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lunedì 23 luglio 2018

La povera lavandaia o dell'ingiustizia riparata



Nella vita reale i prepotenti spesso ottengono ciò che vogliono con il terrore e le minacce, così può accadere che un innocente paghi per il colpevole.
Nelle fiabe invece c'è sempre una buona fata che difende i più deboli e pone rimedio all'ingiustizia. 
Buona lettura.





La povera lavandaia
Barbara Cerrone






C’era una volta una povera lavandaia.
Lo so, lo so, una volta di povere lavandaie ce n’erano tante ma questa aveva qualcosa di speciale perché era destinata ad essere la protagonista di una fiaba.



Questa brava donna si chiamava Amelia, non era più tanto giovane ma il viso aveva ancora i lineamenti morbidi della gioventù, forse perché dentro di sé  era ancora una fanciulla, e la fanciullezza del suo animo le risplendeva in viso.
Il marito era un uomo bislacco, la tormentava con i suoi capricci e aveva spesso idee balzane che lei non poteva ostacolare senza che lui montasse in collera come una furia e urlasse lanciando oggetti come al tiro al bersaglio, rischiando di colpire anche lei.
Le aveva rotto vasi, vasetti, ceramiche e oggetti di ogni tipo, e se nessuno era arrivato dritto sulla sua testa era solo per la pietà di madama la fortuna che deviava quei proiettili lanciandoli lontano dalla sua piccola persona.
Quando il marito si metteva in testa qualcosa, qualunque cosa, perfino la più pericolosa,  non c’era modo di dissuaderlo.
Un giorno il fratello della donna venne a trovarla, doveva partire per un lungo viaggio e le affidò tutti i suoi averi: non voleva lasciarli nella sua casa incustoditi e nemmeno poteva portarli con sé rischiando di essere derubato.
Amelia gli disse di non preoccuparsi, che ne avrebbe avuto cura come fossero stati suoi e lo salutò, raccomandandogli di essere prudente durante il viaggio.
Più tardi il marito tornò a casa dall'osteria, dove bighellonava tutto il giorno, vide il bauletto pieno di monete e chiese di chi fosse; quando seppe che era del  cognato disse, con l’acquolina in bocca:
“Moglie, se quel ben di Dio è di tuo fratello, allora in fondo è come se appartenesse anche a te. Che se ne fa quel tanghero di tanti soldi? Se n’è andato a zonzo mentre noi stentiamo a campare. Prendiamo le monete e...chissà? Magari con un po’ di fortuna non tornerà dal viaggio a reclamarle, e se invece dovesse tornare gli dirai che è venuto un ladro e le ha rubate.”
“Marito mio,” rispose Amelia tutta tremante,” io non sono tipo da rubare al mio stesso sangue. Ho sempre vissuto onestamente e onesta voglio restare.
Custodiamo questo denaro come gli ho promesso e andiamo avanti con il nostro, come sempre.”
Il marito, però, non ne volle sapere e fece  tante di quelle scene che a raccontarle vengono ancora i brividi.
Amelia fu costretta ad obbedire perché quel disgraziato non ci avrebbe messo nulla a prenderla e buttarla dalla finestra come una cartaccia; in cuor suo piangeva ma consegnò il bauletto nelle mani dello sciagurato consorte e pregò che suo fratello tornasse il prima possibile.
Passarono tre mesi,  il fratello di Amelia non tornava ancora e di monete ne erano rimaste poche.
Una mattina bussò alla porta una donna che disse di essere sua cognata.
Il fratello l’aveva sposata durante il viaggio, ora lui stava per tornare e mandava avanti la consorte a conoscere la sua amata sorella e a riprendersi il bauletto con le monete.
Amelia, con le lacrime agli occhi,  andò a prendere il bauletto semivuoto e lo mostrò alla cognata.
Questa, vedendo che non era rimasto più nulla o quasi del patrimonio, prese a gridare, a insultare, e a nulla valsero le preghiere e i pianti: andò dritta dritta dal giudice a denunciarla.
“Mio marito l’aveva affidata a te e tu ne risponderai!” urlò uscendo come una furia dalla casa.
Il giudice, che non conosceva né come né perché e giudicava solo sulla base dei fatti e dei suoi codicilli, fece condurre Amelia al suo cospetto e la interrogò ben benino.
“Ti dichiari colpevole o innocente?” le chiese, facendole gli occhiacci.
“Innocente, innocente!” proclamò Amelia.
Poiché era onesta,  non volle mentire dicendo che erano stati i ladri ma non spiegò come mai le monete fossero sparite. Che avrebbe dovuto dire? Che il marito l’aveva costretta e che di lui aveva una gran paura? Di sicuro non le avrebbero creduto e poi lui si sarebbe di sicuro vendicato. Allora?
Allora tacque, inghiottendo le lacrime che scesero a fiumi dai suoi occhi.
Il giudice, al quale non pareva vero di avere lì, servito su un piatto d’argento, un bel colpevole tutto per sé, non fece che chiamar le guardie e sbatterla in galera come una delinquente.
In tutto quel bailamme il marito non fiatò, non pensò affatto a discolpar la moglie, anzi, si fregò le mani per la contentezza al pensiero che non fosse toccato a lui.
Andò perfino a trovarla in galera, e col sorriso ipocrita le disse:
“ Vedrai, te la caverai con poco, non hai mai rubato, e poi sei una donna: saranno clementi con te. Forte come sei ce la farai a resistere a questa bufera. I soldi io li spenderò bene, non preoccuparti. Intanto ti saluto, perché qui l’aria si è fatta pesante anche per me”.
Così dicendo quel mascalzone se ne andò, lasciandola nei guai fino al collo.
Quella notte Amelia non poté dormire, pensava alla vergogna di esser lì e al fratello che forse la credeva una ladra; perfino alla morte, pensava, ma non ebbe il coraggio di darsela.
Passarono due giorni, Amelia languiva dietro le sbarre, tutti sembravano essersi dimenticati di lei, perfino il giudice, che ora era occupato in altre faccende.
Scoccava mezzogiorno e la guardia venne a portarle il pasto ma lei non mangiò, perché non aveva fame.
“Deve mangiare,” disse la guardia impietosita,” non faccia così, tanto non serve.”
Amelia non rispose, prese il piatto, lo appoggiò sul tavolaccio che stava in mezzo alla stanza e si rimise a sedere sul letto.
Ma si dà il caso che una donna onesta che sta in galera per colpa di un marito delinquente intenerisca il cuore delle fate, e questo è ciò che accadde, per fortuna.
Fata Rosabella stava potando le rose in giardino quando la sua bionda sorellina la chiamò.
“Rosabella, Rosabella, c’è un’ingiustizia da riparare. Una povera donna è in prigione  per colpa del marito. Lei è innocente: dobbiamo aiutarla  è il nostro compito di fate, lo sai!”
Rosabella si lagnò del fatto che gli umani non stavano mai buoni e si cacciavano nei guai anche nei momenti più inopportuni, tuttavia corse subito a togliersi gli abiti da giardinaggio e si mise la veste ufficiale, ovvero l’abito rosa con lo strascico e il cappello a cono.
Prese la bacchetta, raccomandò le rose a sua sorella e uscì, diretta alla prigione.
Trovò  Amelia in lacrime, tanto per cambiare.
“Non piangere,” le disse,” io sono qui per aiutarti. Uscirai presto da qui a testa alta, e a pagare sarà quel mascalzone. Parola mia di fata.”
Amelia aveva perso la speranza ma la parola di una fata conta pur qualcosa, perciò si rincuorò, e finalmente fece un bel sorriso.
Fata Rosabella batté tre volte la bacchetta in aria, si girò verso il muro e disse:
“Muro muretto che imprigioni questa donna, crolla subito e lascia solo il tetto!”
Appena finì la frase eccoti un boato spaventoso: il muro era crollato, dallo squarcio si vedeva la strada e alcuni passanti che guardavano, basiti.
“Forza, ora esci e vai a cercare tuo marito. Ha preso la strada per la contea vicina, non è lontano, se corri lo raggiungerai prima di sera. Non temere, quando lo avrai trovato ti dirò cosa fare.”
Amelia non stette lì a porre tempo in mezzo, uscì dalla cella e corse a cercare quel vigliacco del suo sposo.
Il sole non era ancora tramontato quando lo vide in lontananza, era in groppa a un bel cavallo, legato alla sella aveva il bauletto con le monete.
“Ora è il momento di far giustizia, “sussurrò Rosabella da dietro a un cespuglio, “ come vedi sono qui, per te. Non aver paura, vagli pure incontro con un bel sorriso. Gli dirai che il giudice ti ha liberata perché ha creduto alla tua innocenza. Vorrà sapere se per discolparti  hai accusato lui: negalo decisamente! Non ti crederà ma tu negalo ancora. Il resto lo vedrai, abbi fiducia in Rosabella.”
Amelia fece come aveva detto la fata, corse incontro al marito e gli raccontò quella storia.
Il marito, solo a vederla si fece bianco come un lenzuolo e pensò subito che lo avesse denunciato.
Amelia negò più volte ma l’uomo, che ormai si vedeva perso, scese da cavallo, prese  la moglie e la legò.
“Eccoti sistemata,” disse,” ora non mi farai più danno. Ti lascerò qui, da sola. Tra poco calerà la notte, e arriveranno gli animali selvatici: voglio vedere chi ti salverà. Io, per me, spero di cavarmela sennò torno indietro e se le belve non ti avranno sistemata ci penserò io.”
Ma non aveva fatto i conti con le fate!
Rosabella aveva in mano la sua fedele bacchetta salvatutti: la batté in aria tre, quattro, cinque volte e disse:
“Malefica creatura, uomo vigliacco! Ti mando contro l’esercito col re alla sua testa, e il giudice a metterti nel sacco!”
Un polverone si levò all'improvviso, Amelia lì per lì non riusciva a capire cosa fosse,  pensò si trattasse di una mandria inferocita e si sentì perduta.
Solo quando furono più vicini riconobbe lo stendardo reale, dietro c’erano il re, il giudice e tutto l’esercito in armi.
In un baleno raggiunsero il marito, lo catturarono come un animale e lo portarono via, verso la galera.
Amelia fu liberata, due cavalieri l’accompagnarono a casa dove una dama l’attendeva già da un pezzo per confortarla e farle compagnia.
Il re in persona con un editto proclamò l’innocenza di madama Amelia e la colpevolezza del  marito. La condanna per il reo, poi,  fu esemplare: venti anni di lavori forzati dentro una caverna, e il divieto di vedere anima viva, tranne i suoi carcerieri.
Perché Rosabella la fece tanto lunga, vi chiederete, perché non fece intervenire subito il re con tutti i suoi armigeri? Ma ragazzi miei, che volete che ne sappia? Questa è una fiaba!
Forse  la fata ha voluto mettere alla prova Amelia per vedere se aveva fiducia in lei e misurare la sua forza d’animo? Vai a sapere. Le fate fanno a modo loro, si sa, ma  fanno bene, e questo è l’importante.
Vi basti sapere che tutto è bene quel che finisce bene e che da quel giorno Amelia ricevette da Rosabella la nomina di fata,  e come fata  visse felice in mezzo alle altre nel parco dei sogni fra alberi, rose, gelsomini e passerotti a cinguettar sui rami.




sabato 14 luglio 2018

L'oro del villaggio - quando un popolo è felice...


L’oro del villaggio
Barbara Cerrone






Mi viene in mente un fatto di tanto tempo fa che a pensarci ancora mi diverte.
È successo in un certo paesino non  lontano da qui: se lo ricordano i vecchi, che ne parlano sempre, e i notabili, che ne conservano la memoria per i giovani.



Tutto è cominciato con un tesoro, una cassa piena di monete d’oro di cui nessuno conosceva la provenienza.
La trovò, in mezzo ai campi, una contadina, Amelia, mentre falciava l’erba.
“Ohilà, ohilà!” gridò.”Correte, gente, correte!”
E corsero, infatti. I cinquecento abitanti del paese corsero tutti, non ne mancò neanche uno all’appello.
Le bocche sbalordite ci misero del tempo a richiudersi, infine si decise di portarlo al principe del luogo che, come ricco signore, di certo era abituato alle monete d’oro e sapeva cosa farne.
Ma quello...
 “Le monete sono state trovate nel mio regno, io sono il principe perciò sono mie.” proclamò.”Oggi però mi sento generoso, quindi ve le regalo: prendetele, e vediamo cosa sapete farne”.
Però!  Ce n’era davvero di che beneficare un’intera città, così quei poveracci furono ben lieti di spostare tutto quel ben di Dio dalla cassa alle loro tasche rattoppate.
Da pezzenti quei disgraziati si ritrovarono signori, e cominciarono a girare in carrozza, a vestire abiti ricchi e a rinnovare le loro catapecchie cambiando i  pancacci di legno rustico in sedie e poltrone da palazzo nobiliare, e le ruvide lenzuola di spesso cotone in finissima biancheria di lino.
Inutile dire che nessuno, fra quei contadini, volle più andar nei campi a sudare mille camicie, e i raccolti andarono a farsi benedire.
L’abbandono delle campagne fece salire la bile agli occhi del principe che fino ad allora si era divertito a guardare quello spettacolo.
“I miei contadini non lavorano più la terra, tra non molto non ci sarà più di che sfamarci nel  regno” disse un giorno alla consorte.
“Marito mio, principe, la colpa è di quelle monete e della vostra imprudenza. Come avete potuto lasciare nelle loro mani quel tesoro? Non vi è venuto in mente che dopo averlo avuto si sarebbero dati alla bella vita? Non hanno mai visto l’abbondanza, c’era da prevedere questo bel risultato.”
“Lo so, io volevo solo divertirmi a vederli recitare la parte dei signori, non pensavo certo di lasciar loro le monete per sempre, mia cara. C’è un bel rimedio a questa situazione, lo vedrai presto”.
Il rimedio del principe, però, dispiacque molto a tutta quella gente: il giorno stesso inviò i suoi soldati, armati fino ai denti, a perquisire, accusare e incarcerare tutti coloro che avevano preso le monete, ponendo fine alla bisboccia senza pietà.
I  più vecchi furono condannati al carcere duro con l’accusa di complicità nel furto del tesoro, i più giovani ai lavori forzati nei campi che così ripresero a dar frutti.
Dopo un periodo di ricchezza e bella vita, tornare più poveri di prima fu come svegliarsi da un bel sogno e finire dritti dritti in un incubo di miseria e sofferenza.
Qualcuno fra loro pensò anche di darsi la morte, tanto il dolore era insopportabile, altri invece meditarono di andare dal principe e farlo fuori con tutta la sua corte, ma le catene che avevano ai piedi gli consentivano a malapena di muoversi, e la fame indeboliva talmente i loro corpi che poco a poco smisero anche di meditare.
Così finì il bel momento di quella popolazione che, illusa per un po’ di aver raggiunto benessere e ricchezza, ben presto ripiombò nel buio di una povertà ancora più amara.
Passarono gli anni, due, per la precisione, e tutti si erano ormai rassegnati al loro destino.
Molti fra i più anziani e malati erano morti in carcere, i giovani invece continuavano a sudare nei campi e campavano di stenti, come sempre, del resto.
Un bel giorno un cavaliere col pennacchio bianco armato di tutto punto scese alla locanda del paese, che era ben misera, tuttavia il nostro cavaliere non se ne lamentò perché a quei tempi chi viaggiava sapeva bene che doveva adattarsi alla bisogna, sperando almeno di non esser derubato.
Bevve del vino senza obiettare che era acqua sporca e si sciacquò la faccia in una bacinella ancor più sporca, sempre col sorriso sulle labbra.
“Un buon cliente, una volta tanto” commentò il padrone della baracca mordendo la moneta che il cavaliere gli aveva anticipato per compenso.
Il giorno dopo il suo arrivo tutto il paese parlava di questo misterioso signore che aveva l’aria di venire da molto lontano e di esser di quelli nobili e ricchi per davvero.
Soprattutto ci si chiedeva che mai facesse in quella landa misera e dimenticata un uomo così, che di valore pareva averne tanto.
Il cavaliere sembrava non accorgersi affatto di tutte quelle  attenzioni e di certo non se ne curava.
Il giorno dopo, elmo calato e lancia in resta, prese solennemente la via del castello, non senza aver prima foraggiato il suo cavallo, Alidoro, così lui lo chiamava, incitandolo a non lasciare neanche un filo di quella buona biada.
Senza dir verbo, il cavaliere si acquartierò sotto le mura del castello, e lì rimase.
Il principe appena seppe di quello strano soggetto si insospettì e ordinò alle guardie  di condurlo al suo cospetto per interrogarlo, ma il cavaliere si rifiutò.
“Non parlo con un vile usurpatore, disdegno tale ignobile compagnia.” rispose.” Io sono il legittimo erede di mio padre, re Sigismondo terzo, ucciso a tradimento dal vostro falso principe e questo regno è il mio. Sono qui per vendicare la morte del padre mio e riprendere l’oro che quel furfante ha rubato”.
Figuratevi il principe! Andò su tutte le furie e ordinò ai suoi armigeri di catturarlo per chiuderlo a vita nelle patrie galere.
Il cavaliere era più in gamba di quanto lui potesse immaginare, non appena vide avvicinarsi i soldati alzò bandiera bianca, fingendo la resa; quelli, vedendo la scena, rimisero nelle fodere le spade e andarono a prenderlo con l’aria scanzonata di chi va a far merenda sui prati. Trovarono insomma l’accoglienza che si merita chi non sa valutare il suo nemico.
Gido, così si chiamava il cavaliere, ne atterrò cinque in una volta sola, roteando la spada, e con la lancia finì il lavoro con gli altri cinque che, storditi e sconfitti, tornarono al castello  con le corna rotte.
“Sciagurati, vi siete fatti battere da un uomo solo! “ gridò il principe.
A poco valsero  piagnistei e scuse: i disgraziati, pesti e umiliati, furono spediti dritti dritti in carcere a riflettere sulla loro dabbenaggine.
Molti altri ancora andarono a dar battaglia a Gido, decisi e armati fino ai denti, e tutti tornarono al mittente senza armatura, e con qualche dente in meno.
“Qui c’è di mezzo un incantesimo!” sbottò il re all’ennesima sconfitta.” Chiamate subito Oddo”.
Oddo era un vecchio mago di corte, scalcagnato e sempre in ritardo, il principe lo tollerava solo perché era frugale e gli costava poco, e poi nelle previsioni ci azzeccava.
Il principe gli ordinò di scoprire quale incantesimo si nascondesse dietro alla forza invincibile del cavaliere, gli disse di usar tutte le armi della sua  magia per sconfiggerlo perché quelle dei suoi soldati non erano valse a nulla.
Oddo, come al solito, fece del suo meglio; consultò il libro degli incantesimi, guardò ben bene nella sfera di cristallo, interrogò le stelle...insomma non rimase affatto con le mani in mano.
Alla fine si decise per la solita bacchetta, vecchio strumento di tante battaglie vinte e, notte facendo, si diresse verso la tenda del cavaliere.
Lo trovò che stava dormendo della grossa, russava, anzi, così che Oddo ebbe quasi un moto d’impazienza: “Mi ricorda la mia povera moglie,” pensò” russa come fa lei. Non c’era verso di dormire”.
Gli si avvicinò con cautela, per non svegliarlo, e imponendogli la bacchetta sul capo disse:
“Giro di qui, giro di là, la tua casa non è questa qua. Giro di boa, giro di mare da questo posto te ne devi anda...oh, oh,oh!”
Povero Oddo! Non riuscì nemmeno a finir di pronunciare la sua formula perché all'improvviso due bellissime fanciulle comparvero davanti al letto del cavaliere, facendogli scudo.
“Chi siete?” balbettò Oddo.
“Siamo le fate guardiane del cavaliere addormentato, lo proteggiamo dalle ire del tuo falso principe e da te, mago Oddo. Se vai in pace non ti sarà torto un capello, altrimenti farai la fine di tutti gli altri.”
“Ecco, siete voi il segreto! E io che mi ci sono lambiccato il cervello!  Vi prego, ditemi: come vi chiamate? Che io conosca almeno il nome di chi mi ha sconfitto.”
“Verità è il mio nome, “ disse la prima,” e giustizia è quello di mia sorella. Come vedi, a noi non si sfugge”.
Oddo piegò umilmente il capo davanti a loro e  prese la strada del ritorno senza replicare.
La mattina seguente il principe lo convocò  per chiedergli conto della spedizione ma Oddo, prudente vecchio consumato dall’esperienza, nel frattempo aveva già preso  il largo temendo la vendetta del suo irascibile signore.
“Tutti, tutti mi abbandonano!” tuonò il principe. E nessuno gli rispose, perché anche la sua furba moglie se n’era andata, in compagnia di quattro damigelle.
Solo, spaventato, si aggirava per la reggia come un pazzo chiedendo aiuto alle statue e ai candelabri.
Così lo trovò Gido, giunto col suo Alidoro a riprendersi regno e monete.
Vedendolo in quello stato si  impietosì, pensando che aveva già avuto la sua bella punizione.
Da quel giorno in poi il triste regno del principe usurpatore finì, Gido prese il suo posto e fu un regnante giusto, amato e rispettato dai suoi sudditi.
Il principe finì dentro una cella, a smaltire la follia che lo accompagnò per il resto dei suoi giorni.
Quanto alle monete, lo volete sapere?  Gido le regalò, una ad una, a quei disgraziati senza pane che finalmente ebbero un po’ di gioia nella vita.
“Tanto ne ho almeno il triplo nelle mie casse,” disse a commento della decisione, “che vivano bene i miei sudditi, e vivrò bene anch’io”.
Un popolo felice fa felice anche il suo principe, e così fu. Vissero tutti felici e contenti.
E anche se questa è una fiaba, è tutto vero.
Parola mia di fata.



















venerdì 6 luglio 2018

Il bambino nel bicchiere



Uno strano posto per fare la nanna...
buona lettura.




Il bambino nel bicchiere
Barbara  Cerrone



C’era una volta un bambino che dormiva sempre nel bicchiere, ma solo quando non c’era il suo papà.
La sua mamma ce lo adagiava piano piano, lui si accoccolava e poi si addormentava tutto contento col dito in bocca.
Quando si alzava si stiracchiava per un’ora, tutto anchilosato com'era, nonostante ciò il bicchiere era la sua culla preferita e guai a spostarlo da lì o erano pianti e grida a non finire.
Un giorno, non si sa come, il bicchiere cadde e si ruppe in mille pezzi: patatrac!
La mamma provò a riattaccarlo ma era proprio distrutto, così ne prese un altro e lo fece vedere al bambino.
“Ti piace? Questa è la tua nuova culla.”
Il bambino, però, non era affatto contento. Anzi, era disperato, e per tutto il giorno pianse senza requie.
La mamma non sapeva più come fare per calmarlo, il bicchiere rotto non si poteva recuperare e lei aveva voglia di piangere insieme al suo piccino.
Per fortuna ci sono fate che lavorano proprio di concerto con le mamme disperate.
Ce ne sono alcune, ad esempio, che arrivano subito appena sentono un bambino e una mamma che piangono insieme.
Lalla era la fata dei sospiri, di solito si occupava di chi sospira da mattina a sera: per amore, per i debiti, per le preoccupazioni, ecc., ecc.
Quella volta mancava all'appello fata Disperina, che interveniva in caso di pianti. Era partita per il mare senza portare  con sé la campanula per comunicare, così toccò a Lalla correre in soccorso della mamma e del bambino.
“Suvvia, suvvia che c’è da piangere?” chiese appena atterrò con le sua ali rosa sulla corolla degli anemoni, in giardino.
“Eh, fata mia,” disse la mamma,” piange perché si è rotto il suo bicchiere, quello dove dormiva. Non si può’ riparare perché è andato in frantumi e non ne vuole un altro. Fata mia, aiutami tu!”
“Cara, io sono specializzata in sospiri, sostituisco la collega perciò non garantisco. Uhm, vediamo” disse la fata aprendo il libro delle magie.
“Sì, sì, ecco: ci sono! Apatapapan, patatacrac, patatrà il tuo bicchiere ora eccolo qua!”
Certe fate sono dei veri tesori, si applicano in un modo tale per risolvere i guai che quasi commuovono. E fata Lalla si era applicata, ma la sua formula non funzionò.
Al posto del bicchiere comparve una bottiglia gigantesca, con l’etichetta blu che diceva: Bevimi, bevimi! e un bel fiocco rosso intorno al collo, come fosse un regalo.
“Accidenti, lo sapevo!” esclamò Lalla. ” Mi dispiace, io faccio quello che posso. Va bene, va bene, ora ci riprovo”.
Ci riprovò, infatti. Una, due, mille e dieci volte con mille e nove formule diverse, mille e nove perché la mille e decima era solo una ripetizione di quella precedente.
“Niente da fare, non riesco ad aiutarti, figlia mia. Mi arrendo. Dovrai attendere il ritorno di Disperina.”
“No, no, ti prego! Non senti come piange il mio bambino? Aiutami.”
“E va bene, ci sarebbe un modo ma è molto rischioso. Si tratta di andare nella terra di vetro, poco lontano da qui, e scegliere fra due strade che portano alla torre del re. Una è quella giusta, se la scegli   il tuo bicchiere tornerà come prima.  L’altra invece sembra liscia e facile ma è fatta di vetri rotti, al primo passo che farai i tuoi piedi si feriranno e tu non potrai più camminare né tornare a casa. Allora, sei sicura di voler tentare?”
La mamma ci pensò un attimo, poi sentì il pianto del suo bambino levarsi più acuto e disperato che mai, e allora:
“Sì, sono sicura, “rispose, “parto subito”.
La mamma salutò in fretta e furia fata Lalla e si mise subito in cammino, non senza prima aver raccomandato il suo piccolo alle cure della fata, che si era offerta di fargli da tata.
La mamma prese una stradina secondaria, come le aveva indicato la fata, ma quando fu ad un bivio, non ricordandosi più se doveva andare a destra o a sinistra, sbagliò e si ritrovò in uno strano villaggio dove non c’era anima viva.
Girò e rigirò per le vie finché le venne incontro un uomo.
“Se vuoi uscire dal villaggio e prendere per la strada che porta al paese dei vetri devi andare per di là,” disse indicando un viottolo pieno di ortiche,” ma ricordati: l’impresa che ti accingi a fare è molto pericolosa. Ecco, prendi queste ali, ti serviranno in caso di pericolo.”
La mamma prese le ali, lo ringraziò e imboccò il viottolo che l’uomo le aveva indicato.
Cammina cammina vide in lontananza una torre che brillava alla luce del sole, e mille riflessi intorno che parevano un gigantesco lampadario acceso in mezzo alla campagna.
“Ecco, quella deve essere la terra di vetro” disse, e quasi saltava per la gioia.

Per entrare, passò dalla porta antica, non c’era nessuno in giro, si sentivano delle voci sussurrare da dietro le persiane e non si indovinava di chi fossero, sembrava quasi che a parlare fossero le finestre.
Si inoltrò per le vie del centro finché vide un cartello, di vetro, si capisce, che diceva:
“Per di qua si va alla torre del re. Scegli la strada giusta, se sei capace”.
La mamma vide le due strade, che sembravano proprio uguali, lisce e lucide come fossero di cristallo.
Prese le ali e se le mise sulle spalle, provò anche a volare ma non si alzò nemmeno di un centimetro.
“Quell’uomo mi ha ingannata! E ora? Non ho altra scelta, devo tentare”.
Si fece forza, e con un bel sospiro prese la strada che andava a sinistra.
Dopo il primo passo, sentì qualcosa scricchiolarle sotto i piedi.
“Povera me, sono perduta!” gridò, ma in quel momento le ali la sollevarono in alto, al riparo da quei cocci di vetro.
“Dunque era vero, le ali mi hanno salvato. Oh, come mi dispiace aver dubitato di quel brav'uomo!”
Mentre pensava tutta allegra a queste cose, le ali cominciarono a farla scendere piano piano.
“Mi pare chiaro, a questo punto, che la via giusta è quella a destra” disse la mamma.
Appena fatti i primi passi su quel percorso liscio e luccicante, vide in lontananza una torre splendente di luce. In cima alla torre, affacciato alla finestra, stava   un re piccolo piccolo che salutava con la mano.
Piena di speranza, lo raggiunse e vide che nell’altra mano aveva il suo bicchiere, intatto come prima di esser rotto.
“Mio re, ti ringrazio, “disse   la mamma,” questo bicchiere è la culla preferita del mio bambino, ora finalmente smetterà di piangere e farà sogni felici.”
“Non devi ringraziare me, “rispose il re, che per quanto era piccolo le sarebbe stato in una mano,” ma il tuo grande coraggio. Prendi il bicchiere e vai, ora, e sii felice con il tuo bambino”.
La mamma ringraziò di nuovo, fece un bell’inchino e si diresse verso casa.
Quando tornò e il bimbo vide la sua culla di vetro non si può dire la gioia che provò: le grida, gli abbracci!
Fata Lalla tornò alle sue cose di fata, e disse che avrebbe raccontato alle colleghe fate, lassù, sul monte degli incantesimi, che mamme coraggiose c’erano fra gli umani, quasi più coraggiose delle fate.
Quando il papà del bambino tornò a casa dal lavoro trovò il piccolo che dormiva nel suo letto e proprio   non voleva credere a tutta quella storia.

“Mia cara, hai una fantasia incredibile, “disse, “perché non scrivi una bella fiaba?”