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venerdì 27 aprile 2018

Camminatore di periferia - Paolo Cognetti e la Bovisa


Altro bellissimo post dello scrittore Paolo Cognetti: Camminatore di periferia.
A tutti i camminatori di periferia e ai chi tiene stretto tra i denti l'ultimo barlume di una civiltà nata dall'uomo per l'uomo e lotta perché non muoia per sempre dico: leggetelo! (http://paolocognetti.blogspot.it/)
E speriamo che Milano si salvi insieme al suo bosco.

P.S.
Nelle fiabe non si abbattono i boschi, non si fanno spianate per costruire alveari di cemento: vogliamo imparare dalle fiabe?

giovedì 26 aprile 2018

Re Balzello- Tasse da fiaba



Tasse, gabelle, balzelli perfino nelle fiabe? Ebbene sì ma tutto è bene...

ecco il mio Re Balzello:






Re Balzello
Barbara Cerrone



C’era una volta un re che prosciugava le tasche già vuote dei suoi poverissimi sudditi con tante di quelle  tasse e gabelle che lo avevano soprannominato Re Balzello.
Re Balzello ogni giorno si alzava con una nuova tassa in testa, chiamava il suo primo ministro e dava ordine di farne subito una legge, per la disperazione dei poveracci che non sapevano più come campare.
Naturalmente ce n’erano di quelli che non riuscivano a pagare, a questi la legge regale riservava un trattamento sopraffino: per prima cosa le guardie sequestravano anche il pane secco dalla loro dispensa e poi, se non bastava, i disgraziati venivano presi  e sbattuti in galera senza troppi complimenti.
In tanti si dibattevano in tale sciagurata situazione, in troppi, a causa di queste frequenti spremiture, facevano la fame.
Il popolo era talmente immiserito che chi passava da quelle parti, vedendo tutta quella desolazione, faceva in modo di andarsene il prima possibile.
Uno degli spremuti più disperati era Gervaso, un contadino che aveva un fazzoletto sterile di terra che non rendeva più di uno sputo di grano e qualche oliva stitica da farci l’olio giusto giusto per la sua famiglia: alla mietitura gli sgherri del re prendevano quasi tutto quel granuccio, e la raccolta delle olive non andava meglio.
Un giorno, stanco di quella vita disgraziata, Gervaso disse alla moglie:
“Marta, qui non si mangia più, i nostri figli sono magri e malaticci, noi fatichiamo e non abbiamo nulla. Io dico che bisogna scappar via da questo posto.”
“Marito mio, e dove vuoi andare? Saremo poveri ovunque andremo, la fame ci seguirà come un cagnolino.”
“Ci sarà pure un posto dove regna un sovrano che non asciuga le tasche dei più poveri. Cerchiamolo, almeno! Se poi non lo troviamo possiamo sempre tornare qui, con un po’ di fortuna nel frattempo  il nostro Re Balzello potrebbe essere stato scacciato, magari da un usurpatore. Succede spesso ai re.”
“Tu sogni! Il nostro sovrano ha occhi dappertutto. Nessun usurpatore lo scaccerà.”
Mentre facevano tutti questi bei discorsi ecco comparire una certa fata che passava di lì quasi per caso. Quasi. Perché le fate, per caso, non fanno proprio nulla.
“Tua moglie ha ragione, Gervaso,” esordì quella,” scappare non serve. Ti dirò io come liberare il regno dall'avido re Balzello, ma dovrai essere molto coraggioso, si tratta di avere a che fare con una strega.”
“Mia buona fata, che vuoi che sia una strega?” rispose Gervaso.” Per chi fa la fame come noi è una sciocchezza, niente è più spaventoso della fame.”
“Benissimo, allora senti: vai sul monte, là troverai un torrentello con l’acqua scura scura, sulla sua riva ci sono erbette e fiori  e un comodo giaciglio dove nel pomeriggio si stende la strega Marcigna per fare un pisolino. Tu dovrai sorprenderla nel sonno e strapparle tre peli dal nasaccio adunco. Quando li avrai, li porterai al servitore personale del re al quale dirai che sono peli fatati  per guarire il re dalla sua insonnia, e gli  raccomanderai di metterli subito sotto il suo cuscino. Al resto penserà la magia dei tre peli”.
Gervaso corse subito a cercare il torrentello sul monte e lo trovò prima che facesse buio.
La strega si stava quasi per svegliare, non c’era tempo da perdere: strappò i tre peli dal suo naso e corse via veloce come un fulmine.
Arrivò a casa che era notte fonda, mise il suo bottino al sicuro in un bicchiere e andò a dormire soddisfatto dell’impresa.
La mattina seguente prese i peli e, come aveva detto la fata, li portò al servitore del re.
“Adesso non c’è che da attendere” disse alla moglie tornando a casa.
Passò un giorno, ne passarono due, tre, quattro e nulla era cambiato nel regno di Re Balzello.
“Moglie mia, la fata si è sbagliata. Il re continua a succhiarci il sangue e non si vede uno spiraglio di luce in questa notte buia.”
“Marito mio, sei diventato poeta? Aspettiamo ancora, forse qualcosa succederà. Ci vuole  pazienza, le fate non sbagliano”.
E la fata non sbagliò, infatti, neanche quella volta.
Dopo una settimana si sparse la notizia di una strana malattia che aveva colpito il re; prima si disse idropisia, poi piano piano si diffuse la voce, prima incerta, poi sempre più confermata da testimoni e fatti, che il sovrano era impazzito.
“Il re è pazzo, il re è pazzo!” si sussurrava nelle vie e nelle case.
Quando il popolo anziché sussurrare cominciò a gridare ecco che i suoi ministri pensarono bene di prendere provvedimenti, e senza troppo clamore catturarono il re  e lo chiusero nella torre, dove, pazzo fra i pazzi, rimase fino alla fine dei suoi giorni.
Fu eletto un nuovo re che si dimostrò subito più saggio, pretese dai suoi sudditi quel che potevano dare e in poco tempo il regno prosperò.
Anche Gervaso ritrovò la pace, riempì lo stomaco della sua famiglia ed ebbe giorni lieti a non finire.
Tutto grazie a tre peli che fecero impazzire un re già pazzo.

martedì 24 aprile 2018

La fiaba in scena! Carlo Gozzi: il piacere della regressione all'infanzia




Chi non ha mai sentito nominare Turandot, la celebre opera di Giacomo Puccini?
Ebbene, per chi non lo sapesse, è tratta da una fiaba di Carlo Gozzi (1720-1806), noto scrittore e drammaturgo veneziano, fiero antagonista di Carlo Goldoni e ostile alle prospettive illuministe che sbeffeggiava con vigore polemico nelle sue fiabe.
Tuttavia, i propositi polemici e satirici rappresentano solo un aspetto parziale delle sue Fiabe, ciò che in esse è determinante è La sovrapposizione tra gli schemi della commedia dell’arte e il gusto per il meraviglioso, proprio della fiaba infantile, Giulio Ferroni, Storia della Letteratura Italiana, Einaudi, Milano 1991.
Con le Fiabe Gozzi oppone la fantasia al mondo settecentesco e nel farlo  compie un’operazione che sarà essenziale per il Romanticismo europeo: scopre il piacere della regressione infantile.
Oltre alla fortuna riscossa presso il pubblico veneziano, le fiabe di Gozzi, (fra le quali ricordiamo La donna serpente, L’amore delle tre melarance, la già citata Turandot e molte altre) vantano un enorme successo presso la cultura romantica europea, da Goethe a Shiller alla Staël e E.Th.A. Hoffmann che ne trasse molti spunti narrativi.



domenica 22 aprile 2018

Il povero mugnaio o...attenti ai prestiti!



Eh, le finanziarie che fra una cosa e l'altra pretendono interessi molto alti, i debiti, i prestiti ...brutto affare quando non si  hanno i soldi per restituirli! 
Magari vorremmo tanto farlo ma proprio non li abbiamo, quei dannati denari: capita qualcosa e non possiamo più pagare le rate, e se c'è un'assicurazione succede che non copra proprio tutto. 
Peccato che i creditori non si interessino dei nostri problemi e della nostra buona fede, la loro missione non è esattamente fare beneficenza, perciò guai in vista!
Sarebbe saggio non chiederli, questi benedetti prestiti, se non è assolutamente necessario, così eviteremmo problemi e patemi d'animo.
Nelle fiabe, però, c'è sempre il modo di salvarsi. 
A proposito, sia chiaro, da parte mia nessun augurio ai creditori di finire come i protagonisti della mia fiaba!
Solo un auspicio: più umanità e interessi meno esosi.









Il povero mugnaio
Barbara Cerrone




Un mugnaio povero povero un giorno disse alla moglie:
“Mara, il mulino non ci dà più da vivere, i nostri figli non hanno un futuro, perciò ho deciso: vado in cerca di fortuna. Ti raccomando le nostre creature e il mulino, pensaci tu mentre sono via”.
E partì, con le lacrime agli occhi.
Cammina cammina arrivò davanti a una grande casa, la porta era aperta e lui fece per entrare ma un cane grosso come un cavallo lo bloccò sulla soglia, abbaiando furiosamente.
“Buono, buono” disse una voce all'interno.
Il mugnaio era arretrato di qualche passo e stava quasi per andarsene quando comparve un omone alto alto che lo squadrò da capo a piedi.
“Uhm, e tu chi sei? Che vuoi da Gioberto?”
“Sono un mugnaio partito in cerca d fortuna.”
“Cerchi fortuna? Gioberto te la darà. Entra, ho proprio bisogno di due braccia robuste per aiutarmi nei lavori di casa”.
Il mugnaio fu assunto come tuttofare e Gioberto, l’omone, gli promise una  buona paga, vitto, alloggio e un piccolo prestito per dare alla famiglia un po’ di agio.
“Me li ridarai con calma, un po’ per volta. Se i tuoi  bambini sono così in difficoltà è giusto aiutarli subito: la prima paga la avrai solo a fine mese. Ma bada di restituirmeli o il debito raddoppierà e se ancora non salderai ne andrà della tua vita."
“Senz'altro, signore, li restituirò. Grazie!”
Il mugnaio, tutto contento, inviò i soldi alla moglie che comprò subito due camicini per i più piccoli, un paio di scarpe per il più grande e un vestitino di cotone per la mediana.
Passò un anno, il mugnaio lavorava presso Gioberto, metteva via quello che poteva e tutto filava liscio come l’olio finché un giorno...
“Senti, mi devi ridare quei soldi, non posso più aspettare” disse Gioberto scuro in volto.
“Oh, ma io non li ho ancora. Non si può fare fra qualche mese?”
“No! Mi servono adesso, e tu avevi promesso.”
“Sì ma credevo che potesse darmi più tempo, signore. Diciamo fra un mese, eh?”
“Se me li darai fra un mese, allora dovrai darmene il doppio. O così, o la vita.”
“Sì, sì, va bene. Il doppio fra un mese”.
Passarono trenta giorni esatti e per quanti sforzi avesse fatto il nostro uomo non era riuscito a risparmiare abbastanza soldi per restituire il prestito.
“Come farò? Ora vorrà prendersi la mia vita!” diceva tra sé il disgraziato.
Infatti poco dopo Gioberto lo chiamò e disse:
“Poiché ancora non puoi ridarmi i soldi che mi devi, io prendo la tua vita.”
“Aspetti almeno che dica le mie preghiere in chiesa.”
“E va bene, vai pure ma sbrigati, che ho fretta: tra poco arrivano certi signori e mi devo preparare”.
Il mugnaio entrò in chiesa e si mise a pregare con fervore. Mentre stava così, in ginocchio, con le mani giunte, si avvicinò una vecchia con un velo nero in testa.
“Buon uomo, vedo che sei un buon cristiano e ciò mi piace. Ti voglio aiutare.”
“Oh, grazie, ma non credo sia possibile, mia signora. La mia ora è giunta.”
“Non credo, non ancora. Piuttosto ascolta: appena esci di qui vai subito in casa e nasconditi dentro la credenza, al resto penso io.”
“E che significa questo?”
“Significa che ti aiuto, fai come ti ho detto e non te ne pentirai”.
Il mugnaio finì di pregare, si fece il segno della croce e uscì per andarsi a infilare quatto quatto in casa, dove si nascose dentro la credenza come aveva detto la vecchia signora.
Aspetta aspetta, sentì un rumore di passi.
“Questi devono essere i signori che aspettava Gioberto” pensò.
“Allora, i nostri soldi?” disse uno di quegli uomini, il più grosso.
“Non li ho, il mio lavorante non li ha restituiti. Gli prenderò la vita in cambio.”
“Che ce ne facciamo, noi, della sua vita?” fece un altro,” Vogliamo i nostri soldi. Siamo  in affari, hai detto, te li abbiamo dati perché li facessi fruttare. Ora invece ci dici che li abbiamo persi.”
“Calma, calma signori,” balbettò Gioberto,” li riavrete, mi impegno io a...”
Non aveva ancora finito la frase che si udì un gran boato: i mobili cominciarono a tremare e con loro il pavimento, il soffitto crollò, travolgendo Gioberto e i suoi compari.
Solo il mugnaio si salvò, nascosto dentro la credenza che era fissata alla parete con dei robusti chiodi.
“L’ho scampata bella! “ esclamò  uscendo tutto tremante allo scoperto.
”Devo ringraziare quella buona vecchia: dove sarà?”
Cerca e cerca non la trovava, allora prese la decisione di far fagotto e tornare a casa dal momento che lì non aveva più nulla da fare.
Per strada, mentre pensava alla gioia di rivedere i suoi bambini e la sua sposa ecco venirgli incontro una carrozza dalla quale scese una gran dama tutta vestita di nero.
“Sei felice, buon uomo? Ti sei salvato, come ti avevo detto. Io non prometto invano, quando ci rivedremo sarai molto vecchio ma ora goditi la vita e la famiglia. La fortuna ti assisterà”.
Detto questo salì sulla carrozza che subito sparì, dileguandosi come polvere nell'aria.
“Ma chi era quella donna? Forse...” ma non finì la frase perché la paura gli fece tremar forte le vene dei polsi e anche il cuore.
Riprese a camminare più veloce di prima  e in un baleno arrivò a casa sua.
“Che bello rivedervi!” disse ai suoi figli.
Li abbracciò, baciò la moglie e insieme si rallegrarono di esser di nuovo riuniti, ma non raccontò mai di aver visto la morte in faccia e averla scampata.

sabato 21 aprile 2018

Barbagianni, figlio di re



A volte capita che una bugia diventi realtà e che un millantatore resti imprigionato nella sua millanteria. O almeno, questo è quello che succede nella mia:







Barbagianni, figlio di re
 Barbara Cerrone



C’era una volta un uomo grasso e grosso che tutti chiamavano Barbagianni per via di quel suo naso adunco che somigliava a quello di un barbagianni, appunto.
Barbagianni, che di lavoro faceva il taglialegna, quando era libero passava il tempo all'osteria del paese dove lo conoscevano tutti e lo canzonavano ben benino a causa del suo naso e della sua dabbenaggine che non aveva pari in tutta la regione.
Un giorno in cui gli altri avventori erano più in vena del solito, lo martoriarono a furia di parole al punto che Barbagianni si arrabbiò e si rivoltò contro di loro come mai aveva fatto sino allora.
“Eh, voi, brutti ceffi...ora mi avete bello che stufato! Vi faccio vedere io di che pasta è fatto il sottoscritto” urlò lanciando un pugno sul tavolo dei buontemponi.
 “Ehilà, Barbagianni, non esser permaloso, “ fecero quelli in coro, “ si scherza un po’ dopo la fatica del lavoro, che? Hai perso l’umorismo?”
 “No, ma voi ora perdete la testa o qualcos'altro perché io ordinerò di farvela tagliare!” “Che? Che? Vuoi forse spaventarci allocco? E come potresti tu, un barbagianni stolto, farci tagliar via la testa? Noi siamo dieci e tu, pur grosso, sei uno.”
“Voi siete dieci ma non potete nulla, io invece, cari messeri, sono figlio del re e se lo chiedo mio padre vi farà il servizietto per la cagione che mi avete offeso.”
“Eh? Senti, che storia ci racconta quest’omone, “disse uno di loro, “ci prendi in giro, ora? Tu sei un poveraccio come noi.”
 “Eh, no, è qui che ti sbagli,”  rispose Barbagianni,”sono il figlio segreto del re e lo posso dimostrare. Prima di sera tu che parli così da arrogante, sarai in gattabuia”.
A quella frase le risate si levarono fino al cielo ma Barbagianni non si diede pena, alzò la mano minacciosa come a dire: Vedrai se non è vero, e si rimise a bere seduto al bancone. Nemmeno il tempo di un sorso di quel vino che all'ingresso si presenta il capo delle guardie tutto ansante.
 “Chi di voi è Monaldo il calzolaio?”
“Son io signore, per servirvi“ rispose l’uomo che Barbagianni aveva minacciato.
“Seguitemi, siete in arresto.”
 “A – a- a-r-resto? Che dite mai?” balbettò il poveraccio incredulo. “Son uomo onesto e non faccio male né a bestie né a cristiani.”
“Poche storie! Venite o vi trascino con la forza.”
Quel disgraziato lo seguì, tra gli sguardi attoniti degli avventori.
“Visto, ragazzi? Ve l’avevo detto! Ogni mio volere è legge per il babbo mio” esclamò Barbagianni gongolante, e in quella un altro degli astanti si levò.
 “E’ puro caso quello che è successo, caro buffone: tu non sei nessuno!”
“Non mi sfidare o fai la stessa fine” urlò Barbagianni, con gli occhi fuori dalle orbite.
Un attimo dopo ecco di nuovo la guardia.
 “Giovanni il fabbro è qui?”
“Eccolo, per servirvi” rispose Giovanni.
 “Venite, siete in arresto come il vostro amico.”
 “Che scherzo è questo? Tu l’hai architettato “ accusò l’uomo rivolto a Barbagianni che rideva come un matto.
 “Nossignore, “replicò quello fra le risa, “non è uno scherzo, è l’augusto padre mio che vendica il figliolo, bel tomo!”
E anche Giovanni fu portato via.
Persuasi che ci fosse una magia di mezzo, un qualche incantamento, quei buontemponi si fecero da parte.
Nessuno osò più aprir la bocca, temendo un nuovo incarceramento, finché l’oste in persona non ruppe quegli indugi.
 “Oh, Barbagiannino, tu sei figlio di re e non di un cane come si pensava! Mi fa piacere ma se questo è vero, dovresti essere in grado di farli liberare dopo che li hai messi tutti al gabbio.”
 “Eh, sì, bazzecole, se io volessi…”
“E allora, su, dimostraci che sei nobile d’animo e che sai perdonare. Quale migliore prova d’aver origini regali?” intervenne il maniscalco che aveva nome Goffredo.
Barbagianni ci pensò su per qualche minutino, roteò gli occhi, tirò su col naso, poi aprì la bocca e sentenziò così:
 “Miei cari, mi è cosa assai gradita mostrare a tutti il mio nobile cuore ma si dà il caso che il mio augusto padre non sappia perdonare chi fa uno sgarro al suo amato figlio, perciò non garantisco che sortirò l’effetto.”
 “Eh, bella scusa,” fece il maniscalco che era il più brillo di tutti gli avventori, “ allora non è vero che sei figlio di re.”
“Ah, così? Allora in galera insieme ai tuoi amici!” proclamò Barbagianni con il bicchiere in mano.
Dopo un minuto la guardia era già lì.
“Vorrei tanto sapere che accade oggi in questo paesino,”brontolò quello asciugandosi il sudore, ”dunque, ci risiamo: chi di voi è Goffredo, il maniscalco?”
“Son io. Eccomi qua,” disse il tapino che già se lo aspettava, “ bene, seguitemi come gli altri”.
Via anche il maniscalco.
Non era ancora volata una mosca che Annetta, moglie del Barbagianni, venne a cercarlo per riportarlo a casa.
“Gesualdo, ubriacone, vieni a casa che è l’ora. Guarda in che stato sei ridotto!”
 “Moglie, oggi non è giornata di fastidi e tu non devi molestarmi sennò ti faccio far la stessa fine di quei quattro gonzi che mi hanno provocato.”
“Che maniera è questa di trattarmi? Proprio perché sei sbronzo, altrimenti...”
 “Altrimenti cosa, moglie? Guarda che son figlio di re e posso farti chiuder nel sacello!” 
“Che sei tu, ubriacone? Falla finita e vieni via che ridicolo ti sei reso da un bel pezzo.” 
“Così mi provochi? E sia!”
 Annetta non lo stette più a sentire, lo prese per la manica e cominciò a strattonarlo ma proprio in quell'istante ecco la guardia.
 “Sei tu Annetta, di Giacomino, moglie di Gesualdo, detto Barbagianni?”
 “Sissignore, sono io, per servirvi.”
“Siete in arresto, seguitemi madama”.
 Le grida della donna le udirono anche i sordi ma non ci fu salvezza:  la presero e la trascinarono via in prigione come gli altri.
Gesualdo, trionfante, non stava più nella pelle per l’orgoglio: si vantava a destra e a manca continuando a bere e a bere, mentre gli altri avventori si guardavano fra loro in preda allo sgomento.
Bevve finché l’oste in persona, giunta la mezzanotte, non lo cacciò fuori.
Come fu come non fu, si fece mattina e Gesualdo, che non aveva avuto nemmeno la forza di tornare a casa e si era addormentato sulla soglia dell’osteria, si svegliò ma, fra il mal di testa che gli faceva scoppiare quel suo cervello poco sviluppato e i dolori nelle ossa per la notte all'addiaccio, faticava ad alzarsi in piedi.
Fece un tentativo ma ricadde quasi subito giù a terra; un secondo; un terzo; un quarto; al quinto, finalmente, ci riuscì.
Camminando traballante per la strada si rese subito conto che fra i passanti, tutti compaesani e perciò conosciuti, nessuno lo salutava, anzi, tiravano dritto chinando gli occhi come se avessero visto le pustole di un appestato.
 “Che gli prende a questa gente? Ho fatto qualcosa di brutto, ieri sera?“ si chiese Barbagianni sgomento, ma non trovò la risposta perché della sera precedente lui non ricordava nulla.
Più andava avanti, più incontrava gente che lo evitava e più si convinceva di aver fatto qualcosa di grosso: cosa, che diamine?
“Lo chiederò all'Annetta, quando arrivo a casa. Lei, di certo, lo sa e non mancherà di farmelo sapere, magari con la scopa in mano per farmela pagare. Pazienza, purché si possa rimediare e non sia cosa da andarci in galera”.
Finalmente, quando era quasi a un passo da casa, incrociò il viso rubicondo del suo amico Melandro.
 “Oh, chi si vede! Proprio tu fai al caso mio: sai cos'è successo ieri sera? Ero ubriaco come una damigiana piena e non so cos'ho fatto, ma qualcosa devo averla combinata perché nessuno mi saluta e tutti mi trattano come un ladro.”
“Come? Non ti ricordi? Hai fatto arrestare tre persone, compresa la tua signora” sibilò quello e scappò subito come rincorso dai cani.
“Ho fatto arrestare tre persone? La mia signora? Ma che dice quello stolto? E come avrei fatto, di grazia? Ecco Landolfo, forse lui mi dirà la verità, è un uomo serio. Oh, amico, dimmi un po’: sai tu cos'è successo alla taverna ieri?” chiese rivolto a un omino piccolo piccolo che passava lesto come un furetto. “Tutti mi evitano come un appestato e Melandro dice che ho fatto arrestare…”
“...tre persone, più tua moglie, sciagurato! Ma il bello è che non ti si può far nulla perché sei figlio del re” rispose l’omino e scappò via anche lui.
“Come, come? Figlio del re? Ora ho capito, è uno scherzo! Questi birboni si prendono gioco del sottoscritto, non bastano le burle all'osteria, ci voleva anche questa messinscena. Ora vado a casa e si vedrà se la mia consorte è in galera o davanti ai fornelli, come sempre”.
Detto ciò, il nostro Barbagianni filò via come un fulmine, ansioso di veder come stavano le cose nella sua magione.
Arrivato a casa, trovò la porta chiusa.
 “Moglie! Moglie! Annettaaa!” prese a gridare.”Aprimi, sono io…se sei arrabbiata, fattela passare.”
Ma Annetta non rispondeva.
 “Che sia successo qualcosa? Sarà uscita a cercarmi? O è per orti a cercare erbette?” si chiese il Barbagianni grattandosi la testa spelacchiata.
Passò di lì una vecchietta.
 “Disgraziato!” disse la donna.”Che cerchi mai? La tua consorte è in gabbia, ce l’hai mandata proprio ieri sera”.
“Ancora con questa storia! “rispose il Barbagianni assai seccato.”Non credo una parola ma qui non c’è nessuno, andrò a vedere alle prigioni tanto per dimostrare che son sciocchezze senza fondamento”.
 Il palazzaccio, come lo chiamavano in paese, distava sì e no dieci minuti dalla sua casa e Gesualdo, detto Barbagianni, arrivò in un baleno.
 “Guardie, aprite! Sono Barbagianni, vengo a vedere se la mia signora è qui, vostra prigioniera, o trattasi di scherzo sciagurato che saprò  tosto ricambiare.”
Il portone si aprì e una delle guardie, dopo averlo scrutato ben benino, gli si rivolse più o meno così:
 “Principe, entrate pure. Il re vostro padre ha ingabbiato bene quei figuri che hanno osato mancarvi di rispetto, vedrete con i vostri occhi. Quanto alla moglie, anche lei deve imparare che la consorte di un futuro re non può trattarlo male davanti al suo popolo”.
“Che? Che?” urlò Barbagianni.”Anche voi siete impazzito o partecipate a questo brutto scherzo? Basta, vi dico, ora esagerate! L’essere il capo delle guardie non vi autorizza a prendervi gioco di un pover'uomo onesto come me.”
 “Non è uno scherzo, “ ribatté la guardia,”piuttosto voi scherzate, principe e mi prendete in giro, del resto siete un principe e tutto vi è concesso. Entrate, vi faccio accompagnare”.
Barbagianni aveva un diavolo per capello e meno male che di capelli ne aveva pochi: esser preso in giro da quel bellimbusto…e che poteva mai fare, lui, povero diavolo, che una sera per troppa ubriachezza si era detto figlio di re e per questa bravata veniva ora deriso dai suoi compaesani? Niente. Seguì la guardia e brontolando arrivò nell'angusto luogo sotterraneo dove avevano sede le carceri e lì, dietro le sbarre come tanti uccelli, vide gli amici della sera prima che l’avevano provocato. C'era anche la sua signora, scarmigliata e rossa in viso per la rabbia.
 “Ah, sei qui, disgraziato!” lo apostrofò appena lo vide.”Tirami fuori da questo posto e alla svelta, sfaticato ubriacone.”
 “Moglie mia ma com'è successo? Chi ti ha incarcerato e perché?”
 “Chi? Perché? E me lo chiedi? TU! Fa anche il finto tonto, ora! “
“Io? Com'è possibile? Bando alle ciance, parleremo a casa, ora importa solo farti uscire. Guardia, aprite questa gabbia, mia moglie torna a casa.”
 “Subito, signore, ai vostri ordini”.
Annetta uscì come un’anguilla, si rassettò alla meglio i vestiti stropicciati come il suo viso, giacché non aveva dormito molto la notte precedente, poi prese il marito sottobraccio, gli fece due occhiacci come per dire E ora viene il bello e fece per andar via ma gli altri derelitti che avevano subito la sua stessa sorte reclamarono anch'essi la liberazione.
 “Barbagianni, dove vai? E noi? Ci lasci qui senza colpa alcuna tranne qualche scherzo innocente all'osteria? Liberaci, per amor del cielo, abbiamo moglie e figli anche noi”.
Barbagianni, che era di cuore e un po’ si dispiaceva per aver causato tutto quel trambusto, ordinò che fossero liberati.
Quando furono usciti, non ce ne fu uno che non mandasse al diavolo Barbagianni, il quale, costernato, si sfiniva a dire: “Mi dispiace, ero sbronzo, figlioli, non succederà più” oppure “Sono mortificato, non me ne capacito”.
Ma loro niente. Non volevano sentire, e se ne andarono con i fulmini negli occhi.
Barbagianni decise allora di andare fino in fondo a quella storia, voleva capire com'era stato possibile che un disgraziato come lui dicendosi figlio di re potesse essere poi trattato come tale, dare ordini di carcerare questo e quello ed essere obbedito. Congedò la consorte con una scusa e andò a palazzo per chiedere udienza al re.
Il re, come tale, abitava in una magnifica dimora, Barbagianni non c’era mai entrato prima e ne fu un po’ intimidito.Con sua grande sorpresa anche lì fu accolto come un gran signore, il re lo ricevette subito e gli fece mille moine: Caro figliolo di qua…Caro mio erede di là.
Il povero diavolo rimase a bocca aperta, come poteva dar torto a sua maestà e dire:
 "Mio re, non son tuo figlio e lo sai bene, se non sei scimunito"? Oppure acconsentire e fare come se fosse vera quella panzana o, meglio ancora, starsene allo scherzo se di scherzo si trattava, poiché gli bruciava assai quella faccenda e non lo faceva ridere per nulla?
Lo trasse dall'impaccio il gran primo ministro, portando la notizia di un attacco.
 “Il nemico, sire. Ci ha invaso, è alle porte della città”.
Nel caos che seguì, Barbagianni sentì solo la voce del re che gli ordinava di mettersi alla testa dell’esercito per combattere l’invasore a costo della vita: dato che lui era vecchio e non poteva più fare il condottiero, toccava a lui difendere il suo regno. 
Al nostro, che a far la guerra non pensava proprio, si accapponò la pelle dalla fifa e pensò subito a come filar via. Approfittando della confusione e della distrazione del sovrano che dava ordini  a destra e a manca andando su e giù davanti al trono, indietreggiò pian piano verso l’uscita finché, non visto, sgattaiolò fuori e prese a correre come una lepre davanti ai cacciatori.
 Arrivò a casa che non aveva più fiato né parole, disse alla moglie d’essere stanco e di voler dormire e che la cena non gli andava proprio.
Si coricò zitto come una tomba ed ebbe incubi per la notte intera.
Il giorno dopo quando si svegliò fu ben felice d’esser Barbagianni, figlio di contadino e non di re, gli parve bello anche il suo soprannome e l’esser preso in giro dai beoni all'osteria.

 Non seppe mai cosa fosse successo, se incantesimo, burla o follia, e non lo chiese perché la storia ormai era scordata, spazzata via da una nuova guerra.



venerdì 20 aprile 2018

Le fate esistono

Le fate esistono.
Ne ho la prova. Per ben due volte ho trovato sulla tomba di un mio caro piantine fresche sistemate con cura filiale, con amore, direi.
Non so chi sia l'autrice ( o l'autore?) di questo gesto così  pietoso e gentile ma di sicuro si tratta di una fata, e anche se si tratta di un uomo è una fata lo stesso, perché fata è qualunque creatura che senza interesse compie gesti buoni e gentili come questo senza farsi vedere e senza reclamare un grazie, nel mistero semplice di un dono.
Grazie, fata, a te la mia  Rosa senza primavera.









La rosa senza Primavera.
Barbara Cerrone




C’era  una volta una rosa bellissima che viveva nel rigoglioso giardino di una casa ai margini del bosco.
Questa rosa aveva anche un nome: Lucrezia. Gliel'aveva dato una bambina che abitava non lontano da lì e  che ogni giorno la veniva a trovare.
La rosa Lucrezia era la ventesima figlia di una bella pianta che aveva circa sei anni e godeva di ottima salute, curata com'era dal proprietario  della casa, un  anziano giardiniere  che amava tanto i fiori.
Quell'inverno  Lucrezia se ne stava zitta e buona in attesa della primavera come ogni anno, il freddo era stato intenso e non vedeva l’ora di rimettere un po’ di petali e sorridere al nuovo sole.
“Quando arriverà la nostra amica Primavera  ci riscalderà tutte di nuovo, e allora vedrete che festa!” diceva sempre alle sorelle infreddolite.
Tutto il giardino attendeva la bella stagione  con ansia: la neve , coprendolo, lo aveva piegato al suo rigore e il ghiaccio durante le lunghe notti si era posato spesso  sulle foglie intirizzite delle piante.
Quando  marzo finalmente arrivò  l’alba del ventunesimo giorno spuntò come un miracolo, rosea e trasparente all'orizzonte.
“Eccola, eccola! La primavera è qui!” gridarono in coro le rose in preda all'euforia.
“Eccola, sì, è lei! Sentite questo tepore? E’ proprio lei!” gli fecero eco le margherite.
Piano piano, una ad una, tutte le piante si svegliarono dal loro torpore: sbadigliavano stirando le foglioline e lo stelo,  mentre  le corolle  si preparavano a ricevere il sole.
Passò marzo e anche aprile, le sorelle di Lucrezia avevano già indossato gli abiti primaverili, tanti nuovi petali  facevano a gara per spuntare e mostrarsi nella loro fresca bellezza.
 Lucrezia, invece, non ne aveva ancora messo neanche uno.
“Siamo a maggio, è il mese delle rose e io  non  ho ancora i miei nuovi petali, come mai?” si chiedeva  preoccupata.
Passarono altri giorni, venti, per la precisione. Faceva caldo, il giardino era tutto un rigoglio di foglie, fiori, colori e profumi ma Lucrezia aveva ancora l’abito invernale.
“Lucrezina mia, non angustiarti!” diceva mamma rosa alla figlia.”Vedrai che presto metterai nuovi petali anche tu! Non è mai successo che madama Primavera ti lasciasse così, senza il vestitino di stagione.”
“Mamma, “replicava Lucrezia,” so che vuoi consolarmi ma io non sono stupida: vedo le mie sorelle tutte bardate a festa per la bella stagione e io sono ancora in abiti invernali. C’è qualcosa che non va. Forse la signora Primavera ce l’ha con me?”
“Ma no, ma no, figlia mia cosa ti salta in testa? Si tratta certamente di un disguido,  o magari non sei molto in forma..te lo dicevo sempre, lo scorso inverno: prendi i sali minerali dal terreno se vuoi star bene! Eh, questi figli, vorrebbero  avere tanti  bei petali e poi non mangiano abbastanza.”
Lucrezia, però, non era convinta e ogni giorno che passava diventava sempre più triste.
Trascorse un altro mese,  e la povera rosellina non aveva ancora messo i petali.
“Mamma  ho paura che si tratti  di un incantesimo,” disse un giorno Lucrezia,”  chiedi  all'ape messaggera  di chiamare la fata dei fiori  che sicuramente saprà cosa fare.”
“Certo, spargo subito tutto il mio profumo, così capirà che è urgente.”
L’ape messaggera  non pose tempo in mezzo:  volò immediatamente da fata Fioralia.
Era, quest’ultima, una fata un po’ pigra, dormiva quasi sempre all'ombra di un bellissimo glicine arrampicato sul muro di un castello.
Quando la messaggera  la raggiunse capì immediatamente che la faccenda era urgente,  prese la borsa da lavoro con tutti gli attrezzi per togliere gli incantesimi, poi  si fece piccola piccola come un moscerino e salì sul dorso di Maddalena che la portò in un battibaleno nel giardino di rosa Lucrezia.
Trovò la rosa in uno stato di profonda prostrazione.
“Rosellina mia, coraggio: c’è qui fata Fioralia che risolve tutti i guai” disse.
“Sì, ti prego!” esclamò Lucrezia.” Io non ho ancora messo i petali, temo di esser vittima di un’incantesimo. Aiutami tu!”
Fata Fioralia prese la sua lente trovaincantesimi e con quella esaminò da vicino la rosa.
“Uhm, non mi pare ci siano incantesimi qui. No, il motivo è un altro.”
“E quale, quale?” chiese Lucrezia.
“Qui c’è di mezzo il caratterino di madama Primavera, lo sento. Sai com'è fatta, no? Basta un nulla perché si adombri. Devi averla offesa in qualche modo, pensaci bene.”
“Io? E quando? Come? E’ impossibile, sono sempre stata gentile con lei.”
“Riflettici su, figliola, perché io non vedo altro motivo. E ora, se non ti dispiace, torno al mio pisolino: ho tanto sonno!”
Lucrezia era disperata: in che modo poteva aver  fatto arrabbiare così tanto quella pazzerella della Primavera? Proprio non lo sapeva.
“Sentito, mamma? Te l’avevo detto: madama Primavera ce l’ha con me. E ora che si fa?”
“Non c’è altro da fare,  bisogna parlare con madama Primavera. Ci penso io. Dico alla farfalla Ginevra di portarla qui,  è sua amica  e di sicuro madama non farà storie se  sarà lei a chiederle di venire qui”.
La farfalla Ginevra  infatti era molto amica di madama Primavera,  spesso andava a casa sua, nel pomeriggio,  a far due chiacchiere davanti a una tazza di buon nettare.
La Primavera abitava in un luogo molto impervio che solo chi aveva le ali poteva raggiungere.
Quel giorno però la signora non era in casa, era andata a trovare i fiori neonati  e non sapeva a che ora sarebbe tornata,  come diceva il biglietto attaccato alla porta.
Ginevra, allora, per ingannare l’attesa andò in giro a volare qua e là nei campi vicini, e ci mancò poco che non si perdesse, quella sventata!
Quando finalmente madama Primavera rientrò aveva il vestito tutto sporco di polline.
“Oh, chi si vede! La mia cara amica...qual buon zefiro ti porta?” chiese la Primavera.
“Sono qui perché c’è un’emergenza, “ rispose Ginevra,”  dovresti andare a trovare la mamma  della  rosa  Lucrezia. E’ in pena per la figlia. Ti prego, vai subito!”
“Sono stanca ed è tardi, ma dato che ci tieni tanto...va bene,  prima  però lascia che mi tolga il polline dal vestito”.
Arrivarono nel giardino che era quasi il tramonto.
“Signora, “ esordì la madre di Lucrezia,” l’ho fatta chiamare perché, come può vedere,  tutte le rose mie figlie sono fiorite e belle, solo Lucrezia non ha ancora i suoi petali. Fata Fioralia ci ha detto che non si tratta di un incantesimo e che questo succede  perché lei è arrabbiata con la mia bambina. “
”E’ così.  Lucrezia si è macchiata di una grave colpa” rispose Primavera con tono austero.
“Colpa? La mia bambina? E quale?”
“Colpa, colpa...” sussurravano  le rose.
“ Colpa. Il ventuno marzo dell’anno scorso, durante la mia festa, mi ha offesa: mentre tutti i fiori cantavano e gioivano per il mio arrivo ho sorpreso Lucrezia a dormire. Dormire, capisce? Durante la mia festa!”
“Oh, è per questo! La perdoni, signora,  è così giovane! Di sicuro non l’ha fatto apposta.”
“Mi ha offesa, mi ha offesa e basta. “
“E non si può rimediare?”
“Uhm, ci sarebbe un modo...se Lucrezia acconsente. Dovrebbe farsi recidere.”
“Recidere, recidere...” gridarono  le rose, spaventate.
“Sì, recidere ma non c’è da preoccuparsi,  poi potrebbe  rinascere più bella e rigogliosa che mai e con tanti petali. Recidere per essere donata a una bambina che in questo momento è molto malata.”
“Che se ne fa una bambina di una rosa che non è fiorita?”
“Questo è affar mio. Lucrezia deve solo dire se accetta.”
“E chi dirà all'umano che ci cura di reciderla proprio ora?”
“Ci penseranno le mie fate a soffiargli nell'orecchio quest’idea.  Lucrezia, accetti?”
Lucrezia fece segno di sì, chinando il fusto.
La mattina seguente, il  vecchio giardiniere  si svegliò con una gran voglia di potare proprio quella  rosa che non era fiorita, prese un bel paio di cesoie e andò dritto dritto a prendere Lucrezia.
Passava di lì la mamma della bambina ammalata.
“Che bel giardino! Ma quella povera  rosa? Se la butta via la prendo io, per la mia bambina: ama tanto i fiori, sa? Ora sta male, le farà piacere averla sul comodino, anche se non ha i petali”.
Non appena fu deposta sul comodino della bimba la rosa Lucrezia, con grande meraviglia di tutti,  fiorì  e anche la bambina dopo due giorni guarì completamente.
Lucrezia  fu poi piantata nel giardino di quella famiglia, dove crebbe rigogliosa e felice grazie alle cure amorevoli della sua nuova amica.
Frattanto anche  il fusto reciso cresceva  a vista d’occhio,  in capo a pochi giorni  una nuova Lucrezia, bellissima e piena di petali, spuntò  più radiosa che mai nel giardino.

“ E’ fiorita, è fiorita!” cantavano le rose in coro.” Anche Lucrezia ora ha la sua primavera”.