolò un tigrato che avevano soprannominato Falco perché gli mancava un occhio, lo aveva perso durante un combattimento con un rivale in amore.
“Ce la possiamo fare, invece,” insisté Gigetto,” siamo sette, siamo uniti e il cervello non ci manca. Mi farò venire qualche idea, domani stesso saprete il mio piano. E presto torneremo a casa e scacceremo quella gentaccia.”
“Ma se è stato il re a dare l’ordine ci manderà i soldati e allora...”
“Oh, zitto Falco, sei il solito rassegnato. Non hai capito che c’è qualcosa di strano? Non credo che il re abbia dato ordine di dare la nostra casa a quei tipi. Sento puzza di bruciato, amico mio. Anzi, ti dimostrerò presto che ho ragione: vado a fare un po’ di spionaggio.”
“C..c..come? Sei matto? E se ti scoprono?”
“E allora? Sono un gatto, no? Chi fa caso a un gatto? Possono scacciarmi da casa ma non impedirmi di gironzolare. Ascolterò i loro discorsi e scoprirò chi sono veramente.”
“Va bene, Gigetto, forse non hai torto. Vai e scopri la verità”.
Gigetto non pose tempo in mezzo, si limò le unghie con un pezzo di legno che stava lì, buttato per terra,  lavò ben bene il pelo e si avviò verso la casa.
Poiché la porta era chiusa, si guardò intorno per vedere se c’era una finestra aperta dalla quale infilarsi. Quella della cucina era socchiusa.
“Molto bene,” pensò, “ è la migliore. Così magari rimedio anche qualche bocconcino”.
Nella stanza la cuoca stava spennando un pollo per la cena e si lamentava con il suo giovane aiutante. Gigetto andò ad acquattarsi sotto il tavolo e si mise in ascolto.
“Eh, questa gente...avari, pidocchi! Per i miei servizi a corte mi davano dei bei denari, altro che. Invece qui non ho che un’elemosina.”
“Ma allora perché non tornate a corte?” chiese il ragazzo col sorriso sulle labbra.
“Fai poco il cretino o ti do una di quelle sventole che ti basterà anche per quelle che tua che tua madre ti ha risparmiato. Sai bene che ho subito un’ingiustizia e sono stata cacciata dal mio posto per l’invidia di una servetta.”
“Se non sbaglio la servetta disse che rubavate dalla mensa, eh?”
“”Brutto scimpanzé alto tre soldi! Ti faccio vedere io cosa succede a chi fa l’arrogante con me!”
Mentre la cuoca correva dietro al ragazzo col mattarello, Gigetto ne approfittò per entrare.
“Uhm, dunque la cuoca è una ladra. Sono qui da pochi minuti e ho già raccolto un’informazione interessante. Adesso vediamo dove stanno gli altri e sentiamo cosa dicono.”
Non fece in tempo a muoversi che entrò il messo con la moglie.
“Ma dov'è quella scansafatiche della cuoca? Moglie mia, non per rimproverarti ma hai scelto la peggiore.”
“Marito mio, era quella più a buon mercato, lo sai. La sua reputazione era distrutta, nessuno le avrebbe mai dato un lavoro perciò costa così poco. Di più non potevamo permetterci.”
“Bella roba, è una ladra, non mi pare un grande affare mettersi in casa una ladra. Se ci deruba avremo perso i soldi che abbiamo risparmiato sulla sua paga. Comunque ora non si sa nemmeno dov'è e stasera abbiamo ospiti a cena. Questo dovrebbe essere affar tuo, come padrona di casa.”
“Certo, certo, è affar mio. Quanto a esser la padrona, marito mio, non direi. Sai bene che non abbiamo diritto di star qui, e se ci scoprono...”
“E chi vuoi che ci scopra? Quei poveracci nella stalla? Hanno creduto alla storia come babbei, sigillo e firma compresi. Non vedi? Si tratta di gente semplice, che vive qui, in campagna, senza sapere nulla di quello che succede a corte.”
“Già, altrimenti saprebbero che sei stato accusato di furto come la cuoca e che sei fuggito per non finire in prigione. Rubare dal tesoro del re: come ti è venuto in mente? Tu, uno dei suoi servitori più devoti!”
“E delle tue pretese non ricordi nulla? Lasciamo stare, non parliamo più di questa storia. Qui siamo al sicuro, con questa gente stolta che ci crede inviati dal re. Resteremo solo il tempo necessario per avere un lasciapassare e andare oltre confine. Vedrai, presto saremo ricchi e felici in Norlandia.”
“Basta così, ho sentito abbastanza” disse Gigetto passando per la stessa finestra dalla quale era entrato.  E siccome aveva fame  non se ne andò a zampe vuote: stringeva fra i denti il pollo mezzo spennato che la cuoca aveva lasciato sul tavolo.
Riferì per filo e per segno ciò che aveva scoperto; i gatti si misero subito  studiare un piano, chi diceva questo... chi diceva quello... passarono tutta la notte a discutere. Ovviamente a tenere banco era lui, Astolfo, e alla fine fu la la sua linea a passare.
Si basava su un programma molto semplice ma di sicura efficacia: tirare fuori tutta la felinità che avevano in corpo.
“Che avranno i gatti da miagolare così, stanotte?” disse Aldina.
“E chi  lo sa?” Rispose Anselmo.” Forse anche loro soffrono per questa situazione, poveri mici”.
Il giorno dopo il piano era pronto, non restava che agire.
All'alba Gigetto uscì dalla stalla e andò a graffiare la porta di casa, cric, cric, cric.
“Chi è a quest’ora di mattina?” chiese la cuoca uscendo in pantofole e vestaglia.
“Tu? Piccola peste, che vuoi? Vattene via subito!” urlò la donna impugnando una scopa.
Gigetto fu più svelto di quella megera e svicolò come un’anguilla entrando nell'ingresso.
La cuoca provò a rincorrerlo ma rinunciò quasi subito, era grassa ed era ancora così presto! Il suo comodo letto la chiamava per un’altra mezz'oretta di sonno.
Gigetto  fu libero di salire su per le scale e andare fino in camera da letto dove i due imbroglioni dormivano della grossa.
Intanto gli altri gatti stavano girando intorno alla casa, e miagolavano a squarciagola: Miaooo! Miaooo! tanto che i due furfanti si svegliarono e si affacciarono alla finestra.
“Brutti gattacci, andate via!” urlò la donna.” Ora prendo un secchio pieno d’acqua e vi faccio un bel bagnetto!”
Nel frattempo Gigetto era salito sul letto e con la massima nonchalance stava facendo pipì sul cuscino della signora.
“Norberto,  non vedi cosa fa quel gattaccio? Fermalo subito!”
In due si misero a correre dietro a Gigetto che saettava di qua e di là e non si faceva prendere.
La baraonda svegliò di nuovo la cuoca che tanto per sgranchirsi le gambe si mise anche lei a correre dietro al gatto.
E gli alti mici? Continuavano a miagolare come pazzi, l’aiutante della cuoca uscì per cacciarli e i felini ne approfittarono per sgusciargli tra le gambe ed entrare, quindi si lanciarono per le scale veloci come fulmini.
Trovarono Gigetto che correva e correva e i due mascalzoni dietro a lui, insieme alla cuoca.
Ne nacque una baruffa che sembrava la fine del mondo. Ad un certo punto tutti inseguivano tutti e non si capiva più chi era l’inseguito e chi l’inseguitore.
Fu Gigetto, come al solito, che pose fine a  quel trambusto.
Nel bel mezzo di quella corsa sfrenata inaspettatamente si fermò e ...bum! I tre mariuoli precipitarono giù per le scale come salami, cadendo uno sull'altro.
Dato che tutti e tre erano grassi, grossi e goffi non riuscivano a rialzarsi, senza contare le membra indolenzite.
Toccò al povero ragazzo di cucina aiutarli, li tirò su uno ad uno, senza dimenticarsi di fare due risate.
“Pagliaccio! “ gli gridò la cuoca.” Se non la smetti di ridere ti sistemo io! Lascia che mi riprenda. e poi vedi”.
Nello stesso istante i gatti, capitanati da Gigetto, stavano scendendo a rotta di collo per la battaglia finale.
Non avevano ancora avuto la forza di muoversi, quei tre bellimbusti, che sette gatti infuriati si lanciarono contro di loro aguzzando le unghie come tigri.
“Aiutooo! Aiutooo!” si sentiva gridare.
Anselmo e Aldina si stavano alzando dal loro povero giaciglio di paglia, udirono quel fracasso provenire dalla loro casa e si precipitarono fuori per vedere cosa stesse succedendo.
Lo spettacolo che gli si presentò davanti agli occhi lo raccontarono come una novella per anni e anni nelle fredde sere d’inverno, davanti al camino.
Gigetto aveva una gamba della cuoca fra i denti, il pessimista Falco teneva un braccio dell’uomo fra le zampe e lo graffiava con tutte le sue forze, Astolfo, che era il più furbo, dirigeva le operazioni e badava che la signora, prigioniera degli altri tre mici, non scappasse.
“Ma che avete fatto?” disse Anselmo mettendosi le mani nei capelli.” Ora il re ci condannerà tutti”.
Mentre cercava di liberare quei tre farabutti notò un biglietto per terra che uno di loro doveva aver perso nella lotta.
Il biglietto diceva:
“Qui tutto bene, i due sciocchi contadini ci sono cascati. Siamo padroni della casa e della terra. Ti faremo sapere quando saremo arrivati in Norlandia.”
“Allora siete degli impostori! E noi saremmo sciocchi contadini? Ragazzi:addosso!”
E si mise a graffiarli insieme ai gatti.
Sfiniti, i furboni finalmente  si arresero e confessarono tutte le loro malefatte.
Il ragazzo di cucina fu inviato a chiamare le guardie del re che vennero e li misero in prigione  a rimpiangere di aver fatto tanti guai.
Anselmo e i suoi, finalmente, tornarono nella loro amata casa, insieme ai gatti.
Il re in persona li proclamò tutti eroi, non solo,  assegnò un vitalizio alla famiglia e pesce fresco  a volontà ai felini, per tutta la vita.
E vi assicuro che da allora nessuno turbò mai più la loro pace, e vissero tutti felicissimi e molto, molto, molto contenti.
Davvero.