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sabato 19 settembre 2020

Il gatto che miagolava ai cavalli


 Eh sì, di condottieri la storia ne ha visti tanti ma di uno così non parlano i libri di scuola.

Buona lettura



Il gatto che miagolava ai cavalli

 Barbara Cerrone

 

 

Callisto viveva con i cavalli da quando era nato.  Un bel gatto dal pelo lungo e lucido che passava le sue giornate accoccolato sull'erba fresca del prato sotto lo sguardo vigile di Vento, il puledro che aveva scelto come amico del cuore.

Il maneggio era tutto il suo orizzonte, non conosceva altro posto e non gli importava di vederne un altro: lì c’erano i cavalli, c’era Sergio che li curava e tanti bambini che venivano a  lezione di equitazione riempiendolo ogni volta di coccole e deliziosi bocconcini.

Non gli mancava nulla per essere felice, e infatti lo era. Moltissimo.

Tanto felice che quando successe quel brutto fatto non riusciva a crederci.

“Sfrattati,” piagnucolò Sergio,” e ora? Che faccio, ora? Dove li porto i miei cavalli?”

Il fatto è che il terreno dove si trovava il maneggio non era suo ma del cavalier Garanti, un uomo molto indaffarato che non si faceva vedere quasi mai nella sua proprietà, tranne quando c’era qualche problema.

“Il terreno è stato venduto all'asta,” disse una mattina piombando all'improvviso come un temporale,” mi dispiace, non avete scelta, dovete andarvene.”

Sergio credeva di aver capito male, ma quello insisteva:” Dovete andarvene, mi dispiace, presto arriveranno le ruspe: il nuovo proprietario vuole costruire un supermercato proprio qui.”

“Poteva avvisarmi prima, invece di mettermi davanti al fatto compiuto” provò a lamentarsi Sergio, ma quello gli oppose una faccia da schiaffi, un frettoloso Me ne è mancato il coraggio detto a fil di voce e se ne andò, senza nemmeno salutare.

“Sono rovinato, “dove lo trovo ora un altro terreno adatto? Garanti è sempre sulle nuvole, pensa solo ai suoi affari ma non è esoso, l’affitto è ragionevole, nessuno mi farà un prezzo simile e io non posso pagare di più. Questi poveri animali che fine faranno? Dovrò venderli”.

Sergio aveva le lacrime agli occhi, Callisto cercò di consolarlo come poteva, si strofinò alle sue gambe, fece mille fusa ma niente, non funzionava. Il suo amico era disperato.

Un gatto in gamba come Callisto ha mille risorse, tuttavia risolvere un problema come quello non era cosa da poco. Se un umano non sapeva che pesci prendere che cosa avrebbe potuto fare un micio? In un mondo di uomini avidi e distratti, un gatto non aveva alcuna chance.

In un mondo di uomini.

“I cavalli mi aiuteranno” pensò il gatto lavandosi la zampina dopo la pappa.

Vento stava dormendo quando Callisto gli si avvicinò.

“Ehi, ragazzo, sveglia!” disse il micio aggrappandosi alle sue zampe.

“Che succede? Stavo riposando. Piano con quelle unghie, mica ho le zampe di legno.”

“Lascia stare le zampe e ascolta. Siamo nei guai. Hai sentito cosa ha detto Garanti? Ci sfrattano tutti. Si va via dal maneggio. E chissà, magari qualcuno di voi finisce pure al mattatoio.”

“Che dici? Non ci credo!”

“Purtroppo è vero. Sergio è distrutto. Non ha soldi per pagare un affitto alto, se andiamo via da qui sarà costretto a lasciare l’attività e noi perderemo la nostra casa. Quanto a voi cavalli, sarà costretto a vendervi.”

“Ma sei sicuro, gatto?” chiese Vento soffiando forte dal naso.

“Sicuro come sono sicuro che esisti. Dobbiamo fare qualcosa.”

“Tipo?”

“Tipo ribellarci, ecco. Una rivolta di cavalli e…un gatto” concluse fieramente Callisto.

“Io dico che sei matto,” fece il puledro scuotendo la criniera,” comunque dimmi, sono curioso di sapere come dovremmo farla, questa rivolta.”

“I dettagli del piano non sono ancora perfezionati,” rispose Callisto,” ma lo saranno presto. Tu tieniti pronto e avvisa gli altri. Che si preparino anche loro, la lotta sarà senza quartiere”.

Detto ciò, Callisto si allontanò con l’aria di chi ha mille pensieri nella testa.

Si spremeva le meningi per mettere a punto la strategia d’attacco con meticolosa attenzione perché non potevano fallire o sarebbe stata la fine.

Risolse di fare un pisolino per riflettere meglio, si accoccolò sotto il pergolato e cominciò a sognare così forte che a momenti si svegliava per il rumore che facevano i suoi sogni.

Al risveglio aveva già chiaro in mente il da farsi. Chiamò a raccolta Vento e gli altri cavalli per una riunione operativa e cominciò a illustrare il piano, miagolando così:

“Miei cari amici, Vento vi avrà già detto che il momento è grave, bisogna agire. L’unica possibilità che abbiamo per salvare noi stessi e il nostro amico Sergio è impedire agli uomini che verranno per costruire il supermercato di entrare. Insieme possiamo farcela.”

“D’accordo, “fece un cavallo anziano che aveva nome Girolamo, “nessuno più di me ha interesse a mandar via quella gente, come anziano rischio un futuro da bistecca nel piatto di qualcuno! Il fatto è che Sergio non aspetterà che arrivino quegli uomini, ci venderà prima. Ci avevi pensato?”

“Certo che ci avevo già pensato. Sergio si sta già interessando per la vendita, ma noi sapremo respingere chiunque venga qui con l’intenzione di comprarvi, perché verranno a vedervi, a valutare e noi li spaventeremo a morte. Io guiderò l’attacco: al mio miao comincerete a nitrire tutti insieme e alzerete le zampe anteriori, in segno di minaccia. Li faremo fuggire tutti, vedrete. E lo stesso si farà quando si presenteranno per fare i lavori e mandarci via” concluse Callisto gonfiandosi tutto per la soddisfazione.

Il suo gli sembrava davvero un bellissimo piano.

Messi a punto gli ultimi dettagli il consiglio equino-felino si sciolse, Callisto tornò a dormire sotto lo sguardo vigile di Vento e gli altri cavalli si rimisero a mangiucchiare, tanto per tenere le mascelle in esercizio.

Il giorno tanto temuto arrivò prima del previsto.  A dire il vero Callisto aveva percepito una certa tensione nella voce del suo amico umano che gli fece intuire l’approssimarsi di quel triste appuntamento.

Sergio non era affatto felice di vendere, è che si era trovato con le spalle al muro, senza sapere dove sbattere la testa.

“Callisto, tra non molto ci dovremo trasferire,” disse Sergio, “noi due soli, però, i cavalli …oh, lasciamo stare!”

Quello stesso giorno arrivarono i primi potenziali acquirenti.

Uno era alto e magro, con i capelli a spazzola, l’altro piuttosto grassoccio e basso di statura. Insieme formavano una buffa coppia, ma Callisto non si mise certo a ridere.

Fece un Miao d’intesa rivolto ai cavalli che voleva dire: ”Tenetevi pronti!” e aspettò il momento giusto.

Quando la bizzarra coppia, accompagnata da un tristissimo Sergio, si mise a gironzolare nel maneggio guardando i cavalli come merce in esposizione, il micio diede finalmente il segnale.

“Miaooo!” gridò e subito i suoi compagni equini si drizzarono sulle zampe posteriori cominciando a nitrire furiosamente. Ogni volta che quei due si avvicinavano ecco che uno dei cavalli faceva la mossa di tirargli un calcio.

Sergio non riusciva a trattenerli.

“Ma non aveva detto che erano mansueti?” chiese il tipo grassoccio scappando verso la casa di Sergio.

“Non capisco, di solito sono dolcissimi. Nel maneggio vengono i bambini a far lezione di equitazione, non hanno mai dato problemi.”

“Ora ne danno, invece,” brontolò il magro scappando anche lui,” quindi temo proprio che l’affare non si farà, signor mio. Lei non è stato onesto con noi, voleva affibbiarci dei cavalli aggressivi“.

Povero Sergio! Ebbe un bel da fare a spiegare, giustificarsi: nulla. I due se ne andarono furiosi e la vendita sfumò.

Molti altri ne vennero e a tutti Callisto e i suoi riservarono lo stesso trattamento.

“Cavalli miei, ma che vi è preso?” Chiese un giorno Sergio.” Ora siamo in una situazione ancora più brutta. Verranno i nuovi proprietari e ci troveranno ancora qui. Che faremo? Io non lo so, davvero.  Se vi avessi venduti, almeno avreste trovato nuovi padroni e nuovi posti dove vivere ma ora…posso solo provare a cercare qualcuno che sia disposto a tenervi almeno per un po’, un altro maneggio, magari. Ma ci vogliono soldi e io sono al verde”.

Callisto lo ascoltava, dispiaciuto, non poteva dirgli che doveva stare tranquillo, erano preparati al secondo assalto e tutto sarebbe andato bene.

I cavalli invece erano tesi, temevano i signori che si sarebbero presentati con le ruspe per spianare il terreno.

“Quelli chiameranno la forza pubblica, “diceva Alonso, un bel purosangue dal carattere impulsivo,” non si lasceranno intimidire da qualche nitrito”.

Callisto non replicò, aveva fiducia nel suo piano, e poi che altro avrebbero potuto fare?

Gli uomini delle ruspe arrivarono un lunedì, di buon’ora.

Callisto diede il segnale appena li vide in lontananza. Il povero Sergio si fece loro incontro per fermarli, per dire che non era riuscito a vendere i suoi cavalli e chiedere un altro po’ di tempo per trovare un nuovo posto dove farli vivere.

La trattativa si prolungò per una buona mezz'ora, Callisto fremeva per dare l’ordine ma prima voleva vedere se Sergio riusciva a convincerli.

Ad un certo punto arrivò anche un grassone, con una pancia che sembrava dovesse scoppiare ad ogni passo.

Si mise anche lui a discutere con Sergio, sembravano agitati tutti e tre, finché le ruspe si mossero verso il maneggio e Callisto capì che era andata male.

Sergio stava chiamando un suo amico perché venisse a prendere in custodia i cavalli almeno il tempo necessario per tamponare quell'emergenza, quando Callisto, con la veemenza di un vero capo, lanciò il Miao di attacco.

Scoppiò il solito finimondo, solo che questa volta i cavalli si erano slegati e si slanciarono come furie contro gli operai e il grassone che, terrorizzati, fuggirono a gambe levate.

“Torneranno con gli agenti, “sentenziò Alonso,” dobbiamo essere pronti al peggio. Ci spareranno siringhe piene di sonnifero e ciao.”

“Resisteremo, “insisté Callisto, “dobbiamo farcela. C’è troppo in gioco”.

“Come vuoi resistere al sonnifero? Io non bevo caffè!” nitrì Guendalina, una puledrina piuttosto vivace.

“Con la forza di chi non ha scelta” rispose Callisto, ma sapeva che la speranza era davvero poca.

Come previsto, il giorno seguente i nuovi proprietari non si presentarono da soli.

Callisto fece appena in tempo a dare l’allarme.  I cavalli erano nervosi, temevano di essere narcotizzati e mordevano le briglie. Il gatto, tenace e coraggioso, li apostrofò così:

“Ragazzi, è qui tutto il vostro coraggio? Siete cavalli o ronzini? Io vi dico che dovete tenere duro, dovete resistere. Nessuno si prenderà il nostro maneggio, a costo di finire tutti in gattabuia. Forsa, su le zampe e mi raccomando: se vedete volare una siringa schivatela. Siete agili e forti, potete farcela”.

I cavalli si guardarono perplessi, schivare una siringa carica di sonnifero? Come pensava che potessero riuscirci? Tuttavia non era proprio il caso di tentare la fuga, ne andava del loro orgoglio equino, e poi non era possibile, tutte le vie erano bloccate. Bisognava affrontare il pericolo a muso aperto.

Al solito Miaooo di attacco le zampe si alzarono minacciose, roteando nell'aria come mulinelli. Gli uomini con le siringhe cominciarono a sparare i loro missili puntuti, ma incredibilmente nemmeno una di quelle armi soporifere riuscì a colpire l’obiettivo.

“Accidenti, come fanno ad evitarle? Una cosa del genere non mi era mai successa!” gridò uno di quei tipi, allibito.

“Qui c’è di mezzo una stregoneria, o che so io. Sono stregati, ecco” disse il suo compare preparandosi alla fuga.

“Ma che dici? Piantala con queste sciocchezze! Li avrà addestrati il padrone. Vieni, andiamocene. Bisogna farsi venire un’altra idea, e sarà meglio che funzioni o non ci pagheranno.”

“E io ti dico che è roba di magia” insisteva l’altro.

“Si tratta di addestramento, e ora basta, andiamo via”.

“E quel gatto? Hai visto che roba? Un vero condottiero!”

“Che condottiero e condottiero, è un gatto. Miagolava, ecco tutto. Lo fanno, sai, i gatti. Miagolano.”

“Dava l’attacco, ecco cosa faceva. Era un miao di attacco. Si sentiva, solo tu non te ne sei accorto. E mi vieni a dire che non c’è di mezzo la stregoneria? Sennò come ci diventa condottiero un gatto?”

“Se dici un’altra di queste scemenze ti porto in ospedale, reparto psichiatria. Basta, andiamo via. Dobbiamo studiare un nuovo piano. Gatto condottiero, figurati!”

Continuarono a litigare così fino a casa, mentre in maneggio si festeggiava la vittoria.

Sergio era il più sconvolto e incredulo di tutti loro, non si capacitava del coraggio, della destrezza e dell’astuzia che i suoi cavalli avevano dimostrato in quella occasione. Era semplicemente stupefatto.

“Forse mi avete messo nei guai più di quanto non lo fossi già, ma vi voglio bene. Siete stati incredibili” disse accarezzandoli uno ad uno. Poi si rivolse a Callisto.

“Amico mio, tu mi hai stupito più di tutti. Non ti avrei mai creduto capace di guidare un esercito di cavalli. Dal profondo del cuore grazie, non lo dimenticherò. Ma, amici, quella gente tornerà. Questa terra gli appartiene, adesso, hanno il diritto di prendersela”.

Per un attimo la gioia per la vittoria si spense negli occhi liquidi dei cavalli, ma non in quelli obliqui di Callisto.

“Ho un’idea,” sussurrò a Vento, “forse c’è un modo.”

“Quale?” nitrì Vento.

“Vedrai. Domani ci penso io”.

La mattina dopo Callisto si mise in cammino diretto in città. L’aria era fresca e dolce, sembrava proprio una bella giornata.

Il micio  entrò nella sede del giornale “Freschenotizie” che erano circa le dieci.

“C’è il capo?” miagolò entrando.

“Toh, guarda che bel micio, vieni, fatti accarezzare” disse uno dei redattori che non aveva capito un bel nulla di ciò che aveva miagolato Callisto.

“Ehi, non sono qui per le coccole!” protestò il gatto alzando una zampa mentre il tipo gli faceva un grattino sulla testa.

“Micio, sei poco socievole,” fece il redattore,” chissà come mai sei entrato. Vuoi mangiare? Ecco, questa è la mia colazione, posso dartene un pezzetto”.

Prese un cartoccio dal cassetto della scrivania e ne trasse un panino col salame, ne staccò un bel pezzo che porse a Callisto.

“Miao, accidenti, non voglio il tuo panino! Come faccio a farti capire? Forse ho un’idea”.

Callisto cominciò a miagolare così forte che tutti i giornalisti presenti di tapparono le orecchie, poi si avvicinò a quello che gli aveva offerto il panino e gli afferrò una manica con la bocca, facendo come se lo volesse trascinare via.

“Certo che questo gatto è proprio strano, “disse quello, “sembra  che voglia portarmi da qualche parte. Ragazzi, sapete che vi dico? Io lo seguo, non si sa mai. Ci vediamo tra poco”.

L’uomo, sempre più incuriosito, vedendo che il felino si stava dirigendo in una direzione precisa, seguì docilmente Callisto.

Quando giunsero al maneggio Sergio stava cercando disperatamente il suo gatto,  vedendolo arrivare in compagnia pensò che si fosse perso e l’uomo che era con lui lo avesse riportato a casa.

“Oh, grazie!” Esclamò andandogli incontro.” Chissà come ha fatto questo birbone a perdersi? Conosce  benissimo la zona, Comunque sia tutto è finito bene. Per merito suo, signor…”

“Omero Annusi, reporter. Il suo gatto non si è perso, direi  piuttosto che è venuto a cercarmi.”

“Reporter? A cercarla? Forse ho capito. Questo non è un gatto, è un fenomeno!” disse Sergio, e si mise a raccontare tutta la storia dello sfratto al giornalista.

“Capito?” fece alla fine.” Credo che il mio gatto sia venuto da lei per questo. Non è straordinario?”

Il giornalista annuì, aveva preso nota di tutto. Telefonò ad un suo collega perché portasse la macchina fotografica, “Qui c’è un servizio da fare, roba da prima pagina” gli disse.

 Scattarono foto in ogni angolo, a tutti i cavalli. Ma il più fotografato fu lui, Callisto, che non stava più nella pelo per l'orgoglio.

Il giorno dopo usciva un articolo bomba su “Freschenotizie”.

Prima pagina.

In città non si parlò d’altro per giorni e giorni, l’eco di questi fatti giunse fino alle orecchie del sindaco.

I nuovi proprietari, intanto, imbarazzati da una pubblicità non richiesta, e bersagliati da telefonate di adulti e bambini che chiedevano di lasciare il maneggio ai cavalli, furono ben felici di accettare quando il sindaco in persona li chiamò per dire che quel terreno voleva comprarlo il comune perché il maneggio potesse continuare la sua attività.

Un mese dopo tutte le ansie di Sergio e dei suoi cavalli erano solo un brutto ricordo.

Callisto e i suoi amici continuarono la loro vita tranquilla nel maneggio che dopo l’articolo del giornale fu quasi preso d’assalto: tutti volevano conoscere i famosi cavalli che schivavano anche le siringhe col sonnifero, ma soprattutto desideravano vedere lui, Callisto.

I social si scatenarono, ben presto il gatto condottiero diventò famoso in tutto il mondo. Le sue foto fecero il giro del globo terrestre in un colpo di mouse.

Ancora oggi è una celebrità, anzi, se capitate da quelle parti e volete andare a trovarlo non avete che da chiedere del gatto che miagolava ai cavalli.

Chiunque vi saprà dire dove sta.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 


venerdì 11 settembre 2020

11 settembre

11 settembre. Quasi non c'è bisogno di aggiungere altro, tanto questa data è dolorosamente evocativa.

Gli occhi conservano ancora le immagini scioccanti del crollo e di quelle persone che cadevano nel vuoto, alla ricerca non tanto della salvezza, ma di una morte meno crudele.

Un pensiero alle vittime e alle loro famiglie, oggi come ieri nel dolore che si rinnova.



lunedì 7 settembre 2020

L'albero infinito

 Chi non accetta la propria natura  prima o poi  deve farci i conti.

Anche per gli alberi è così, leggere per credere.



L'albero infinito

Barbara Cerrone



Credetemi, la storia è vera.

Successe tanti anni fa, nel paese che non vi posso dire perché è un segreto, di quelli che bisogna giurare di non tradire.  Comunque sia era un gran bel paesino, e gli abitanti ci vivevano bene, così bene che nessuno se ne andava mai.

Tutti erano felici, perfino i più tristi, sotto sotto, lo erano.

In tanta felicità non si poteva che essere ottimisti e vedere il futuro rosa,  più rosa delle albe rosa che inondavano il cielo ogni mattina. Rosa anche quello.

Nessuno poteva pensare al peggio, né prepararsi a eventuali guai. Non ce n’erano mai stati, da quelle parti.

Perciò, quando le radici del grande albero che troneggiava  nella piazza principale cominciarono a sporgere dal terreno nessuno si preoccupò. Anzi.

“Com'è rigoglioso, il nostro albero,” dicevano i più, “com'è forte e pieno di vita”, e proseguivano senza soffermarsi né a guardare né a pensare.

Nella più assoluta tranquillità arrivò anche la primavera. Piena di promesse, di fiori, colori e…radici. Le radici di quell'albero. Crescevano a dismisura ed erano l’orgoglio del villaggio intero.

Erano tanto lunghe e robuste che erano arrivate fino in fondo al villaggio, sì, proprio dove c’era il cartello con su scritto: ”Qui finisce il paese di…Arrivederci e grazie”. Non solo, ma oltre a sporgere tanto che in alcuni punti la strada non si vedeva più, avevano divelto arbusti, muretti, perfino una capanna di proprietà di un giardiniere che teneva lì gli attrezzi da lavoro. Alla loro forza niente poteva resistere. E gli abitanti del paesino? Macché! Soddisfatti e felici come non mai.

A dire il vero, quando anche la chioma  cominciò a superare in altezza il campanile della chiesa, ci fu qualcuno che si chiese se fosse normale una crescita così, se non potesse esserci pericolo per il paese e per i suoi abitanti. Ma fu questione di pochi attimi: l’ottimismo incallito tipico di quei luoghi lo convinse presto che il pericolo non c’era, che l'albero era bello e che vederlo alzarsi verso il cielo fino a quel punto era una cosa meravigliosa, quasi un miracolo.

Passarono altri due mesi. Venne l’estate. L'albero aveva chiome così lunghe che si erano dovute piegare per continuare a crescere, e ora si estendevano lungo la strada, quasi inseguendo le radici che ormai si trovavano alle porte del villaggio vicino.

Gli abitanti di quel villaggio, però, non erano per niente contenti di quella che per loro somigliava tanto a un’invasione, difatti ci fu chi pensò che tutta quella crescita anormale fosse voluta, provocata chissà come dai furbi abitanti di….per invadere la loro terra, appunto.

Questo provocò un malcontento che a sua volta provocò delle proteste che a loro volta provocarono una riunione che a sua volta provocò una richiesta di udienza al re in persona che a sua volta provocò una dichiarazione di guerra da parte del sovrano, cosa frequente a quei tempi. I re, tanto per far vedere che facevano qualcosa e non stavano lì, con le mani in mano a gingillarsi con lo scettro, ne firmavano di dichiarazioni, uh! Una cosa da non credere.

Insomma, la guerra di lì a poco scoppiò, e si annunciava come una brutta guerra anche perché faceva caldo e con il caldo, si sa, la fiacca ne uccide più della spada. Di certo indebolisce, e se indebolisce addormenta e se addormenta non si combatte. Risultato: la guerra non riuscì nemmeno a cominciare.

Stanchi di non far nulla, il re e i suoi proclamarono la tregua per non aver commesso il fatto, ovvero per non aver la forza di farla, quella guerra piena di afa estiva. Si rimandò al fresco settembre ogni combattimento, fermo restando che c’era la vendemmia e bisognava interrompere la battaglia nei giorni di bel tempo per dedicarsi a raccogliere l’uva, lasciando le baruffe ai dì di pioggia.

Fu concordato di far così e si trascorse agosto nell'attesa.

Venne settembre, e la guerra, purtroppo, iniziò. Con poca voglia di combattere, provati com'erano da tre mesi di caldo infernale, ma iniziò. Dapprima furono scaramucce, poi però si prese a fare sul serio e furono dolori per tutti. Distrutte case, incendiati castelli: in poco tempo il villaggio che si credeva invaso fu raso al suolo.

L’albero nel frattempo era cresciuto ancora e ancora e ancora. Crescendo passò di paese in paese, di città in città; ci furono re che si allarmarono e dichiararono anch'essi guerra all'invasore, altri che salutarono con gioia l’arrivo delle fronde, pensando a quanto era bello che un albero eccezionale come quello passasse proprio dalle loro parti.

Con quel che stava accadendo, guerre e disordini di ogni tipo,  prima o poi doveva arrivare e arrivò, infatti, il giorno in cui gli abitanti del paese di ...cominciarono a chiedersi se non ci fosse qualcosa di strano nel loro albero, se non si dovesse interpellare un mago o un giardiniere esperto per capire se c’era sotto una magia o magari qualche concime un po’ strano, e intervenire prima che il mondo intero fosse coperto dalle sue fronde e si formasse poi un fronte comune contro il loro bellissimo paese, reo di avere un albero siffatto e non aver preso provvedimenti.

In capo a una settimana fu indetto un consulto di maghi e giardinieri: giunsero da ogni parte del mondo. Maghi famosi, giardinieri di re e regine, ciarlatani e furbi di ogni specie. Tutti a consiglio, per capire cosa e come si poteva fare per fermare quella folle crescita.

“Io dico di potare!” fece il capo giardiniere del re di Nullapandia.

“Ma no, ma no, è un sortilegio. Ci vuole la formula appropriata, ogni incantesimo ne ha una” disse il mago Amelio, scuotendo la bacchetta  per cercare ispirazione.

“Ho qui una pozione che in meno di un minuto lo riporterà alle sue dimensioni naturali” borbottò un buffoncello, un piccolo imbroglione che rimestava un liquido marrone in una ciotola.

Ognuno disse la sua, fra mille discorsi venne la notte e ancora si discuteva sulla ragione e sul torto, e intanto l’albero cresceva, cresceva ancor di più. Come nutrito dalle chiacchiere di quei signori, cresceva e si spingeva sempre più avanti, sempre più in là.

Finché arrivò alla fine del mondo. Dovete sapere che alla fine del mondo c’era…la fine, per l’appunto, con tanto di cartello stradale con su scritto ”Fine”, così si capiva bene dove ci si trovava  e che più in là non c’era un bel nulla.

Da quelle parti c’era un certo governatore che si chiamava Armenio, viveva nella torre posta sull'altura che dominava la valle della Fine. Il suo esercito  sorvegliava i territori circostanti giorno e notte.

Un giorno, infatti…

“Numero uno, guarda,” disse il soldato numero due strabuzzando gli occhi, ”c'è una chioma d’albero che striscia a gran velocità. Si sta arrampicando fin quassù.”

“Vedo,” rispose il soldato numero uno,” ma che roba è questa? Da dove viene? Ci sarà sotto un sortilegio? O nasconde soldati pronti all'assalto?“

“Avvisiamo subito il governatore. Intanto teniamoci pronti con i pentoloni di olio bollente, non si sa mai.”

“Eh, sì, l’olio è finito da un pezzo: a forza di scacciar nemici! il governatore ha mandato la fantesca a prenderlo da Toniuccio ma pare che non ne abbia più neanche lui. Si dovrà andare a far provviste fuori città.”

“Bella roba, e ora come ci liberiamo dell’invasore se dietro quella chioma c’è un esercito intero? Bah, io vado dal governatore, le rogne sono roba sua. Noi dobbiamo solo eseguire”.

Il governatore stava ronfando in quel momento e non gradì affatto l’interruzione.

“Insomma, io ho bisogno di riposo, “ disse alzandosi a sedere sul letto, ”cosa si vuole ancora da me? Sfiancarmi? Uccidermi? C’è mica il solito complotto, eh? Vi faccio vedere io, vigliacchi!”

“Ma no, ma no, governatore. C’è un’emergenza, altrimenti non l’avrei disturbata. Una chioma d’albero sta invadendo la nostra terra.”

“Una chioma d’albero? Ma che dici? Credi di poter prendere in giro il tuo governatore, per caso?”

“No, signore. Venga a vedere lei stesso, così si renderà conto della situazione. Abbiamo paura che dietro ci sia un esercito armato. Oppure che si tratti di una magia.”

“Che? Che? Che? Vengo, per la barba che ho tagliato proprio ieri, ma se è un altro falso allarme soldato preparati a fare un mese di prigione”.

Il governatore si alzò dal letto in tutta fretta, continuando a brontolare per tutto il tragitto che separava la sua stanza dalla torretta di avvistamento. Dieci minuti di brontolio che al povero soldato fecero venire il mal di testa.

“Oh, ma questa è un’invasione!” esclamò Armenio vedendo la chioma che saliva su a gran velocità.

“Che si fa, governatore?” chiese il soldato.

“Che si fa, che si fa…che cosa vuoi che si faccia? Si lanciano un paio di frecce e si sta a vedere cosa succede. Se riuscite a colpire la verzura bene, sennò…”

“Sennò?”

“Scappiamo tutti, ecco! Ma vi devo sempre dire tutto?”

“ Se lei è il governatore, sì, per forza.”

“Non essere impertinente, numero due. Pensa piuttosto a mirare bene. Sono certo che quella chioma non viaggia da sola, c’è qualcuno dietro che la manovra. Dobbiamo stanarlo.”

“Pare facile!” borbottò il soldato, ma dato che Armenio minacciava di tirargli in testa una pietra tolta fresca fresca dal muro a suon di calci, pensò bene di filarsela senza aggiungere altro motto.

In quattro e quattro otto si radunarono in cima alla torre dieci fra i più bravi arcieri della valle. Si misero in posizione  e cominciarono a lanciar frecce come se piovesse.

Ma dalle fronde non uscì fuori nessuno.

“Allora c’è di mezzo un incantesimo, “ borbottò il governatore al soldato che gli faceva il rapporto,” dunque bisogna cercare subito un mago. Tentiamo anche questa, dopodiché fuga generale. Forza, partire subito e trovare il mago”.

Numero due partì, con la bisaccia piena di provviste e il brocco più brocco che riuscì a trovare, nella speranza di arrivare il più tardi possibile a destinazione, anche perché non aveva idea della destinazione e ancor meno aveva voglia di andare in giro a trovar maghi e fattucchiere. Era pigro, questo sì, fannullone e pigro. E fifone. Hai visto mai che  potesse esserci pericolo? Perché proprio lui e non Numero uno, che essendo Uno doveva essere anche il primo a partire? Meditando su questa ingiustizia, girovagò in lungo e in largo per un anno intero, il tempo necessario perché passasse la bufera.

In questo lungo lasso di tempo il governatore, non vedendo arrivare nessun mago in suo aiuto, aveva dato (per forza!) l’ordine di scappare a tutta la popolazione, che poi consisteva in: 

1)lui;

2) la moglie Gervasia;

3) il cane Bailamme;

4) il soldato Uno con la sua famigliola di cinque figli, la moglie, i suoceri, i genitori, i cognati, i cugini e due amici in quei giorni ospiti della sua casa.

Fuggirono una mattina all'alba, mentre la pianta stava entrando nelle stanze della torre, abbarbicandosi senza pietà a pareti, mobili, tende e persone. Sì. Si abbarbicò anche al governatore,  e ci vollero tutti i membri della famigliola Uno per liberarlo da quella stretta che a momenti lo soffocava.

Non sapendo dove fuggire se ne andarono tutti all'inizio del mondo, dove la pianta era già passata ma senza attecchire troppo: forse non le piaceva il posto? Oppure c’era qualcosa in quelle strade di inizio mondo, così tenere, come ogni cosa nuova, che le faceva pena e la induceva a risparmiare case e viuzze, per concentrarsi più in là, dove il mondo si faceva più grande, e più cattivo? Mah!

E gli abitanti del paese di…che fine avevano fatto? Presto detto. Erano ancora là che continuavano a discutere, a litigare, sul da farsi con quella pianta benedetta che tanti guai aveva portato a tutto il mondo.

Un giorno mastro Pippetto, il calzolaio, stanco di sentir chiacchiere a vuoto che non portavano a nessuna soluzione, dopo guerre, minacce e insulti da tutti i paesi vicini, se ne uscì con questa bella trovata:

“E se lo abbattessimo? Basta una scure e i nostri guai saranno finiti”.

Non l’avesse mai detto! Scoppiò un putiferio: chi urlava di qua, chi urlava di là.

Il fatto è che quell'albero era l’orgoglio del villaggio, rinunciare a lui era come…come…non lo so, casomai chiedetelo a loro com'era, sta di fatto che non volevano rinunciare.

“Sacrilegio! Come ti viene in mente?” gridò ad un certo punto la folla inferocita a mastro Pippetto che ebbe paura di essere picchiato tanto sembrava  minacciosa la marmaglia.

A salvarlo intervenne il re, che come tutti i re non amava gli schiamazzi.

“Buoni, buoni, miei sudditi. Quest’uomo ha detto uno sproposito, è vero, ma certe volte anche gli spropositi possono avere in sé qualcosa di buono. Lo so, lo so, lo amate tutti ma l’albero ci ha messi in una situazione assai grave, siamo odiati da tutti i paesi del mondo che non capiscono perché non l’abbiamo fermato con tutti i mezzi, compreso l’abbattimento. Forse dovremmo farci coraggio e abbatterlo: può darsi che questa pianta non sia normale. Forse è fatata e abbatterla è un bene”.

Altre grida, brusii, proteste. Tutti parlavano e non ascoltavano, solo Pippetto taceva.

“Che ho fatto?” Pensava tra sé e sé. “Ora qui mi odieranno tutti, anche se il re mi dà ragione. Sarà meglio che mi allontani per un po’, giusto il tempo di far sbollire questa rabbia”.

Mastro calzolaio fece la mossa di andarsene, cercando di non farsi vedere da tutta quella gente infervorata; lo vide il re, che gli fece segno di avvicinarsi. Capite bene che davanti a un segno del re che ti dice di avvicinarti c’è poco da fare, e Pippetto si avvicinò.

“Mastro calzolaio, “fece il re accostandosi all'orecchio del brav'uomo,” tu hai avuto coraggio a fare la tua proposta, ora vai fino in fondo: prendi una scure e abbattilo. Non preoccuparti per i tuoi compaesani, ti farò difendere dall'esercito, se sarà necessario”.

Pippetto credeva di non aver capito bene: lui, proprio lui, doveva abbatterlo? All'improvviso dubitò della sua idea, gli sembrò sacrilega e ingiusta. Sbagliata. Ma ormai era troppo tardi, il re non ammetteva rifiuti.

Si guardò intorno, la gente stava sfollando, un po’ perché stanca di tutto quel vociare, un po’ perché era quasi ora di cena e gli stomaci cominciavano a brontolare. Si rimandava la protesta al giorno dopo.

Mastro calzolaio con un inchino prese congedo dal suo re e andò subito in cerca di una scure.

 Gliela prestò Giommino, il fabbro, che quel giorno non era uscito per finir certi lavori e non sapeva nulla della proposta di Pippetto. Preso com'era dal lavoro non gli chiese neppure a cosa gli servisse.

“Te la riporto fra un’ora al massimo” disse il calzolaio, e se ne andò, con il cuore in tumulto.

Aspettò l’imbrunire per la delicata operazione. I suoi compaesani erano nelle loro case e lui era libero di portare a termine la sua missione. Ma dopo non aveva nessuna intenzione di restare. No, anche se il re gli aveva promesso protezione non si sentiva tranquillo. I re certe volte sono strani, cambiano idea da un momento all'altro, magari perché a corte tira un vento nuovo o perché prima gli faceva comodo così e poi  non gli fa più comodo. No, dopo l’abbattimento sarebbe partito, anche se non aveva idea di dove andare.

Nella piazzetta non c’era nessuno, momento ideale per colpire. Pippetto prese con calma la mira, stava per sferrare il primo colpo quando “Ahi!” gridò una vocina sottile.

“Ohibò! Chi è che grida, chi c’è nascosto nell'ombra?” chiese il brav'uomo facendo un salto all'indietro.

“Chi vuoi che ci sia?” Rispose la voce.” Sono io, l’albero. Non colpirmi, ti prego!”

“Gli alberi non parlano, “ balbettò  Pippetto,” c’è qualcuno nascosto, ora ti trovo spiritosone!”

Pippetto si mise in cerca dell’intruso in vena di scherzi ma gira e guarda non trovò nessuno.

“Te l’avevo detto,” riprese la voce,” sono io che parlo.”

“Allora sei fatato!”

“Macché fatato, tutti gli alberi parlano, solo che non si fanno sentire dagli uomini altrimenti proprio come te ci crederebbero fatati e ci abbatterebbero. Anzi, ti prego di non raccontarlo a nessuno, nemmeno al re. Questa volta sono stato costretto a far sentire la mia voce per fermarti, visto che mi volevi dare un colpo di scure. ”

“Ma senti questa,” borbottò Pippetto grattandosi il capo,” gli alberi parlano. Stai pur tranquillo, non lo dirò a nessuno, anche perché penserebbero di sicuro che sono ubriaco o matto. Dato che parli, dimmi com'è che sei cresciuto così tanto? Ti rendi conto dei disastri che hai provocato?”

“Non posso dirti come ho fatto a crescere così, è un segreto verde, e i segreti verdi non si possono svelare. Mi dispiace di aver causato tanti guai, ma io mi ero stufato di star fermo qui, volevo viaggiare, vedere il mondo. Noi alberi siamo sempre fermi nello stesso posto, non è giusto. Abbiamo anche noi bisogno di cambiare orizzonte, ogni tanto. E curiosità di conoscere altri luoghi.”

“E per questa tua curiosità hai lasciato che scoppiassero guerre, tumulti e fughe di interi popoli?”

“Sì” ammise l’albero con un filo di voce.

“Dovrei abbatterti solo per questo” fece Pippetto alzando la scure.

Ma era un uomo buono, non ne ebbe il coraggio.

“Sei pazzo, albero mio,” disse infine, “Un albero pazzo. Del resto può succedere. Sei un albero, amico mio,  e gli alberi non si muovono. Capito? Sennò la prossima volta nasci condor, oppure umano. “

“Mi dispiace per quello che è successo, però sono anche contento. Il mondo è proprio bello! Un po’ strano, a volte, ma bello.”

“Senti chi parla! Il mondo sarebbe strano…a volte? Tu invece sei strano sempre. Però ti capisco, non deve essere facile stare sempre nello stesso posto. E ora che si fa? Vuoi smettere di crescere o vuoi finire abbattuto? Non tutti avranno pietà come me.”

“No, no, ho capito. Smetterò. Guarda, ritiro subito le radici. Per le fronde invece ti chiedo di potarmi. Non posso fare altro. ”

Pippetto annuì, ripose la scure in un angolo e corse a prendere un paio di cesoie.

“Eccoci, sei pronto?” chiese prima di cominciare.

“Sì, comincia pure. Non sentirò dolore.”

Pippetto iniziò a tagliare le fronde, e tanto tagliò che le riportò alla lunghezza che avevano prima di tutto quel trambusto.

Come se niente fosse successo.

“Visto? Ora sei salvo, “ disse Pippetto quando ebbe finito,” nessuno ti abbatterà più. E non farti venire in mente altre mattane. Al re dirò che sono venuto qui e ti ho trovato così, penserà che si è trattato di un incantesimo e ti lascerà in pace. Quanto ai miei compaesani, saranno felici di ritrovarti come prima. Tutto è bene quel che finisce bene, amico mio, e ora ti saluto. Vado a casa, anche perché per oggi ne ho già viste troppe. Un albero che parla, roba da non credere.”

Pippetto fece per andarsene ma l’albero lo fermò con un ramo.

“Aspetta, “ disse avvolgendogli la vita,” volevo prima dirti una cosa: grazie. E quando vai in giro, libero, con i piedi che si muovono e ti portano dove vuoi, ricordati di me e dei miei fratelli che invece non abbiamo la tua stessa libertà”.

Pippetto si commosse a quelle parole e pensò che sì, era proprio fortunato a tenersi su due piedi che, quando voleva, magari con un po’ di fatica,  potevano portarlo ovunque. Anche in cima al mondo.