Modulo di contatto

Nome

Email *

Messaggio *

giovedì 28 gennaio 2021

La gara delle torte

 Una storia semplice, come una torta margherita. 

Buona lettura.



La gara delle torte

 Barbara Cerrone

 

Gemmina era una gran cuoca, lo sapevano tutti. Alla mensa della scuola i bambini facevano festa quando sapevano che c’era lei ai fornelli. La sua pasta al pomodoro era poesia pure, il pollo arrosto un poema e la torta di mele…beh, la torta di mele un’esperienza paradisiaca.

Fra le torte, quella che Marina preferiva era quella al cioccolato. La aspettava con ansia gioiosa. Ogni martedì, come da menu esposto fuori dalla porta della mensa, c’era la torta al cioccolato, e ci potevi scommettere che a prepararla era Gemmina mani d’oro.

A Marina piaceva molto Gemmina, non solo perché era una brava cuoca e faceva delle torte da leccarsi i baffi, ma anche perché era gentile con tutti. E allegra. Si rideva sempre, con lei, anche nei periodi in cui la scuola pesava di più.

Ecco perché quando una delle maestre ebbe l’idea di fare una gara di torte fra le cuoche della mensa la bambina la convinse a partecipare. Si formarono subito le tifoserie.

Marina ovviamente si schierò con Gemmina, si diceva certa che avrebbe vinto, con le amiche cominciò a preparare striscioni colorati inneggianti alla sua cuoca preferita.

La gara doveva svolgersi due settimane dopo le vacanze di Pasqua. Le concorrenti erano tutte molto brave e agguerrite, ma nessuna avrebbe potuto battere la sua Gemmina.

Per vincere una gara, però, bisogna allenarsi. Non che Gemmina non fosse più che esercitata: con la mensa aveva un bell’allenamento quotidiano da fare ogni giorno, tuttavia in certi concorsi bisogna dare quel certo non so che in più che fa la differenza, si sa, perciò Marina  decise che Gemma doveva fare almeno una torta al giorno. Sempre diversa, per provare tutte le ricette e scegliere quella da presentare alla gara.

Giorni e giorni di prove confermarono che Gemmina era insuperabile con la torta al cioccolato.  Lì era proprio una campionessa. Avrebbe scelto quella, dunque, e non ci sarebbe stata gara per nessuno!

Il grande giorno si avvicinava, l’emozione cresceva nei cuori dei bambini e in quello di Marina più di ogni altro, lei ci teneva tanto alla vittoria di Gemmina, era molto importante per lei che la sua amica vincesse. Le voleva bene. E adorava la sua torta al cioccolato.

Intanto i preparativi per la competizione fervevano, tutti si davano un gran da fare per sistemare la sala che avrebbe ospitato la giuria e il pubblico: si pulì, si riordinò, si ridipinsero perfino i muri di un bel colore rosa, e si comprarono alcuni scaffali nuovi e sedie colorate.

Tutto sembrava filare liscio ma, ahimè, anche nelle competizioni semplici come questa a volte possono verificarsi spiacevoli scorrettezze.

Lisa, compagna di banco di Marina, tifosa sfegatata della cuoca Annarosa e della sua torta all’ananas, aveva  spiato Gemmina durante le prove per sapere quale dolce aveva scelto e se c’era qualche informazione che potesse tornare utile  ad Annarosa.

Scoprì che Gemmina si sarebbe cimentata nella torta al cioccolato e che il cacao migliore, scelto per la prova, si poteva trovare solo in un certo negozio del centro. Lisa corse subito a comprare tutte le confezioni, sperperando in un pomeriggio la paghetta di un mese intero. Voleva essere certa che la rivale di Annarosa non trovasse quel cacao in tempo e fosse costretta ad usarne uno meno pregiato, col risultato di preparare una torta molto meno buona.

Quando Gemmina andò a comprare il cacao, infatti, non ne trovò neanche una scatola. E mancava solo un giorno alla competizione.

“Sono stata imprevidente,” si rimproverava la povera cuoca, “avrei dovuto pensarci prima. E ora? Come farò col cacao? Senza quel cacao la mia torta non sarà la stessa e addio vittoria!”

Pur sapendo che non sarebbe servito, fece il giro dei negozi per vedere se riusciva a trovarlo da qualche altra parte ma fu inutile. Disperata, riunì il suo fan club per chiedere consiglio.

“Ora è tardi per andare a cercare il tuo cacao in un’altra città. Domani c’è la gara, “disse Marina con la voce del pianto,” secondo me non c’è altro da fare: o cambi ricetta oppure fai la torta al cioccolato e dai il tuo meglio.  Speriamo che le altre siano molto meno brave di te”.

Il fan club non poté far altro che dirsi d’accordo con lei, anche Gemmina fu dell’avviso e concordò una torta al cioccolato fatta con tutto l’impegno possibile. 

Presa la decisione si ritirarono nelle loro case con animo pesante ma ugualmente pieno di speranza, se non altro per non portare sfortuna alla già sfortunata gara.

Pensiero positivo. E una notte insonne per tutti.

Il gran giorno era arrivato. Lisa gongolava sapendo che alla rivale mancava l’ingrediente che avrebbe fatto la differenza, non le importava sapere che se Annarosa avesse vinto la sua sarebbe stata una vittoria ottenuta in modo disonesto, lei voleva solo vincere. Ad ogni costo.

Le cuoche arrivarono puntuali, ognuna con la sua tifoseria. Gemmina era la più nervosa, quando la maestra Giulia fischiò l’inizio della gara alzò gli occhi al cielo come per cercare aiuto, poi si tirò su le maniche e prese ad impastare.

Le torte furono sfornate alle dodici in punto.

Un delizioso profumo si diffuse nella sala mensa dove la giuria, composta da quattro genitori e da sei maestre, attendeva in religioso silenzio di assaggiare tutte quelle meraviglie.

La prima ad essere giudicata fu quella di Maria. Torta al limone. Voto 7, all’unanimità.

Poi fu la volta di Giorgia con la torta allo yoghurt che incassò un bel 7 e mezzo, piazzandosi provvisoriamente al primo posto.

Una dopo l’altra, le preparazioni furono valutate. L’ultima ad essere assaggiata fu proprio quella di Gemmina. Annarosa aveva portato a casa un bel 9 e mezzo, bisognava prendere un dieci per superarla o almeno un altro 9 e mezzo per un pari merito che avrebbe richiesto lo spareggio.

I giurati si guardarono in volto prima di alzare le palette, come se fossero ancora incerti.

“Nove…”

Gemmina e Marisa si vedevano già sconfitte, una lacrima era pronta ad uscire dagli occhi neri della bambina.

“…e mezzo!” disse la maestra Vera voltando l’ultima paletta verso il pubblico.

Lisa ebbe un moto di rabbia, per un attimo aveva creduto che la sua cuoca preferita fosse la vincitrice, invece era ancora tutto da decidere.

Per Gemmina e Marina, invece, un pari merito era pur sempre di una sconfitta, tutto era ancora possibile.

Ora si doveva passare allo spareggio, la giuria all’unanimità decise di far cimentare le due concorrenti con un torta margherita, la più semplice  ma è proprio sulle cose semplici che si misurano i veri campioni.

Le finaliste si misero al lavoro, la tensione aumentava di minuto in minuto nella stanza, Marina era la più in ansia di tutti anche se sapeva che la sua Gemmina non l’avrebbe delusa e che quella prova avrebbe di sicuro messo in luce tutta la sua bravura.

Lisa, intanto, temendo il risultato, stava pensando a cosa fare per intralciare il lavoro di Gemmina e assicurare la vittoria ad Annarosa.

Non era facile, con tutta quella gente ad osservare, tuttavia le venne un’idea che per qualche momento distrasse l’attenzione dei presenti, giuria compresa.

Senza che nessuno si accorgesse, uscì dalla stanza e andò a cercare dei fiammiferi nella cucina della mensa, poi in giardino accese un fuocherello con un mucchietto di foglie secche e cominciò a gridare: ”Al fuoco, al fuoco!”

Tutti, secchi d’acqua alla mano, corsero fuori per spengere il fuoco.

Nel frattempo Lisa rientrò nella stanza della prova e mise una grossa manciata di pepe che aveva preso in cucina nella ciotola dove Gemmina doveva  rimestare i suoi ingredienti.

In capo a pochi minuti il fuoco era spento e tutti rientrarono, le concorrenti si rimisero all'opera, nessuno si era accorto di nulla.

Quando arrivò il momento di sfornare le torte gli occhi delle bambine sfavillavano come tante stelle lucenti, fremevano per avere il risultato. E una fetta di torta, finalmente.

La prima ad essere assaggiata fu quella di Annarosa.

Fu giudicata molto buona e si guadagnò un altro bel nove e mezzo.

Quando toccò a quella di Gemmina Lisa gongolava, si sentiva già la vittoria in tasca!

Dopo averla gustata, la giuria sembrava perplessa, Lisa ridacchiava di nascosto mentre Marina

 tremava: forse c’era qualcosa che non andava? La sua Gemmina aveva sbagliato, possibile?

Dopo un paio di minuti, che a Marina sembrarono eterni, le palette furono sollevate e…DIECI! Gemmina aveva vinto. Il pepe, strano a dirsi, aveva messo quel certo non so che nell’impasto che lo aveva reso particolare e sfizioso al palato.

Lisa, incredula, in un impeto di rabbia cominciò a strillare: “Non è possibile, con tutto il pepe che ci ho messo!”

Fu subito chiara la malefatta della bambina che, messa alle strette, confessò anche di aver comprato tutto il cacao speciale per impedire a Gemmina di vincere. Le maestre si dissero molto deluse da lei, la madre, poi, era ancora più infuriata e la riportò a casa minacciando niente tv né computer per una settimana.

Gemmina e Marina, intanto, pur dispiaciute nel vedere che una loro amica era stata così scorretta, festeggiavano felici la vittoria.

“Il pepe nell’impasto,” rise Gemmina abbracciando la sua piccola amica, “chi l’avrebbe mai detto? Forse dovrei ringraziare Lisa, non volendo mi ha insegnato un nuovo trucco per migliorare la mia torta margherita. O d’ora in poi dovrei chiamarla torta al pepe?”

La scorrettezza di Lisa non le ha portato la vittoria sperata, ma, mi raccomando, non provate ad accendere fuochi in giardino né a mettere il pepe nella torta della mamma: certe cose funzionano solo nelle fiabe.

Buone torte a tutti.

 

 

 

 

 

 

 


giovedì 7 gennaio 2021

La nuvola

 Saranno i tempi non proprio allegri, sarà quest'atmosfera di pericolo imminente e sospeso, non so ma mi è proprio scappata una fiaba un po'...apocalittica. Mi scuso con gli appassionati del lietissimo fine perfetto: quello che vi propongo non è un finale perfetto ma è comunque lieto quanto basta perché nessuno muore. 

A volte ci si abitua anche a situazioni pericolose, non ci si fa più caso, non ci si interroga ed è proprio allora che rischiamo il peggio.

Buona lettura e...occhi sempre aperti, mi raccomando!




La nuvola

 Barbara Cerrone

 

 

Fuori c’era tutto il silenzio dell’inverno, dei rami scheletriti, delle strade lastricate di umidità.

Perfino il calpestio dei rari passanti sembrava attutito dal freddo, come se gli formasse attorno una coltre pesante, impenetrabile al suono.

Scivolando per le strade quasi deserte figurine umane infagottate e tremanti sembravano tante apparizioni, fantasmi infreddoliti che attraversavano la città veloci come topi, col naso umido e le mani profondamente ficcate nelle tasche.

Nessuno di loro aveva voglia di fermarsi: andavano. Verso casa o verso i pochi, modesti negozi illuminati. E caldi.

Si aspettava la neve da un momento all’altro, lieve e bianca come una mano gelida sul cuore. Tardava. Nessuno capiva il perché, di solito era puntuale in quel periodo, fredda e puntuale, cadeva ritmica con la sua danza aerea da ballerina consumata.

“Che dici, Geppo, arriverà prima di sera?”

Il macellaio puntava il dito grassoccio verso il cielo, quasi volesse bucarlo.

“Non credo. Stanotte, forse. Ci sveglieremo tutti bianchi”.

Geppo era stato marinaio, e con quel curriculum lo si riteneva un esperto di meteorologia. In più, aveva un certo doloretto che si risvegliava sempre ad ogni cambiamento di tempo, una vecchia frattura che si faceva ricordare quando stava per piovere. O per nevicare.

“Se proprio dovete fare le previsioni del tempo mettetevi da una parte, il marciapiede non è di vostra proprietà”.

Alduccia. Brava donna ma così pedante, così capace di puntualizzare per ogni sciocchezza che si era guadagnata il soprannome di cercapulci perché faceva le pulci a tutti. Non avendo la minima tolleranza per i propri difetti o i propri errori non voleva riconoscerli e si accaniva su quelli altrui.

“Scusa tanto, Alda. Stavamo solo chiacchierando un po’, si fa sera…sennò ci prende la noia. Guarda, ci facciamo subito da parte”.

Il macellaio strizzò l’occhio a Geppo che già guardava da un’altra parte: non aveva alcun interesse per certe polemicucce da strada, ben altro ci sarebbe voluto a stuzzicare la sua attenzione sopita da tempo, da quando la guerra dei fiumi lo aveva portato in quel villaggio anonimo, facile preda di un amore giovanile.

Gisella era sua moglie da quando aveva varcato il confine del villaggio, aveva capito che lo sarebbe stata ancora prima di sposarla. Era scritto nel suo viso pallido e incerto, nei suoi occhi smarriti, che era la sua sposa.

La guerra era finita e lui era rimasto, Gisella era tutt’uno con quel piccolo paese, non si poteva avere l’una senza l’altro, così restò e da marinaio si trasformò in contadino. Ma le zolle non erano onde, e l’orizzonte lo tagliavano montagne aspre che spezzavano il cielo.

A volte, per il gran sognare il mare, era così assorbito nelle sue fantasie che non si accorgeva di cosa gli succedeva intorno. Proprio come quella sera.

“Geppo, Geppo…cos’hai in testa?”

Il macellaio era un uomo solido, senza fantasie, non si perdeva nei vicoli della mente. Quel che ci voleva per uno come Geppo.  Per questo furono subito amici.

“Nevicherà stanotte” fu tutto quello che il marinaio Geppo riuscì a dire prima di andarsene a casa, con le vele ripiegate e l’animo in tempesta, come ogni volta che aspettava la neve.

“Ma che dici, quello? Quale neve? Non lo vedi quel nuvolone, laggiù? Nero come la pece. Pioverà”.

Marisa. Altro vate della meteorologia, sempre in contrasto con Geppo, col quale si contendeva il titolo e la responsabilità di azzeccare le previsioni del giorno.

Il Macellaio e  Alduccia fecero un gestaccio con la mano e si ritirarono, convinti che neve o pioggia comunque il tempo sarebbe peggiorato e stare in strada a far salotto fosse roba da stupidi.

Se ne andò anche Marisa, brontolando che la pioggia sarebbe arrivata presto a dimostrare che lei, e solo lei, ne capiva di previsioni anche se non era mai stata in marina.

La strada tornò deserta, avvolta in un’ovattata attesa.

La nuvola intanto cresceva come una minaccia, gonfia e scura, quasi appoggiata sulla montagna dietro il villaggio.

“Tra poco vedrai che temporale!”

Si era affacciato alla finestra con l’intenzione di far comizio, come diceva la madre. Alberto non sapeva parlare a voce bassa.

“Macché, vedrai che passa via, quella nuvola. Mica sarai come la Marisa?”

Il macellaio ne aveva approfittato per affacciarsi ancora sulla strada, dato che non aveva clienti almeno due chiacchiere le poteva pur fare. Niente di meglio che discutere sul tempo, visto che di politica non se ne intendeva e non gli piaceva anche perché, hai visto mai? Si poteva inimicare qualcuno, già che gli affari andavano maluccio…no. Troppo pericoloso. Meglio il tempo. Benché c’era da litigare anche su quello, ma  con meno foga: non ci si comprometteva, via!

“Eh, eh, pioverà. Tu mica ne capisci di tempo, caro mio. Solo di bistecche.”

Gli occhi già così sporgenti quasi gli schizzarono fuori dalle orbite, Alberto se li sentì sfuggire come se fossero stati mine lanciate conto il nemico.

“E tu apri bocca per darle fiato. Non pioverà”.

Alberto scosse il capo come per dire “Lo sai tu, che non ne capisci niente, se piove o no?” e si ritirò, mentre la madre gridava di sbrigarsi perchè si freddava la minestra.

Era la canonica ora di cena, del tempo ci si poteva occupare più tardi.

La gente aveva la mente occupata solo dai piatti fumanti. Tuttavia un pensierino su quel nuvolone appeso nel cielo restava: non ci sarebbe mica stato un nubifragio?

Ci si ripromise di affacciarsi più tardi per tener d’occhio la situazione, perché non si sa mai.

“Il tempo a volte fa brutti scherzi” si diceva pensando all’improvviso a quell’alluvione che nessuno di loro aveva vissuto ma che si raccontava da generazioni, come fosse il diluvio di Noè e loro i diretti discendenti.

Più tardi dai vicoli attorno qualche faccia incuriosita fece capolino.

La nuvola ora era un’enorme macchia nera che occupava il cielo quasi per intero.

“Non si è mai vista una nuvola così. Non sarà fumo?”

La faccia giallastra di Nico si ritirò subito, dopo aver ficcato questa pulce nell’orecchio dei compaesani.

La voce si diffuse in un attimo. Fumo. Sprigionato da chissà dove, comunque fumo. Magari un incendio. Un

 incendio? Oddio!  E dove? Se si propaga…

Uomini corsero in direzione della montagna, cercando di capire se laggiù,  dove il loro sguardo non arrivava, c’era qualcosa che stava bruciando.

“Macché. Non c’è niente che brucia”.

 Niente che bruciasse in quella sera fredda. Solo una nuvola che si era mangiata il cielo.

Il servizio meteo non funzionava. C’era una specie di guasto.

“Tipico” brontolò Marisa.

“Tipico di che?” chiese il macellaio apparso sulla soglia di casa ancora con il tovagliolo fra le mani.

“Tipico di quando c’è un disastro” ribadì Marisa.

“Ma non era un temporale?” la canzonò il macellaio.

L’alzata di spalle confermò la sensazione di incertezza dei pronostici. Nessuno era sicuro di nulla.

All’unanimità si prese la decisione di tenere d’occhio la nuvola, monitorarla per vedere se cresceva ancora e di quanto. E poi? Poi nessuno sapeva dire cosa avrebbero fatto nel caso di…nel caso di cosa? In qualunque caso.

Organizzarono turni di sorveglianza.

Il macellaio non voleva fare quello dalle tre alle cinque. Diceva che per lui erano “le ore d’oro del sonno”.

Litigarono. Perché Geppo invece non voleva fare il turno da mezzanotte alle due e Marisa non avrebbe mai cambiato il suo, dalle dieci a mezzanotte, con quello del macellaio.

Ci volle un po’, ma alla fine riuscirono a trovare un accordo.

Intanto la nuvola cresceva, a tratti sembrava quasi che assumesse sembianze umane: una specie di broncio le si disegnò su quella che sembrava quasi una faccia. Gli occhi torvi che subito mutarono, caricandosi di un’ironia cattiva, quasi volesse prendere in giro tutta quella gente mobilitata per lei, per la nuvola che aveva ingoiato il cielo. Tutto intero.

I timori di quella gente allarmata furono presto fugati da una notte che trascorse serena. Il cielo era un enorme nube scura, tuttavia nemmeno una goccia di pioggia bagnò le strade.  Una tranquillità che aveva il sapore dell’attesa.

“Buongiorno, siamo ancora tutti qui? Nessun diluvio universale?”

Il macellaio era in vena di scherzare. Alduccia passando gli lanciò un’occhiata feroce.

“Il solito scemo” bisbigliò puntando gli occhi chiari verso l’alto.

I turni proseguirono ancora per tre notti, poi si disse che forse ci si era spaventati inutilmente, che la vita doveva proseguire il suo corso normale, non ci si poteva fermare per qualcosa che non era ancora avvenuto e forse non sarebbe mai successo.

La gente cominciò a muoversi come ogni giorno, brulicanti formichine passarono frettolose lungo le vie del paese, lamentandosi per il buio che la nuvola coprendo tutto il cielo aveva provocato.

Sembrava far parte già del quotidiano quel clima opprimente, come se fosse sempre stato così e non si dovesse temere nulla di più di quella tenebra fuori orario.

Venne sera, e non una sola goccia di pioggia aveva ancora bagnato la terra.

Giorni e giorni passarono, con quel cielo annerito e strano. La nuvola sembrava guardarli dall’alto, come una nera signora piena di sussiego. Nessuno le faceva più caso, ormai.

Solo Geppo, di tanto in tanto, alzava lo sguardo al cielo e poi scuoteva la testa, pensoso.

Una donna, venuta a trovare dei parenti, una mattina si mise a parlare con il macellaio. Chiedeva come mai in quella piccola città non si vedeva mai il sole e se era sempre stato così.

Il macellaio rispondeva e non rispondeva, qualche passante, udendo per caso le sue parole diceva che era vero, ultimamente il sole era scomparso ma non c’era nulla da temere. Bizzarrie del tempo, roba passeggera. La donna però non sembrava molto convinta, pochi giorni dopo andò via dicendo che non sarebbe più tornata e che avrebbe raccontato in giro come in una certa cittadina ridente solo sulle cartoline si vivesse in un’eterna notte.

Trascorsero molti altri giorni. Settimane. Mesi. Un anno intero.

Nessun temporale o alluvione o altra catastrofe aveva devastato la città, ma il cielo era rimasto chiuso nella sua oscurità impenetrabile.

La gente sembrava assuefatta. Fra loro c’era chi non ricordava già più com’era la vita quando i raggi del sole inondavano finestre e cortili.

Qualcuno addirittura trovava più bella l’atmosfera, quel buio costante e innaturale…altri invece dicevano che era meglio così, perché non si aveva voglia di perder tempo in passeggiate al parco e ci si concentrava solo sul lavoro. Si apprezzava anche il fatto che, da quando c’era la nuvola, pareva non esservi più bisogno della pioggia per irrigare la terra perché un’umidità sottile e diffusa forniva tutta l’acqua necessaria a mantenere in vita esseri umani, piante e animali.

Il paese diventò famoso per il suo cielo che non vedeva mai la luce, curiosi e turisti si alternarono per vedere quello che veniva considerato da tutti un fenomeno naturale inspiegabile, e per questo ancora più affascinante.

Fra falsi allarmi e pronte smentite dieci lunghi anni scivolarono via veloci senza che la nube scomparisse.

Non si temeva più, anche per questo fu tutto così inaspettato. E sconvolgente.

Cominciò con qualche gocciolone. Alcune teste, sentendo cadere la pioggia, si sollevarono dai cuscini simili a serpenti allarmati.

All’alba di una mattina di aprile, un oceano di acqua si rovesciò sul paese mentre era ancora immerso nel sonno.

Ben presto le strade furono fiumi fangosi sui quali galleggiavano oggetti e arredi rubati alle case allagate dalla furia dell’acqua. Molti fra gli abitanti si riversarono in strada in pigiama, calzando un paio di scarponi infilati alla meglio sopra i piedi ancora caldi di letto.

In poco tempo al fiume d’acqua si unì quello di una folla disorientata e terrorizzata che sciamava qua e là, senza sapere dove andare.

Si cercò di inviare un SOS, ma né radio né telefoni funzionavano più: I. era un villaggio isolato.

Il macellaio, la moglie per mano, fuggì verso la montagna. Altri scelsero le colline intorno, ci fu anche chi, in preda al panico, corse alla cieca verso la valle sotto la città nella stessa direzione del mare d’acqua.

Uno squarcio si aprì all’improvviso nel cielo, lasciando intravedere un raggio di sole, mentre la pioggia non cessava di cadere, violenta, sulle case e sugli uomini. Il cielo si liberava del suo cupo ingombro, sembrava tornare a respirare dopo tanto tempo.  

Sotto di lui, I. era già interamente sepolto dall’acqua che correva rabbiosa a raggiungere il fiume per gettarsi nel mare.

Il bancone del macellaio, ridotto in pezzi dalla violenza dei flutti, galleggiava sulla superficie del fiume quasi fosse il relitto di un naufragio.

Quel giorno cancellò per sempre il villaggio dalle carte geografiche. Nessuno, nei secoli a venire, si ricordò più della sua esistenza.

Gli abitanti, per fortuna o abilità, si salvarono e si dispersero, sciamando come api impazzite in tutte le direzioni.

 Non si rividero mai più.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


mercoledì 6 gennaio 2021

Le feste sono finite...

 I giorni passano, passano ...corrono come se dovessero prendere l'autobus, e invece vanno a morire nel passato. 

Le feste sono finite, un po' appannate da divieti e limitazioni ma soprattutto dalla malattia che ancora incombe su di noi come una minaccia. E' pur vero che ci sono  altre  malattie gravi e insidiose che possono minare la nostra salute e addirittura costarci la vita,  ma il Covid ha un aspetto quasi mefistofelico che gli è dato dalla contagiosità e dal fatto che limita la nostra socialità. Ciò lo rende un pericolo anche per la psiche.

E per l'anima.

Che il tempo fugga pure, allora, e si porti via presto questa peste silenziosa. 

Un augurio di buona ripresa del lavoro a chi, come me, in questi giorni si è goduto la pace di un po' di riposo. 

 A chi ha sempre lavorato, invece, un grazie di cuore per aver tutto quello che hanno fatto, spero possano presto prendersi una pausa anche loro.

Buon lavoro, dunque.