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giovedì 28 maggio 2020

Viaggio dietro le quinte di un grande teatro

Eccomi di nuovo...dite che oggi esagero? Si tratta solo di una piccola nota!
Avrete sicuramente visto su Google l'invito a visitare  dietro le quinte il magnifico Teatro alla Scala di Milano, se l'avete anche raccolto immagino ne sarete rimasti affascinati, come me.
Speriamo che presto possa riaprire al pubblico, quel magnifico teatro.
Per ora buona visita, virtuale, a tutti voi.

Questa non è una fiaba - Omaggio del Presidente a Walter Tobagi -


L'Ansa riporta oggi il bellissimo omaggio del Presidente Mattarella alla figura di Walter Tobagi, barbaramente ucciso dalle brigate rosse il 28 maggio del 1980.

La libertà di stampa e di pensiero contro l'ideologia che non vuole altre parole se non le sue, altre soluzioni se non la violenza.
Nel ricordare quel triste episodio, che certo non appartiene al mondo della fiaba, auspico che, nella nostra complicata e troppo spesso ingiusta realtà, il ricorso alla violenza per realizzare il proprio progetto politico sia  ora e per sempre solo un brutto ricordo.
Realizzare qui, su questa terra, una pacifica convivenza nel rispetto reciproco non è roba da fiaba. 
Si può fare.


Professione fata


"Cosa vuoi fare da grande?" domande che a volte i bambini si sentono fare dagli adulti. 

Le risposte  possono essere fantasiose ma non so quanti dichiarerebbero così, apertamente, il segreto progetto di esercitare la nobile professione di fata...

Buona lettura



Professione fata

Barbara Cerrone



Marta era una bambina molto carina e intelligente, le piacevano un sacco di cose come giocare, correre, combinare guai, mangiare dolci e patatine fritte e stare a letto fino alle undici del mattino.

Fratelli non ne aveva, viveva in una grande casa con i genitori e il cane Armando, un pastore maremmano bello e irruento, capace di distruggerti un divano nel breve spazio di un pomeriggio estivo.

 Nel complesso Marta era una bambina come tante, serena e piena di vitalità.

Solo una cosa la rendeva diversa dagli altri, un sogno molto particolare che più che un sogno per lei era un  progetto.

“Da grande voglio fare la fata” diceva sempre alla mamma.

“Va bene ma prima devi studiare” le rispondeva ogni volta la madre.

Lei, per studiare, studiava eccome: fiabe e racconti dove le fate la sapevano lunga e risolvevano guai di ogni tipo, anche i più strani. Da Cenerentola alla Bella Addormentata, nulla sfuggiva a Marta del mondo magico delle sue amate fate.

Del resto, non voleva certo essere una di quelle ciarlatane che vendevano fumo senza arrosto, lei aspirava ad essere una fata di quelle serie, subito pronte a realizzare desideri, rimediare guai, vincere mostri e liberare principi e principesse da incantesimi e magie varie.

Una vera professionista, insomma.

Un giorno, mentre era nella sua cameretta a leggere uno di quei suoi libri con l’amica Amalia, e ripeteva  una certa formula che la fata recitava nella storia per liberare una  tal principessa dalla fattura che la imprigionava, successe una cosa molto strana.

Non so come fu ma la sua stanza scomparve, insieme alla sua amica, e Marta si ritrovò in un magnifico salone. Al posto del letto c’era un grande trono fatto di marmo e di frutta secca. Sul trono era seduto un re che somigliava a un carciofo ma aveva gli occhi buoni, e dolci, come le prugne, e le mani inanellate e belle che avevano l’aspetto degli asparagi.

“Un re verdura” si disse la bambina, e quasi quasi si sarebbe messa a ridere se solo non avesse avuto paura di farlo arrabbiare.

“Vuoi vedere che a forza di recitare formule magiche qualcosa è successo per davvero?” si chiese.

Non fece in tempo a darsi una risposta che re verdura le rivolse la parola.

“Giovane fata, dimmi, tu che sai tutto della magia: come posso liberarmi dall'incantesimo che mi vuole più simile all'orto di mio padre che a un giovane principe aspirante al regno? Maga Almidia mi ridusse così cent’anni fa e non c’è stata fata capace di riportarmi alle mie fattezze umane. Vuoi provarci tu? Saprò ricompensarti, chiedi ciò che vuoi.”

“Io?” chiese Marta con gli occhi che sprizzavano meraviglia.

“Tu, sì! E cerca di far presto perché soltanto ieri ho visto una ragazza che mi piace, vorrei farne la mia regina e con lei regnare per tanti e tanti anni, non vegetare come faccio adesso, carciofo fra i carciofi, mani d’asparago e corpo di melanzana.”

“Io? Sono una bambina e poi non so ancora fare magie” avrebbe voluto dirgli, ma si trattenne: mica poteva dir di no a un re, seppure vegetale!

Così, senza sapere come era successo né dove si trovava esattamente, capì che il suo bel sogno di essere fata ora era lì, alla portata delle sue manine, non le restava che cogliere l’occasione e dare prova di ciò che  aveva imparato leggendo fiabe a più non posso.

Frugò nella mente per vedere se fra tutte le tiritere impresse nella sua memoria ce n’era una adatta alla situazione.

Pensa e ripensa finalmente gliene venne in mente una, con aria d’importanza si mise al centro del salone e cominciò a recitare a gran voce la formula che doveva riportare un re carciofo a sembianze umane.

Lì per lì non successe nulla,  Marta stava già pensando a dove poteva scappare nel caso il re l’avesse presa male.

Il carciofo, pardon, il re tamburellava con le dita asparago sul bracciolo dorato del suo trono, era impaziente, si vedeva bene, del resto come dargli torto? Chiunque, al posto suo, lo sarebbe stato.

Questo, capirete bene, aumentava la tremarella della nostra amica che si vedeva già imprigionata o chissà cosa.

Ma la fortuna, o non so come chiamarla, quel giorno stava dalla sua parte. 

Abbassò gli occhi, Marta, solo per un attimo. Quando li rialzò vide il suo re verdura alto e imponente vicino a lei, che sorrideva tendendole la mano.

“Grazie, sapevo che mi avresti liberato! “disse il bel giovane che le stava accanto.

Del carciofo e della melanzana neanche l’ombra. Gli asparagi spariti, al loro posto mani bellissime, affusolate, si protendevano verso di lei come per abbracciarla.

Marta fu proclamata Fata di Corte, e la sua fama corse veloce per ogni angolo del regno: chi la cercava di qua, chi la chiamava di là, non aveva tempo neppure per le fiabe.  Aveva così tanto lavoro che a volte, la sera, non riusciva  a infilarsi il pigiamino, per quanto era stanca. Si coricava così, vestita, e la mattina dopo via al lavoro, a liberare qualche sfortunato da un incantesimo o da una fattura.

Non si poteva dire che non fosse felice, amata e rispettata, faceva il lavoro che aveva sempre sognato e viveva in un bellissimo palazzo, ma... c’è sempre un ma che complica le cose, anche nelle situazioni più fortunate.

Il suo ma stava nel fatto che da mesi ormai non vedeva più i genitori e quel cane -tempesta dell’Armando, per non parlare degli amici. Aveva tanta nostalgia di casa, al punto che un giorno ne parlò al re.

“Sire, sono orgogliosa e felice di essere fata di corte. Ho realizzato il mio sogno ma ho tanta nostalgia di casa e dei miei genitori. E poi, in fondo, sono ancora una bambina!”

“Ti comprendo, “rispose il re,” è cosa assai normale. Ti concedo il permesso di andare a fargli visita ma solo se prometti di tornare.”

“Tornerò, sire, lo prometto. Mi piace troppo questo lavoro di fata per lasciarlo così. Grazie, mio re”.

Per tornare a casa pensò di usare la stessa formula che aveva recitato il giorno in cui, dalla sua cameretta, per un caso o per vera magia, era arrivata fino lì.

La recitò ad alta voce, con grande convinzione, e  neanche a dirlo funzionò davvero!

Tutto il palazzo scomparve in un secondo, Marta era di nuovo nella sua stanzetta, con i pupazzi, le bambole e i suoi libri.  Tutto era come l'aveva lasciato quel giorno lontano.  Solo Amalia si era addormentata,  mentre di là in cucina si sentiva la mamma trafficare ai fornelli: che fosse già ora di cena?

Svegliò l’amica che si riscosse tutta felice, dicendo che aveva fatto un sogno incredibile: Marta era una fata di corte e tutti l’acclamavano, guadagnava fior di monete d’oro ed era ricca quasi quanto un re!

Marta sorrise: Amalia non si era accorta di nulla, per tutto quel tempo aveva  solo dormito.

Di sicuro anche la mamma non sapeva.

A lei non restava che abbracciarle entrambe  e mantenere stretto il suo segreto, fino alla prossima partenza per il mondo delle sue amate fate.

 

 

 

 


sabato 23 maggio 2020

Un anniversario da non scordare mai

Oggi è il triste anniversario di una terribile strage.
Non ci sono molte parole da dire se non "Mai dimenticare".



venerdì 22 maggio 2020

La lucertola è morta!

 

La mia gattina Berenice in questa stagione caccia accanitamente le lucertole, e non per mangiarle. Spesso mi porta i loro cadaveri depositandoli sulla soglia di casa come un regalo e una dimostrazione della sua bravura nella caccia allo stesso tempo. Chi ha un gatto probabilmente ha esperienze simili da raccontare.

Io ne ho salvate molte, di queste belle creature amanti del sole, togliendole letteralmente dalla bocca della mia gattina. Lei, quando ciò accade, mi guarda stupita come per chiedere;

" Perché?"

Infatti non c'è nessuna cattiveria da parte sua,  Berenice non ha consapevolezza del male che fa.

La morte è sempre una perdita, anche quella, così cruenta, di un esserino come una lucertola. Ogni vita è importante.

Tuttavia la natura ha le sue leggi, spesso ci appaiono crudeli ma il Paradiso Terrestre non è qui. Non ancora, almeno.

Sognando un Paradiso sulla terra dove esseri umani e animali vivano in armonia fra loro e nessuno uccida più, neppure per necessità, vi lascio alla mia filastrocca e prometto che molto presto mi farò perdonare per la tristezza del soggetto con una fiaba dal lietissimo fine.

Buona lettura.




La lucertola è morta!

Barbara Cerrone 

 


La  lucertola è morta,

ecco il suo funerale,

non sarà mai risorta,

la sua morte  è gran male.

Nella mente or assorta,

nel dolor generale,

c’è un’idea  un po’distorta

della morte fatale.

 

Vien la bara sorretta

dalle scure falene,

“E un’orrenda vendetta!”

dice il geco, e sostiene

che la morte è sospetta,

mentre piange le pene

dell’amica diletta,

sangue delle sue vene.

 

“Ma che dici, scioccone!”

si erge ora la vespa

“Non lo sai del burrone?

E di come lei, mesta,

presa dalla tensione

per presenza molesta

di felino in azione,

scelse una  via  funesta?

 

  Fuggì come una pazza,

attraverso un bel prato,

ove trovò la mazza

di quell'uomo impegnato

in un gioco di razza,

e lì contro ebbe il fato

e con esso la mazza.

Là diè l’ultimo fiato”.

 

Si convinse il buon geco

che la storia era vera,

pianse ancora lo spreco

di un’amica sincera,

di una vita già speco

da mattina a sera

di un amor quasi cieco

per stagion primavera.

 

Pianser tutti gli amici,

l’esistenza perduta,

i bei giorni felici

dell’amica caduta.

Dalle verdi pendici

di una valle ora muta

gemon quegli infelici

per la morte sì bruta.

 

Tu lucertola bella

che riposi nel prato

non c’è buona novella

né speranza, per  fato,

che la tua navicella

con Caronte dannato

ti riporti, o sorella,

qui da noi, nel creato.

 

Or la morte hai per cella,

e in eterno ti è dato

un ergastol crudele:

così  vien condannato

chi non vive in Babele

come umano  creato,

ed  assaggia col fiele

la fin del suo mandato.

 

 

 

mercoledì 20 maggio 2020

Il centenario



GIANNI RODARI


IL CENTENARIO.



Vorrei studiare la grammatica sì, ma della fantasia, e leggere fiabe al telefono, tanto per cominciare.
Tornare giovane, come il barone Lamberto e visitare il paese dei bugiardi. 
Con Gelsomino, che c'è già stato.
E dei perché cercar risposte nel più gran libro mai scritto al mondo.
Questa e altre mille sono le cose che vorrei fare per ricordarti, caro maestro.
Grazie.

Con affetto,
Barbara

sabato 16 maggio 2020

Ognuno ha la sua gabbia - "Le nuvole in gabbia"




Ognuno ha la sua gabbia. 
La libertà a volte è solo apparenza, dietro gesti e parole si possono nascondere paure e condizionamenti, influenze più o meno inconsce di un mondo che spesso punta a uniformarci secondo esigenze che non sono le nostre.
Consumatori e consumati, crediamo di decidere e siamo decisi.
Difficile conquista, la libertà, comunque la si pensi. 
Avere una mente libera, vedere senza paraocchi la realtà, saperla decifrare e togliere i lacci al cervello perché non venga impostato come il layout di una pagina scritta da altri, questa è la libertà delle libertà.
Raggiungerla non è una prerogativa delle fiabe, forse basta solo volerlo, non aver paura ad aprire gli occhi e a fare un esercizio di coraggio che può condurci, dritti e sicuri, in vista della nostra anima.
Ed ora, a proposito di gabbie...
ecco una nuova fiaba.
Buona lettura







Le nuvole in gabbia

 Barbara Cerrone

 

 


Topo Alfredo aveva fame.

“Tessa, tesoro, che si mangia stasera?” chiese alla moglie.

“Quello che vuoi, però prima bisogna far la spesa.”

Tessa stava guardando la sua fiction preferita alla tv, quando questo succedeva nessuno, nemmeno un gatto, avrebbe potuto smuoverla.

“Ho capito. Vado io” disse Alfredo.

“Non tornare con quel formaggio ammuffito che hai portato ieri, mi raccomando: ci sarà pure qualcosa di meglio nella dispensa! La muffa fa male alla salute, lo dicono sempre in tv”.

Alfredo promise, poi prese la borsa della spesa e uscì fischiettando dal vecchio fienile.

Vivevano lì da generazioni, lui e i suoi avi.

“Per un topolino di campagna non c’è un posto migliore di questo” diceva nonno Eraldo.

Alfredo lo ripeteva sempre alla moglie che sognava di andare ad abitare nella casa padronale, difronte al fienile.

Topo Alfredo non capiva come Tessa potesse desiderare davvero di vivere in quella grande casa piena di rumore e infestata da umani di tutte le grandezze ad ogni ora del giorno e della notte.

Molto meglio il vecchio fienile, riservato e silenzioso, dove al massimo si faceva vedere quel tipo alto alto che lavorava per gli umani, trafficare un po’ con il fieno e poi se ne andava, lasciando lui e la sua famiglia liberi di scorrazzare come e quanto volevano.

Alfredo si guardò intorno per controllare che non ci fosse Fred, il gatto, poi attraversò il cortile veloce come un fulmine e si infilò in casa passando dalla finestra del ripostiglio, che era sempre aperta.

Nessun umano all'orizzonte. Alfredo tirò un sospiro di sollievo: non aveva paura di loro, di solito riusciva sempre a fargliela in barba, solo facevano troppo rumore per i suoi gusti. Specialmente quelli di taglia piccola. Gli impedivano la concentrazione, mentre lui aveva bisogno di averne tanta, in quel momento.

Conosceva la casa come la sua tana, esplorò tutte le stanze, nel caso ci fosse stato in giro qualche residuo di cibo; visto che non c’era nemmeno una briciola fuori posto, si diresse verso la grande cucina, in fondo al corridoio.

La dispensa era una specie di vecchia cassapanca che stava proprio sotto la finestra, c’era una fessura in basso, da lì Alfredo scivolava dentro senza difficoltà e andava a far man bassa di cibarie.

Anche quel giorno Alfredo il topo si infilò nella dispensa e cominciò a rovistare con energia.

Era una buona giornata, c’erano provviste da mangiarci un anno intero. Alfredo prese tutto quello che le sue zampette poterono arraffare, riempì il sacco che aveva con sé e scappò via.

Era già alla finestra quando lo sguardo gli cadde su due canarini chiusi in una gabbia che entrando non aveva notato.

“Poverini, come fate a resistere chiusi in una gabbia?” chiese il topo scuotendo il muso appuntito.

“Non abbiamo scelta, ci hanno chiusi qui tanto tempo fa” rispose Pik, il più vivace dei due.

“Sono stati gli umani, immagino.”

“Sì, sono stati loro,” disse Pak,“ma non per cattiveria, sono convinti di volerci bene. Scappare, dici? Fosse facile! L’unica speranza è la piccola, quella che chiamano Alice. Lei apre spesso la gabbia ma ogni volta l’umana grande arriva in tempo a fermarla.”

“Uhm, allora è presto fatto. Bisogna attirare l’attenzione di questa…Alice e distrarre la grande. Ci penso io.”

“Davvero ci aiuteresti?” chiesero in coro i canarini.

“Certo! Datemi solo il tempo di tornare nella tana a portare le provviste e poi torno con i rinforzi.”

Tornato a casa Alfredo chiamò subito a raduno i suoi piccoli.

“C’è una missione da compiere, venite con me” disse.

“Missione? Quale missione?” chiese preoccupata la moglie, che da lui se ne aspettava sempre una.

“Si tratta di aiutare due canarini chiusi in gabbia. Ho bisogno di uno di voi, ragazzi: chi viene ad aiutarmi?”

Figuratevi!

“Io!” “Io!” gridarono i topolini, spingendosi l’un l’altro.

“Basta, basta, se fate così decido io. Viene con me…tutti e due. Andiamo, non c’è tempo da perdere.”

“Alfredo, sei sicuro che non ci sia pericolo? I piccoli…” chiese di nuovo la moglie.

“Stai tranquilla, ci sono io a proteggerli. Saremo prudentissimi. Tu intanto apparecchia la tavola che fra poco si mangia”.

Topo e topolini attraversarono di corsa il cortile, presero per la solita finestra ed entrarono in casa.

Alfredo chiese ad Augusto, il più piccolo dei suoi figli, di cercare l’umana di nome Alice per farsi seguire da lei fino alla gabbia, e al più grande, che si chiamava Adelmo, di tirarsi dietro l’umana grande in modo che non corresse dietro alla figlia, come faceva sempre, per impedirle di aprire la gabbia.

I topolini obbedirono felici, fregandosi le zampe.

Augusto trovò Alice in cucina, stava mangiando una caramella e non gli badava, nonostante lui facesse mille smorfie per farsi notare.

Alla fine fu costretto a farle il solletico ai piedi, la bambina abbassò lo sguardo e finalmente lo vide.

“Uh, che carino!” esclamò.

Augusto filò via subito verso la stanza dove era appesa la gabbia, voltandosi continuamente indietro per vedere se la bambina lo seguiva.

La piccola non deluse le sue aspettative. Appena fu davanti alla gabbia, come al solito, l’aprì.

E l’umana grande? Era in cortile, alle prese con Adelmo, gli stava correndo dietro con la scopa in mano.

Alice prese in mano i due canarini e cominciò a vezzeggiarli, dimentica ormai del topolino.

Fu facile per Pak e Pik sfuggirle dalle manine. Volarono via in un attimo, e ringraziando topo e topolini, si allontanarono tra gli alberi e ciao.

I nostri roditori, trionfanti dopo la felice impresa, stavano facendo ritorno al fienile quando due nuvole scure come la notte li chiamarono dal cielo.

“Ehi, voi, non crederete mica di farla franca? Vi abbiamo visti. Avete fatto scappare i canarini, ora lo diremo agli umani e vi scateneranno contro il gatto Fred.”

“Abbiamo fatto una buona azione, erano in gabbia e soffrivano. Perché volete fare la spia?” disse Alfredo con tono supplichevole.

“Perché vi abbiamo visti e lo vogliamo dire. E poi perché oggi siamo arrabbiate: non vedi come siamo nere? Qui tra poco faremo un temporale che neanche te lo immagini, caro il mio topo!”

“E sia! Se volete proprio farci un dispetto, allora in gabbia ci mettiamo voi due, così vediamo se vi piace” disse Alfredo agitando le zampine.

“Le nuvole in gabbia, figurati! E come pensi di chiuderci? Noi siamo fatte d’acqua, sciocco di un roditore.”

“C’è poco da ridere. Ora vi faccio vedere io!”

Alfredo tornò nella grande casa, dove nel frattempo era scoppiato un putiferio perché la fuga dei due uccellini era stata scoperta.

In quel trambusto nessuno si accorse del topo che prese indisturbato la gabbia e svelto svelto se ne tornò in cortile.

“Ecco,” fece Alfredo, “ora vedrete come vi ci infilo, o non mi chiamo più Alfredo”.

Le nuvole fecero una smorfia come per dire Povero illuso, a dire il vero nemmeno il topo sapeva come fare a imprigionarle, ma voleva a tutti costi dare una lezione a quelle due sbruffone e lì per lì si inventò una formula che se non sbaglio diceva così:

“Topin topetto, io sono un maghetto. Topin topolone, chiudi qui dentro quel nuvolone.”

Detto, fatto.

Una nuvola era già imprigionata.

Il primo a sorprendersi fu proprio Alfredo.

“Tirami subito fuori da qui!” gridava la malcapitata, ma Alfredo faceva finta di non sentire e intanto si preparava a ingabbiare anche la seconda.

“Topin topetto, io sono un maghetto. Topi topolone, chiudi dentro anche quest’altro nuvolone”.

E l’altra nuvola era bella che chiusa.

Il fatto è che per quanto si sforzassero e si spremessero per sgocciolare via, le prigioniere non riuscivano a fare nemmeno una gocciolina. Più che nuvole sembravano due pietre, compatte e ferme dentro la loro prigione.

“Ma come avrò fatto? “si chiese Alfredo grattandosi la testa.

 “E ora divertitevi un po’ voi a stare in gabbia, “soggiunse il topo,” io e i miei topolini andiamo a pranzo, arrivederci”.

Appese la gabbia a un gancio dietro il fienile e se ne andò a mangiare con la sua famiglia.

Avevano un bell’urlare e inveire, le nuvolone, sempre più nere per la gran rabbia. Alfredo non ci pensava nemmeno a farle uscire. Per il momento.

“Che stiano almeno un giorno e una notte a meditare sulla loro cattiveria” disse alla moglie che quasi quasi si era impietosita.

Il giorno dopo il nostro topo si alzò di buon mattino, voleva vedere cosa facevano le due prigioniere e se era il caso liberarle, perché la lezione era durata abbastanza.

Sotto la gabbia c’era una specie di laghetto che ad avere una barchetta ci si poteva quasi navigare: le nuvole avevano pianto tutte le lacrime che avevano per la disperazione di essere ingabbiate.

Si erano fatte magre magre e pallide come lenzuoli, tanto che Alfredo quasi non le riconosceva.

“Vedo che vi siete calmate” disse.

“Ti prego, facci tornare libere lassù, nel nostro amato cielo. Non faremo la spia, lo promettiamo!” lo supplicarono in coro.

“Va bene, va bene, vedo che avete imparato la lezione. Ora uscirete e niente scherzi, eh? Tornate lassù e fate le brave, almeno fino al prossimo temporale”.

Aprì la gabbia e le due nuvolette salirono leggere su nel cielo, e siccome erano stanche e deboli per quanto erano dimagrite, si sdraiarono e si misero a dormire.

“Tutto è bene quel che finisce bene,” sentenziò Alfredo, “ora mi merito una bella colazione. Un momento: vedo due uccellini laggiù, somigliano…ma sì! Sono Pik e Pak!”

Erano proprio loro, i canarini che aveva liberato il giorno prima e stavano volando verso di lui.

“Salve Alfredo, “disse Pik, “abbiamo visti laghi e foreste, mari e monti, città e paesi. Ora siamo di nuovo qui, vogliamo andare dalla nostra Alice, ci manca tanto. E chissà quanto le siamo mancati.”

“Ma vi rimetteranno in gabbia. Siete sicuri di volerlo fare? Io non so se riuscirò a liberarvi un’altra volta.”

“Si, vogliamo proprio tornare dalla nostra piccola amica ora, “fece Pak svolazzandogli sulla testa, “abbiamo visto tante cose e assaporato la libertà, torneremo in gabbia solo per mangiare e fare…i nostri bisognini. Siamo sicuri che gli umani, vedendoci di nuovo qui, capiranno che possono lasciare aperta la gabbia perché noi, anche se dovessimo partire di nuovo, torneremo sempre a casa.”

“Forse avete ragione, ragazzi. Auguri, allora. Ci vedremo qui in giro, eh?”

Pik e Pak volarono in casa fischiettando, come se niente fosse.

Dal cortile, Alfredo sentì le grida di gioia della bambina, e la festa che si fece nella grande casa quel giorno.

Gli umani non chiusero mai più Pik e Pak nella gabbia, i canarini volavano liberi e felici in casa e fuori.

Quando la bambina andava a spasso si posavano sulle sue spalle e uscivano con lei, in giro per il paese, tanto che Alice fu presto soprannominata Alice canarina.

Il soprannome se lo tenne stretto anche da grande, quando i suoi amici non c’erano già più.

Quanto ad Alfredo, visse felice e a lungo con la sua famiglia.

I figli crebbero sani e forti, quando anche loro furono padri nonno Alfredo, durante le lunghe sere d’inverno nel fienile, ai nipotini raccontava sempre la storia di quando tutti insieme avevano liberato dalla prigionia i canarini e messo in gabbia due nuvoloni neri.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 





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martedì 12 maggio 2020

Bloggermiao


Ci sono gatti capaci di qualunque cosa...🐱‍👓

Buona lettura.






Bloggermiao

Barbara Cerrone

 


Teofilo era un gran bel gatto. Grosso e vigoroso, con un pelo rosso e lucido e un’andatura fiera da felino deciso, era amato e rispettato da ogni gatto del vicinato.

Aveva tutto, Teofilo: una bella umana che lo adorava, una casa comoda con un grande giardino tutto per lui e tanti nascondigli da esplorare nel verde della campagna intorno.

La sua vita scorreva tranquilla e senza particolari sorprese, proprio come piaceva a lui.

Finché non arrivò il nuovo vicino.

Nella casa accanto a quella della sua padrona si trasferì un ragazzo, un tipo simpatico che gli regalava sempre qualche buon bocconcino.

Quando Teofilo andava a fargli visita lo trovava sempre davanti a quella scatola che la sua amica umana chiamava computer  e che lui non trovava per niente interessante,  non capiva infatti perché piacesse tanto agli umani.

Un giorno il nuovo vicino, che si chiamava Alberto, lo invitò a sedersi accanto a lui.

“Vuoi fare il blogger anche tu?” Disse.” Vieni, mettiti qui, accanto a me”.

Teofilo non sapeva cosa fosse un blogger ma Alberto era simpatico e stargli vicino gli piaceva, così si accoccolò accanto a lui sulla sedia e si mise a guardare dentro la scatola.

“Ti piace, eh? Chissà cosa vedi…vieni, dammi la zampa che ti faccio scrivere qualcosa”.

Prese la zampa di Teofilo e cominciò a battere delicatamente sui tasti della scatola. Teofilo sentiva un po’ di solletico ma come tutti i gatti era curioso e voleva proprio vedere cosa sarebbe successo a pestare tasti in quel modo.

Dopo un po’ che pestava vide che la scatola si era riempita di cose strane: sembravano mosche.

“Bravo, guarda quanto hai scritto!” fece Alberto.

Scritto? Le mosche dentro la scatola le chiamano scritto? Pensò Teofilo, perplesso.

“Ora però vai a casa, la tua amica ti starà cercando. Torna domani, scriviamo ancora, te lo prometto”.

Se scrivere era quel pestare leggero a Teofilo non dispiaceva affatto, perciò il micio, che capiva qualche parola dell’umano, si disse che in fondo non era una brutta idea continuare, e se ne andò con la precisa idea felina di ritornare il giorno dopo per continuare quel buffo gioco.

E così fece, infatti. Tornò il giorno dopo e quello dopo ancora, ogni volta Alberto se lo metteva accanto, gli prendeva la zampa e gli faceva scrivere tante di quelle mosche nella scatola da riempirci una stanza intera.

“Sai che ti dico, micio? Per te è giunta l’ora di fare un tuo blog. Tutto tuo, capisci? Si chiamerà…Bloggermiao, ecco! Prenderemo tutto quello che hai scritto in questi giorni e faremo tanti bei post, che ne dici?”

Teofilo lo guardava senza capire: di che parlava quello strano umano, cos’era un blog? E un post…un post, cos’era? Roba da umani, di sicuro, dunque perché avrebbe dovuto immischiarcisi?

Ma Alberto non era tipo da tentennamenti, quando si metteva in testa una cosa la faceva e basta.

“A proposito, micio, io non so nemmeno il tuo nome. Aspetta, ecco, è scritto qui sulla medaglietta: Teofilo. Posso chiamarti Teo? Teofilo è troppo lungo! Teo questo è il tuo blog, ora facciamo il primo post. Ci copiamo le prime cose che hai scritto. Che ne dici?”

Teo guardò lo schermo con aria dubbiosa: c’erano le solite mosche, solo che erano disposte in un altro modo, e poi si vedevano delle cose strane.

“Vedi che belle immagini? E che grafica? Eh, avrai un successone”.

Grattarsi la testa quando è perplesso non è cosa tipica del gatto, ma se lo fosse stata Teo si sarebbe grattato volentieri perché per lui era tutto incomprensibile e quell’umano più strano di tutti quelli che aveva conosciuto fino ad allora.

“Vediamo se qualcuno lo commenta, il tuo primo post. Domani leggeremo”.

Nonostante si fosse divertito a mettere mosche in scatola, il giorno dopo Teo non si presentò dal suo nuovo amico, tutte quelle chiacchiere su post e blog gli avevano messo una certa agitazione, preferì tenersi alla larga almeno per qualche giorno, anche se a dire il vero quel pestare sui tasti un po’gli mancava.

Riprese la vecchia abitudine di fare il giro degli orti intorno a casa, andò a trovare i vecchi amici che non vedeva da tanto tempo, si trattenne con loro giusto il tempo di informarsi sulle ultime novità, e poi tornò a casa, senza pensare più ad Alberto e alla sua scatola piena di mosche.

C’è chi dice che non si sfugge al proprio destino. Nel caso di Teo non fu proprio il destino. Oppure sì? Comunque sia una mattina Alberto andò a cercare il micio blogger a casa sua.

“Salve, “si presentò,” sono il nuovo vicino, mi chiamo Alberto. Il suo gatto è venuto spesso a farmi visita, ma negli ultimi giorni non si è più visto. Sta bene? Sa, ero preoccupato, temevo gli fosse successo qualcosa.”

“Salve, so chi è lei. Teofilo sta benissimo, grazie. Sa come sono i gatti, esplorano, vanno in giro. Vedrà che si rifarà vivo, quando ne avrà voglia.”

“Si, immagino di sì, ma vede c’è una grossa novità che lo riguarda.”

“Una novità che riguarda il mio Teofilo?”

“Sì, il suo non è un gatto come gli altri. Teo è un …micio blogger.”

“Cosa?”

“Sì, un micio blogger. Io sono un blogger, Teo un giorno si è avvicinato al computer mentre scrivevo, mi sembrava incuriosito così mi è venuta l’idea di fare anche di lui un blogger. Gli ho preso la zampa e l’ho aiutato a battere sui tasti. La settimana scorsa ho pubblicato il suo primo post e, non ci crederà, ma è stato un successone! I commenti sono tutti entusiastici e ha già così tanti followers che se continua così mi batte. Ecco, ho stampato alcuni commenti, tanto per farle vedere.”

Tirò fuori dalla tasca un paio di fogli mezzo accartocciati, li stese un po’ e li mostrò alla donna.

Il primo post era quello che aveva avuto più commenti, la gente aveva pensato di tutto leggendolo, perfino che si trattasse di un codice segreto, e molti si erano messi d’impegno a cercare di decifrarlo, come in un  gioco di spie.

Altri ancora giuravano che Teo fosse un marziano, non un micio, e che avesse scritto i post nella sua lingua arzigogolata, perciò chiedevano una traduzione, e così via.

Poi c’erano i rivenditori di cibi per animali che avendo fiutato l’affare proposero al micio blogger di pubblicizzare nel suo blog i loro prodotti in cambio di confezioni omaggio di pappe prelibate.

 Si era fatto vivo perfino un editore: voleva pubblicare l’autobiografia di Teo, primo gatto blogger, e prevedeva vendite da capogiro.

L’umana di Teo, che si chiamava Tessa, non credeva ai propri occhi.

“Incredibile! Ma cosa ha scritto mai il mio Teo per scatenare tutto questo delirio?”

“Ecco, legga, ho qui alcuni dei suoi post.”

Tessa lesse e rilesse i primi tre post di Teo. Li lesse da destra, li lesse da sinistra, ma il risultato non cambiava.

Il primo, che era anche il più lungo, diceva:

“Yipàòkòlip456@okòkdso, paòèaòò8òa! Aòsdjc3009238ieojosdijcnw90; oalms#map. Z. Q.”

Il secondo non era molto diverso dal primo, solo mancava la punteggiatura, quel giorno Teo era svogliato e aveva scritto così, senza troppo impegno.

“E tutta questa gente impazzisce per un blog così?” chiese, stupita, Tessa.

“Si, e credo che siamo solo all’inizio”.

Non aveva torto, Alberto, quello era solo l’inizio.

Tessa parlò a Teo, il quale non capì molto ma che Alberto lo aveva cercato lo afferrò, e anche le parole “pappa” e “regalo” non sfuggirono alle sue orecchie esercitate.

Il giorno seguente tornò dal suo amico blogger.

“Eccoti, finalmente! Vieni, ti faccio vedere quanti commenti hai avuto. Sono tutti pazzi di te, o forse sono tutti pazzi e basta ma che importa? Dai, andiamo a battere un altro po’ sui tasti”.

Batterono a lungo sui tasti, quella volta, tanto che Teo era un po’ stanco quando smisero.

Il gatto continuò a far visita al suo amico anche nelle settimane successive, pestando tasti a più non posso, e come si divertiva!

Ad un certo punto arrivarono anche le prime pappe in regalo: mousse al tonno e gamberetti, bocconcini al salmone e tanto pollo, che non guastava mai.  Teo era un micio intelligente e non ci mise molto a collegare le pappe con quel pestare tasti sulla scatola, perciò si diede a farlo con maggiore impegno.

Il computer si riempiva di mosche e poi altre mosche, in un continuo via vai di punti neri sullo sfondo celestino della scatola.

Non ci si crede, se ne accorse la televisione.

“Un gatto da record!” disse un giornalista.

“Si può intervistare?” chiese un altro.

In capo a sei mesi Teo era diventato una star. Giornalisti intrepidi si appollaiavano sugli alberi del parco vicino alla casa di Tessa armati di cannocchiale per spiare il momento in cui Teo sarebbe uscito per la solita passeggiata e poi… flash! Lo immortalavano nelle pose più impensate.

Lo seguivano, perfino, sperando gli sfuggisse un Miao di troppo, qualcosa di sensazionale da farci un bello scoop e duplicare la tiratura.

Teo cominciava a non poterne più.

Aveva nostalgia dei tempi d’oro in cui viveva come un gatto, e non era inseguito giorno e notte da intrusi che controllavano tutte le sue mosse, neanche le pappe gustose che riceveva in regalo gli bastavano più per sopportare tutto quel trambusto.

Di punto in bianco smise di andare dal suo amico Alberto, che ebbe un bel pregarlo perché tornasse a scrivere con lui: niente da fare, il micio era deciso.

Il telegiornale diede la notizia, edizione delle 20.30. La gente non ci voleva credere, i centralini della tv impazzirono.

“Ma è proprio vero?” “Lascia sul serio?” chiedevano quelle brave persone, incredule.

Ma micio Teo non se ne diede per inteso, e non concesse nemmeno un’intervista.

Gli parve già più che sufficiente pestare per l’ultima volta i tasti per salutare e dire a tutti quanto si era divertito, fare le fusa e andarsene poi a caccia di lucertole con gatto Fred e micia Leonora, e poi a nanna nella sua cuccia blu.

 

 

 

 

 


domenica 10 maggio 2020

Festa

Mi unisco al mare di auguri che sommergerà le mamme oggi, vorrei poterglieli fare tutti i giorni perché se li meritano.
Ho perso la mia tanto tempo fa e non posso dire che questa festa mi lasci indifferente, tuttavia è giusto gioire con chi ha la fortuna di averla ancora.
Regalate quello che potete ma soprattutto donate un po' del tesoro più prezioso che abbiamo: tempo. Una goccia del vostro tempo dedicata solo a vostra madre.
Non credo ci possa essere di meglio, per lei. E per voi.






























 

domenica 3 maggio 2020

Giornata mondiale della libertà di stampa

3 maggio. Giornata mondiale della libertà di stampa.


Che cosa significa veramente? Che si può scrivere ciò che si vuole? Quali sono i limiti, i confini?
Sbattere in faccia alla gente lo spettacolo della violenza è forse libertà? Se diventa spettacolo credo di no, è violenza nella violenza.
Di sicuro libertà di stampa è libertà di testimonianza: ciò che è sotto ai nostri occhi non si può nascondere senza offendere il principio di onestà, e negare il diritto di informazione.
Essere testimoni e non doversi nascondere, non dover tacere.
Un esempio, ma le libertà forse sono tante.
Il sensazionalismo invece tarpa le ali alla libertà, la svilisce, rendendola merce. Tuttavia i giornali si devono vendere, e allora? Allora ci vuole pazienza, coltivare l'orto dell'onestà spesso non porta frutti immediati.
Come sempre, ho più domande che risposte, sarà forse perché non è una questione così lineare e facile come potrebbe sembrare.
Nelle fiabe invece  è tutto più semplice e cristallino. No, nessun manicheismo.
Solo il vecchio e abusato sogno di un mondo migliore.
Buona stampa a tutti.