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sabato 26 dicembre 2020

La principessa dorminpiedi

 Pubblico nuovamente, con qualche piccola variante, "La principessa dorminpiedi", apparsa anche sul sito "Tiraccontounafiaba.it", e in questo blog, nel marzo 2018.

Non  risponde esattamente ai canoni della fiaba vera e propria, ad esempio manca l'elemento magico anche se il mago c'è, ma è solo un imbroglione.
Ho deciso di proporvela ugualmente, nonostante sia una quasi-fiaba.
 Buona lettura.





La principessa dorminpiedi
Barbara Cerrone


Ogni re ha il suo cruccio, viceversa non si può dire che ogni cruccio abbia il suo re. Il monarca di cui vi parlo oggi aveva un grave problema: la principessa Betsabea, sua figlia. 
Niente da dire, Betsabea era una ragazza alta, bella, bionda, occhi azzurri, viso angelico, pelle rosea, mente acuta, cuor sincero, buon carattere, semplice, vera, nobile, fiera, elegante, virtuosa ma…eh sì, c’era un ma, un grosso ma: dormiva sempre. Di giorno, di notte, in piedi o seduta lei ronfava, e nessun medico aveva saputo spiegare la causa di quello strano morbo che tanto morbo poi non era, visto che la fanciulla sembrava un fiore appena sbocciato e mangiava di buon appetito (sonnecchiando).
Chiunque volesse scambiare due parole con lei, compresi i genitori, doveva accontentarsi dei pochi minuti durante la giornata in cui lei rimaneva abbastanza sveglia da poter capire una frase intera e rispondere senza russare. Per il resto del giorno la sua mente e i suoi occhi navigavano nel mare dei sogni: dormiva in piedi, seduta, sdraiata. Dormiva mentre passeggiava in giardino sottobraccio a due damigelle. Dormiva mentre ricamava; filava; giocava; nuotava; studiava; leggeva; abbracciava; salutava; danzava. Dormiva sempre. E russava, anche, talmente forte che tutta la corte fu costretta a procurarsi dei tappi di cera per non sentirla, solo che così era diventata una corte di sordi che dovevano comunicare a gesti e non vi dico l’imbarazzo con le delegazioni straniere!
Di questa gran disgrazia il re si doleva spesso con sua moglie, la regina Armida, la quale, poverina, non sapendo che dire né che fare, puntualmente tirava fuori un fazzolettino ricamato e piangeva calde lacrime, consolata dalle sue damigelle che, all'occorrenza, le soffiavano anche il regal naso. 
“Mia cara, non serve piangere, qui serve agire” diceva il re scuotendo il capo, perché sapeva bene che di azioni ne avevano fatte tante ma senza  risultati.
“Hai ragione,” ammetteva la regina, “ smetto subito ma che si fa? Il nostro medico dice che è melanconia, il guaritore che sono umori fermi, la negromante che si tratta di fattura ma nessuno ha saputo dare cure che facessero un qualche effetto.”
 Così dicendo riponeva il fazzoletto e si rimetteva a ricamare.
Una volta in cui la ragazza russava più del solito, le vibrazioni erano talmente forti che la sua dama di compagnia corse dalla regina per chiederle il da farsi.
“Eh, ”rispose la sovrana, “ l’unica cosa che puoi fare è accompagnarla in camera sua e adagiarla sul letto, così nessuno la sentirà. Poveri noi!”
“Sarà fatto, mia regina” disse la dama  tornando svelta dalla principessa.
La ragazza nel frattempo si era svegliata (era uno di quei rari attimi in cui riusciva a tenere gli occhi aperti) e accolse la dama fissandola come se fosse stata una visione.
“Teodosia,” questo era il nome della damigella, ”che fai? Io voglio andare in giardino a giocare a palla, perché mi porti via?”
“Principessa, voi non vi rendete conto…stavate dormendo in piedi e… perdonatemi: russavate, ecco, e molto forte, tanto che la regina vostra madre mi ha chiesto di portarvi via perché non vi sentissero.”
“Davvero? Oh, povera me! Finirà mai questo tormento? Guarirò mai dalla mia malattia? Quale principe vorrà mai sposare una principessa dorminpiedi?” e così dicendo ripiombò subito nel sonno; Teodosia allora le mise una mano intorno alla vita per sostenerla e la condusse fino alla sua camera, dove la dormiente rimase fino al breve risveglio della sera.
Intanto nella reggia c’era chi rumoreggiava, ci si chiedeva da più parti come avrebbe fatto ad assicurare una discendenza una dorminpiedi capace di star sveglia solo pochi minuti al giorno. 
Il problema era grave, ne andava del futuro del regno, perciò i notabili erano davvero preoccupati e pensavano di chiedere al re di abdicare in favore del cugino Malvolto.
Chi era Malvolto? Il solito pretendente al trono cattivo, assetato di potere, avido e…brutto come la paura in una notte buia e tempestosa. Era il figlio del fratello del re, Odoardo, morto di indigestione durante non ricordo più quale epica battaglia. 
Odoardo, in punto di morte, pare avesse farfugliato al proprio attendente, tal Mercadante da Norimberga, qualcosa come: “Giura che ti impegnerai a fare di Malvolto un bravo usurpatore da grande! ” 
 Mercadante, dal canto suo, ci si era impegnato ben  benino, lo aveva mandato perfino all'estero a studiare,  tanto che a quindici anni Malvolto era già un esperto in complotti, trame di corte e trescacce varie.
Figuratevi, allora, l’angoscia del sovrano quando al suo regal orecchio arrivarono voci di una possibile congiura a favore di Malvolto! Non dormiva più la notte. Non ci stava più nella pelle. Non diceva più parola. Insomma era in ambasce. Viceversa Betsabea, che nulla sapeva di tutto questo gran fermento, era sempre più assonnata e immersa nei suoi sogni come un pesce nel mare.
Un giorno, mentre la principessa dorminpiedi era stesa sul divano, ufficialmente a riflettere sul proprio futuro (in realtà russava come un ghiro in letargo) si presentò a palazzo un certo mago Artemio, personaggio bizzarro e un po’ fasullo ma di gran moda presso le corti dell’epoca.
Arrivò accompagnato dai suoi fidi, un gatto zoppo, un cane cieco e tre topi a reggergli il mantello.
Era un mago diplomato alla scuola di magia di vattelappesca ma piaceva, e nessuno capiva il perché; oltretutto, fisicamente era piuttosto repellente, così alto e pieno di verruche sul viso angoloso ma tant'è: piaceva.
Anche in quella corte il suo fascino colpì nel segno, incantò subito la regina madre con il potere dei suoi occhi miopi e la convinse, lei che soffriva di vertigini, a camminare in bilico sul davanzale di una finestra della torre merlata come se da lì volesse prendere il volo.
Un’altra volta, invece, rimbambì a tal punto il re da riuscire a farlo cavalcare lungo una mulattiera che si affacciava su uno strapiombo. Il re poi ebbe visioni della carica di Balaklava, previde il terremoto di San Francisco ed ebbe incubi per una settimana. Sono cose che succedono.
Episodi come questi si ripeterono tante di quelle volte che i dignitari di corte cominciarono a temere per la vita dei loro sovrani, ma i due regnanti credevano fermamente che  Artemio avrebbe trovato prima o poi un rimedio per la loro figlia dorminpiedi, e guai a chi lo toccava.
A dire il vero questa speranza il mago non gliel'aveva data affatto, anzi, sapeva bene di non poter far nulla e non voleva compromettere la sua fama, perciò aveva sempre ammesso, non senza prima biascicare due o tre delle sue litanie,  che per svegliare Betsabea non c’erano pozioni né magie.
 Nonostante ciò, il re e la regina continuavano a sperare, e ogni giorno tornavano a chiedergli se aveva trovato un rimedio.
L’insistenza dei sovrani era tale che Artemio cominciava a temere di perdere  il suo  posto di mago a corte se non si fosse fatto venire subito un' idea.  Il guaio era che non aveva fra le sue pozioni nessun intruglio adatto, perciò si proponeva di studiare un qualche imbroglio, un trucco che gli permettesse di salvar la faccia, almeno per un po’.
Pensa e rifletti, rifletti e pensa, gli venne in mente una strana bibita, amara e scura, che aveva sorbito qualche anno prima in un paese lontano; si ricordò che, dopo averla bevuta, non aveva potuto prender sonno per qualche ora e il suo ospite gli aveva detto che, sì, era normale, era proprio un effetto di quella bevanda. Ma come farla arrivare fin lì? Scrivere a quella sua conoscenza lontana? Andar lui stesso a prenderne una scorta e, se fosse andata male, venderla poi agli allocchi come elisir di gioventù, tanto per rifarsi dello smacco? Pensò fosse meglio parlarne al re, che decidesse lui il se e il come.
“Sire,” gli disse il giorno dopo, “ forse so quale elisir ci vuole per la malattia di vostra figlia ma occorre procurarselo perché non si trova qui.”
“Davvero? E dove si trova? ” rispose il re tutto emozionato.
“In un lontano paese, dove io sono stato tanto tempo fa. Conosco una persona che ha questa miracolosa pozione ma non so che fare. Andare io a prenderla? E’ un viaggio lungo e pericoloso, poi ci sono le spese. Scrivere a quel signore e chiedergli che me ne spedisca? Anche qui i rischi non mancano, e il costo non lo so quantificare.”
“Ah, non vi preoccupate del costo, quello è affar mio. L’unica cosa di cui dovete preoccuparvi è che la pozione arrivi, il modo più sicuro è che andiate voi stesso? Allora partite subito. Vi darò tutto ciò che vi necessita, compresa una scorta di uomini al seguito per la vostra sicurezza. Partite, tornate con quel rimedio e che Dio sia con voi”.
A queste parole, Artemio il mago si ritirò, e andò nella sua stanza a far bagagli.
Il giorno dopo, all'alba, un corteo di uomini a cavallo, muniti di armi, viveri e denari in quantità si mosse da palazzo reale, mago in testa, alla volta del paese lontano dove  si poteva trovare la magica bevanda che avrebbe fatto di una dorminpiedi una sveglia principessa.
Procedettero senza intoppi fino al mare, il mago Artemio, che si era dotato di tutte le comodità possibili in quell'epoca in cui ce n’erano assai poche, schiacciava pisolini ad ogni sosta con la scusa di dover riflettere sulle massime questioni.
Uomini e cavalli, stanchi per il lungo viaggio, arrivati nella bella città di  Venicia  si diressero verso il porto per imbarcarsi  e proprio lì Artemio, per un puro caso del destino, incontrò un suo vecchio compagno di scorribande.
“Teodoro!” gridò vedendolo salire sulla sua stessa nave.“ Mi riconosci? Sono Artemio, ricordi?”
“Chi?” rispose costui guardandolo per un attimo fisso negli occhi. “ Ah, sì, certo! Quanto tempo...e cosa ti porta mai su questa navicella?”
“Oh, figliolo mio, i casi della vita” rispose Artemio e raccontò di questi casi al vecchio amico, mentre con il suo seguito, topi, gatto e cane compresi, prendeva posto a bordo.
“Capisco,” disse alla fine Teodoro, “certo, hai avuto una gran bella pensata ma sappi che a Venicia si può già trovare la bevanda che cerchi. In questa città commerciano con il paese dove sei diretto e qualche mercante ha già portato il qahwa che tiene svegli e dà gran tono al fisico,  e tu potevi evitare di fare tanta strada.”
“Non lo sapevo, caro mio e ormai la nave salpa ma ti ringrazio: dovesse andare bene per il  mio scopo saprò dove trovarne ancora, alla bisogna.”
Il viaggio filò liscio come l’olio, neanche una tempesta  o un temporaluccio, tanto che l’equipaggio se ne lamentò.
 “Ma così non c’è divertimento!” disse il più anziano. Non restava che sperare nel viaggio di ritorno.
Invece per i passeggeri e per Artemio, che passò tutto il tempo a ciarlare col suo amico, fu proprio un gran bel viaggio, il tempo passò così velocemente che quasi quasi il mago si stupì di esser già arrivato quando le coste di quel paese dove i serpenti danzavano a suon di musica comparvero all'orizzonte.
I due amici sbarcarono, si salutarono e presero strade diverse. Il mago e i suoi si diressero verso il palazzo del gran signore alla ricerca del qahwa, l’amico Teodoro andò…per i fatti suoi, non ci riguarda.
Il palazzo, immenso e circondato da un parco di sontuosa bellezza, aveva la facciata decorata con mosaici preziosi, smeraldi e lapislazzuli vi s'intrecciavano come in una danza a far disegni di pavoni, fiori e fontane zampillanti. Vederselo davanti per il nostro mago fu come assistere a un miraggio, solo che era vero.Verissimo.
“Accidenti!” esclamò Artemio aguzzando gli occhi. “ Non me lo ricordavo così bello!  Entriamo e speriamo che il signore si ricordi ancora di me e ci tratti da amici.”
Poiché quel signore aveva buona memoria furono accolti a suon di inchini e salamelecchi, mille tappeti furono stesi al loro passaggio, e per alloggio stanze degne di un re furono date a tutti loro, perfino ai topi, che ringraziarono sentitamente.
Il giorno dopo Artemio espose il caso nei dettagli (compreso il gran russare della fanciulla) e ottenne comprensione, aiuto e grandi scorte di quei chicchi scuri da farne polvere per la bevanda.
Dopo due giorni di agi e di riposo, Artemio e i suoi si congedarono dal loro ospite e presero la via del ritorno carichi di doni, di prezioso qahwa, e di nuova speranza, merce sempre a buon prezzo per chi la sa apprezzare.
Erano appena sbarcati a Venicia quando un emissario del re, preoccupato che tutto fosse andato per il meglio, venne loro incontro con altri viveri e cavalli freschi per il cambio.
L’arrivo a casa fu una specie di trionfo: feste, saluti, complimenti e petali di fiori. Sparò perfino due colpi il gran cannone.
 Fu subito scaldata l’acqua per l’infuso e portato un bel pestello per ridurre in polvere un po’ di quei chicchi.
La principessa Betsabea, neanche a dirlo, dormiva come un sasso ma fu svegliata a forza da una damigella (i secchi  d’acqua a volte fanno miracoli) e, mentre una domestica le teneva aperti gli occhi, Teodosia le versò un po’ di quel liquido scuro nella bocca e gliela chiuse perché lo mandasse giù.
“Oh, oh…cos'è questa cosa amara?” chiese la principessa storcendo un poco il naso.
“Bevete che questa potrebbe essere la vostra panacea”  disse Teodosia. E giù a versargliene ancora nel gargarozzo.
Ne sorbì un bel tazzone almeno o forse due, la principessa, e sentì come un morso allo stomaco, tanto che si temette per la sua salute.
Si chiamò d’urgenza il medico di corte e si gridò, dapprima, all'omicidio cercando sotto e sopra il mago Artemio e tutta la sua cricca.
Mentre si gridava e si brigava, un paggio solerte notò che era rimasta sveglia da trenta e più i minuti la bella Betsabea!
“Figlia mia adorata, “la vezzeggiò la madre chiamata al suo capezzale, “ tu dunque resti sveglia, finalmente? Oh, grande gioia, oh gioia senza fine!” e tirò fuori l’eterno fazzoletto.
Il mal di stomaco, intanto, era passato e la fanciulla, più sveglia di un’allodola al mattino, saltò sul letto pronta a far le corse.
Artemio fu condotto innanzi al re per fargli i complimenti e ricolmarlo dei più alti onori: primo ministro, primo ciambellano, primo un po’ in tutto e una tenuta fuori porta, per gradire.
La nostra Betsabea, che da quel dì ne bevve di  qahwa e lo diffuse fra le sue amiche, le più addormentate, finalmente ebbe una vita sveglia e piena di gioia.
Un giorno si sposò con un principe straniero, mi pare, figlio di quel signore che le mandava il qahwa ogni mese; a dire il vero questa fu un’idea del re suo padre il quale, per risparmiare sul costo della merce, pensò a un matrimonio combinato con quel rampollo, e pensò bene. Lo sposo era assai bello, assai ricco, assai intelligente e assai gentile, fu subito amore e amor per sempre. Condito da un bel po’ di lapislazzuli.
Che volete da me? Questa è una fiaba e tutto fila liscio, perfino i matrimoni combinati.
I due sposini, felici, felicissimi, ebbero subito un bellissimo bambino, sano e robusto come si conviene.
Sì.
Peccato che non dormiva mai.
 “Ve l’avevo detto, principessa.Troppo qahwa nella dolce attesa”,  diceva il medico e sospirava la nutrice.
Pazienza pensava il re.  “La perfezione non è di questo mondo” diceva alla consorte rassegnato,
 “ beviamo un po’ di qahwa che anche per stanotte veglieremo.”



giovedì 24 dicembre 2020

Auguri!


Siate felici, e uniti, in questa dolce notte di attesa. Aspettiamo insieme Colui che incarna la Speranza. 

Per chi non crede c'è comunque un'occasione da cogliere per vivere con serenità e gioia questa notte.

Auguri a tutti.
Barbara

sabato 19 dicembre 2020

Natale anche per me

 Anche un topolino può aver voglia di festeggiare il Natale...almeno nelle fiabe!

Buona lettura



Natale anche per me!

 Barbara Cerrone



Topo Fred era triste. Il Natale si stava avvicinando, le vetrine dei negozi erano addobbate a festa, il grande abete della piazza principale abbagliante di luci, tutti erano eccitati e felici per la festa imminente e lui?

Lui niente. Per i topi niente Natale. Si è mai sentito di un cenone natalizio fra topi? E che i topi si scambino regali allo scoccare della mezzanotte del 24 sera? No! Eppure lui, topo Fred, il Natale lo sentiva eccome. Gli sarebbe piaciuto festeggiarlo come gli umani, magari con qualche pezzo di formaggio in più, qualche prelibatezza di quelle che i negozianti portano solo in occasione delle feste.

Insomma, avrebbe voluto anche lui il suo Natale. 

Passeggiava con aria da cane bastonato (lui, un topo!) per le strade della città, in pieno giorno, tanto nessuno gli faceva caso, presi com’erano tutti dalla frenesia degli ultimi acquisti.

Per esempio gli sarebbe piaciuto ricevere un regalo: e perché no? Una bella confezione, chiusa magari da un nastro rosso o dorato, e dentro una fetta di pecorino o un paio d’etti di spalmabile…si sarebbe accontentato anche di un formaggino pur di avere un regalo.

E invece niente.

“Dai, non si è mai visto un topo che festeggia il Natale,” lo consolava il cugino Arsenio, “è roba da umani. Noi siamo topi, il Natale non ci riguarda”.

Topo Fred non era convinto, pensava che il Natale invece dovesse riguardare tutti quello che lo desideravano, non gli sembrava giusto che un topo, in quanto topo, fosse tagliato fuori dalla festa.

Più si avvicinava la data fatidica più il suo umore si faceva cupo e intrattabile.

“Topo Fred, come va il formaggio?” gli chiedevano gli amici per strada, lui rispondeva con un grugnito, senza alzare lo sguardo da terra.

“Non vedo l’ora che passi questa festa,” sospirava mamma Gigia, “ogni volta che viene Natale il mio Fred mette il muso e diventa più triste di un funerale”.

Amici, parenti, perfino il gatto Orazio sapevano che si trattava solo di aspettare che arrivasse il 7 gennaio e Fred sarebbe tornato ad essere il solito Fred, allegro e pieno di vita, sempre in cerca di amici e compagnia.

Il problema era arrivarci, a quel fatidico 7 gennaio! Con quel topolino arrabbiato che si aggirava per il cortile e mamma Gigia sempre più sconsolata per quel figlio con strane idee nella testa.

La vigilia era il giorno più difficile, mamma Gigia lo sapeva, e cercava disperatamente di preparargli i suoi piatti preferiti per sollevargli il morale: sformato di Brie, caciocavallo in salamoia, pecorino saltato. ..tutto inutile. Fred davanti a tutte quelle leccornie girava la testa da un’altra parte, e non toccava cibo.

“Il mio tesoro,” sospirava ogni volta mamma Gigia,” non si riesce a fargli capire che deve rassegnarsi, il Natale non è per i topi”.

Dopo anni che a dicembre Fred era più nero di una vedova in gramaglie nessuno sperava più che la situazione potesse cambiare, e se non fosse stato per quel tipo…ma andiamo con ordine.

Accadde tutto proprio  la vigilia di Natale di tanto tempo fa. Cominciava a nevicare, cosa che rendeva il Natale ancora più Natale, se capite cosa intendo. I bambini giocavano facendo palle di neve, qualcuno costruì anche un omino, senza naso, però, perché la sua mamma non aveva una carota da prestargli per fare il naso.

“Le ho usate per il brodo, che ne sapevo che te ne serviva una per il pupazzo di neve? Vai a sentire la Rosalba, magari lei ne ha una”.

Mentre i piccoli umani si affannavano a cercare la carota, il nostro topo era più triste che mai e come al solito in questa occasione vagava come un’anima in pena. Passeggiava senza una meta, guardando fisso a terra, d’un tratto inciampò: una grossa pietra. Fred la colpì, facendola rotolare in mezzo alla strada, fece per muoversi quando vide uscire dalla pietra un topolino bianco bianco.

“E tu chi sei?” chiese topo Fred.

“Non importa il mio nome, sono tuo amico e sono qui per aiutarti. Vuoi festeggiare il Natale come gli umani, vero?”

“Sì, ma come lo sai?”

“Da dove vengo io certe cose si sanno, conosciamo tutti i vostri sogni. Se proprio vuoi una bella festa natalizia non hai che da voltarti da quella parte e l’avrai, ma ricorda: non devi parlare, per nessun motivo. Nemmeno se ti fanno delle domande. Se non aprirai bocca tutto andrà bene, e avrai il tuo bel Natale, altrimenti…guai a te! Ora voltati e buona festa, piccolo”.

A queste parole il topolino bianco sparì e Fred fece come gli aveva detto, si voltò.

Intorno a lui strade e case erano scomparse, si ritrovò in un grande salone addobbato a festa: al centro un enorme albero di Natale splendeva di luci, più in là un bellissimo presepe ricordava la dolcezza della Natività.

Umani, gatti e topi vestiti da gran sera si scambiavano regali e sedevano alla stessa tavola, gomito a gomito, come vecchi amici. Dopo il pranzo balli, canti, e giochi a non finire. C’era chi giocava a tombola e chi a Mercante in fiera, chi a carte e chi invece sonnecchiava sopra il divano di velluto, fra cuscini morbidi e caldi plaid colorati. Fred si divertì con la tombola, ma non disegnò una partitina a carte con un certo gatto dai baffi aristocratici e l’aria autorevole di chi proviene da una nobile famiglia.

A mezzanotte la festa finì e tutti presero a sciamare verso l’uscita. Fred stava per avviarsi con gli altri ma, volendo dare un’ultima occhiata a quel magnifico salone, lo sguardo gli cadde distrattamente su una delle due finestre e la vide: una figurina avvolta in uno scialle che conosceva bene lo stava fissando attraverso i vetri.

“Mamma!” gridò Fred, e subito si pentì, ricordandosi la raccomandazione del topo bianco.

“E ora? Che succederà?” si chiese con la tremarella nelle zampe.

Non gli ci volle molto per scoprirlo. 

Immediatamente, come rispondendo ad un richiamo, tutti gli ospiti della festa tornarono indietro e cominciarono a dargli la caccia. Gli umani tentavano di colpirlo con bastoni improvvisati, mentre i gatti lo inseguivano minacciosi, a fauci spalancate.

Quanto ai topi, erano troppo occupati a scappare  per correre in aiuto di Fred e se la davano a gambe correndo all’impazzata chi di qua, chi di là.

Anche topo Fred correva ma tutta quella folla che lo inseguiva era davvero troppo per un topolino solo, se la stava vedendo davvero brutta.

“Non fate così, ricordatevi che fino a un momento fa eravamo tutti amici. Ah, aiutooo!” gridava il poveretto,  ma nessuno lo ascoltava.

Corri corri ad un certo punto si trovò con le spalle al muro, era in trappola e capì di non avere via di scampo.

“Topo bianco, dove sei? Perdonami se ho sbagliato, ma ho visto la mamma, era là fuori a cercarmi e sembrava così preoccupata…non volevo parlare, mi è scappato. Aiutami, topo bianco!” implorò l’infelice topolino.

“Ora chiedi il mio aiuto, dopo che hai fatto il guaio?” tuonò il topo bianco comparendo all’improvviso alle sue spalle.

“Oh, ti prego, non puoi essere così spietato. Aiutami, tutti possono sbagliare.”

“Non hai mantenuto la parola, e questo è molto grave. Tuttavia sei giovane, inesperto. Voglio essere generoso con te, ti darò un’altra occasione. Ti aiuterò, ma prometti che d’ora in poi sarai un topo di parola e bada di non deludermi o per te non ci sarà più perdono”.

“Prometto, prometto. Grazie, amico. Grazie”.

Il topo bianco, che invece era di parola, con un giro di coda fece scomparire tutta quella marmaglia impazzita. A dire il vero scomparve anche il palazzo, e Fred si ritrovò nel suo lettino, come se niente fosse accaduto.

“Sono a casa, che bello! Grazie topo bianco, ovunque tu sia. Nonostante tutto è stata una bellissima festa”.

Quando mamma Gigia entrò in camera sua come ogni sera per augurargli la buona notte, topo Fred le chiese come aveva fatto a trovarlo in quel palazzo bellissimo e chi l’aveva riportata a casa.

“Palazzo? Quale palazzo? Io sono stata qui tutta la sera a giocare a nascondi-formaggio con tuo padre. “

“Ma come, non eri tu affacciata  alla finestra di quel palazzo?”

Fred allora  raccontò alla madre l’incredibile avventura di quella sera.

Mamma Gigia prima lo guardò con condiscendenza, poi gli accarezzò la testa con un bacio, gli diede la buonanotte  e uscì dalla stanza. Fred  ronfava quando in cucina papà Girolamo chiese alla moglie:

“ Si è calmato? Ogni anno a Natale è questa storia, prima o poi dovremo davvero organizzargli una festa, al nostro piccolo.”

“Si è calmato, sì. Ora dome, pensa che mi ha raccontato di aver festeggiato il Natale con umani  gatti e topi, tutti insieme in allegria”.

Mamma Gigia riferì per filo e per segno quello che Fred le aveva detto, mimando tutte le scene coem aveva fatto il figlio, compresa quella dell’inseguimento.

“Eh, certo che ne ha di fantasia il nostro ragazzo, “fece papà Girolamo con un sorriso, “se fosse stato un umano avrebbe potuto fare lo scrittore”.

 

 

  

 

 



sabato 28 novembre 2020

La sveglia addormentata

Anche le sveglie possono essere pigre...

buona lettura.


La sveglia addormentata

Barbara Cerrone

 

 




C’era in paese una sveglia addormentata, da tempo ormai si era appisolata,  e per svegliarsi  si ascoltava il gallo che perlomeno non era mai in fallo.

Tutti dicevano: “Ma che vergogna, che cosa inusitata, non si è mai vista una sveglia addormentata!”  Perfino il sindaco pose la questione, tutto il consiglio votò la mozione.

Si interpellarono i più gran dottori che di un congresso interruppero i lavori,  ma la faccenda era assai complicata così nessuno riusciva mai a risolvere il gran problema della sveglia addormentata.

Venne una volta un bravo musicista, che a dire il vero non era nella lista dei consultati per la brutta storia della sveglietta che del suo dovere pareva avere perso la memoria.

“Non ci capisco una sola nota, questa non canta, non balla e non suona: secondo me a far la sveglia non è buona”.

Venne anche un medico dalla lontana Islanda, aveva gli occhi cerchiati come un panda per la stanchezza del viaggio fatto a piedi, che se non vedi quasi non ci credi. Estrasse subito dalla borsa nera uno strumento con la forma a pera per auscultare la sveglia pigra e scura che del dottore non ebbe paura.

“Mi sembra strana, non ci cavo un picchio, sembra una sveglia fatta col radicchio tanto è molliccia e senza struttura: siete sicuri che non sia una verdura?”

Dopo di lui capitò un ingegnere, un uomo serio ma continuava a bere del succo puro di ribes con la fragola e pretendeva di mettersi a tavola nel pomeriggio e verso le tre, quando la cena ancora  qui non c’è.

“Se io non mangio non vedo più niente, questo vi dico, o mia brava gente. Datemi pane, formaggio e un po’ di vino e io vi sveglio anche un comodino”.

Ebbe il suo pane, anche il suo formaggio, ma di svegliarla non ebbe il coraggio.

“Dorme serena, perché disturbarla? Tornerò poi a vederla e visitarla”.

Con questa scusa se ne andò a pancia piena, e la svegliuccia dormì ancora più serena.

Dopo aver fatto tutti i tentativi e indagato i possibili motivi, la brava gente di tutto il villaggio si mise quieta e aspettò che maggio venisse a dar la sveglia alle persone, in modo da allentare la tensione che quel problema aveva dato a tutti, e a primavera cogliere coi frutti tutto il vantaggio di saper aspettare senza aver fretta di ricominciare con i pareri e con i consulti, spuntati ovunque come dei virgulti.

“A primavera si desta la natura!” disse convinto il signor Pietrinascura.

E venne maggio, i prati erano in fiore, nacquero bimbi e in tutti anche l’amore ma per la sveglia niente primavera, dormiva sempre da mattina a sera.

“Che sciocchi a credere che bastasse maggio, “ disse una donna stesa accanto al faggio,” a ridestare la nostra sveglina, lei dorme ancora da sera a mattina”:

Convinti ormai che tutto fosse inutile, e riprovarci ancora più futile, si rassegnarono tutte le persone e per la sveglia si scrisse una canzone.

“Sveglia sveglina,” diceva il ritornello, “ dormirai meglio giù nella cantina. Perciò adesso, insieme a mio fratello, io ti deposito dentro quel sacello dove starai finché del sonno sarai prigioniera, fosse per anni o una vita intera”.

Da quel momento la sveglia andò in pensione, senza tormento, senza delusione.

Lì riposò per mille anni ancora, e credo proprio che dorma tuttora.

Un coccodrillo sul bus

 Eccomi di nuovo con una breve fiaba...quasi un flash!


Un coccodrillo sul bus

Barbara Cerrone





Una mattina un coccodrillo salì sull’autobus che portava in centro. E i passeggeri? Vi chiederete voi.  Spaventati a morte. Chi dava di gomito al vicino e indicava il bestione tranquillamente seduto dietro all’autista, accanto al finestrino; chi tremava e, sempre tenendo d’occhio l’animale, cercava il campanello per prenotare la fermata più vicina e scendere veloce come un fulmine; chi brandiva l’ombrello come una spada sperando di spaventarlo; chi invece si avvicinava all’autista, un marcantonio alto due metri con le spalle come un armadio; chi, ancora, fingeva indifferenza come per dire Embé? Non avete mai visto un coccodrillo?

C’era perfino chi si dava i pizzichi sulle guance per vedere se per caso stava sognando.

 Invece, cari miei, non era un sogno. Il coccodrillo c’era per davvero e non sembrava nemmeno accorgersi dello scompiglio che aveva provocato fra quegli umani mezzo addormentati che andavano al lavoro come ogni mattina.

In poco tempo, lo si può capire, l’autobus si svuotò. Mai come quel giorno si videro tante persone andare a piedi per le vie della città alle 8 di mattina, con un freddo che congelava anche i pensieri.

A bordo restarono solo l’autista e il coccodrillo.  Che avreste fatto voi al posto del conducente? Avreste parcheggiato nel primo posto adatto e ve la sareste data a gambe? Probabilmente anch’io. L’autista invece era un tipo diligente, ci teneva al suo lavoro e voleva finire il turno,  perciò proseguì la corsa e per rompere il ghiaccio decise di fare due chiacchiere col suo bizzarro passeggero.

Venne fuori che il lucertolone  si chiamava Annibale e che era venuto dall’Africa  per andare a trovare uno zio molto ammalato ospite dello zoo cittadino. L’autista si commosse per tanta dedizione, trovò che in fondo quello era proprio un bravo coccodrillo e lo accompagnò fino all’ingresso dello zoo temendo che si potesse perdere, non essendo pratico del posto.

Annibale non finiva più di ringraziarlo, finì che lo invitò in Africa, disse che aveva un certo amico proprietario di una casetta nei pressi di un piccolo villaggio che lo avrebbe ospitato volentieri. Un tipo in gamba, disse.

Che tipo di amico fosse, se umano o animale, non lo specificò ma all’autista non parve poi così importante visto che aveva appena fatto amicizia con un coccodrillo.

lunedì 12 ottobre 2020

Il lIbro


I libri...non so voi ma per me la vita sarebbe molto più triste senza di loro.

Buona lettura.


C’era una volta un libro che non era mai stato scritto. Lui desiderava tanto che qualcuno lo scrivesse ma niente da fare, nessuno si decideva a farlo.

Un bel giorno il libro non scritto prese le sue cose, le mise in valigia e partì, alla ricerca di uno scrittore.

Varcò mari e monti, visitò città e paesi, continenti conosciuti e sconosciuti ai più: lo scrittore non si trovava.

Scoraggiato, si fermò accanto ad una fonte per dissetarsi, poiché aveva percorso chilometri e chilometri sotto il sole ed aveva molta sete.

Mentre beveva gli si avvicinò uno scoiattolo, anche lui molto assetato.

“Ehi, “ gli disse, “ cerca di far presto perché anch’io ho una gran sete.”

“Ecco fatto, bevi pure, amico mio. Per caso sei di queste parti?” chiese il libro asciugandosi le pagine bagnate.

“Sì, perché?”

“Conosci per caso qualche scrittore che possa scrivermi? Ho girato il mondo e non ne ho trovato nemmeno uno disposto a farlo.”

“Caro mio, non è facile. Comunque prima fammi bere e poi ci penso su un attimo”.

Lo scoiattolo bevve e bevve, sembrava non fermarsi più. Quando finalmente ebbe finito, si asciugò il muso e si mise a pensare se conosceva qualcuno che potesse avere voglia di scrivere quel povero libro così infelice.

Pensa e ripensa, gli venne in mente un tizio che da anni provava a fare lo scrittore senza alcun successo.

“Forse un nome ce l’ho. Qua vicino abita un certo Giovanni, un uomo molto triste perché vuole fare lo scrittore ma le sue storie non piacciono a nessuno. Sarà felice di scriverti, anche se poi non so chi ti leggerà.”

“Andrò da lui così saremo contenti in due, io perché qualcuno finalmente mi scriverà e lui perché potrà scrivermi”.

Lo scoiattolo disse al libro dove abitava Giovanni e se ne andò, augurandogli buona fortuna.

Di pagina in pagina il nostro amico libro arrivò a casa dello scrittore.

Toc, toc, toc! Bussò.

“Chi sarà mai a quest’ora? “Si chiese Giovanni aprendo timidamente la porta. “Toh, un libro. E tu che ci fai qui? Fammi vedere un po’ cosa dicono le tue pagine...uhm, ma sono tutte bianche!”

“Lo so, è per questo che sono qui. Sto cercando qualcuno che mi scriva. Tu sei uno scrittore, vero? Allora pensaci tu.”

“Volentieri, “rispose Giovanni facendolo entrare, “ma i miei libri non li vuole nessuno, farai una brutta fine. Ti lasceranno a muffire su uno scaffale dimenticandosi di te. Sei proprio sicuro di volere che ti scriva io?”

“Sicurissimo. Non ho trovato nessuno che volesse farlo, finora. Sono certo che  io e te insieme faremo un bel lavoro.”

“E come fai a saperlo? Così, a occhio? ”Comunque va bene, ti scriverò, visto che insisti, prima però fammi trovare l’ispirazione o qui non si fa nulla”.

Giovanni fece accomodare il libro in soggiorno, gli mise sotto una bella poltrona comoda per buona ospitalità e perché si vedeva che quel povero ammasso di fogli bianchi era stanco per il gran viaggiare (detto tra noi aveva le pagine tutte spiegazzate)  e poi si sdraiò sul divano che era proprio lì accanto.

“Non vorrai dormire proprio adesso!” si lamentò il libro vedendo che il suo scrittore chiudeva gli occhi.

“Ma no, non dormo, mi serve per  trovare l’ispirazione. Solo così arriva: chiudo gli occhi, mi rilasso e lascio che le idee affiorino alla mia mente come petali sulla superficie di uno stagno”.

Il libro non sembrava molto convinto, tuttavia conosceva gli scrittori e sapeva che avevano i loro metodi per ispirarsi, perciò non provò nemmeno ad insistere, si mise buono buono ad aspettare e già che c’era schiacciò anche un pisolino.

Quando lo scrittore aprì gli occhi era notte fonda.

“Uhm, ma sono le due di notte,” esclamò guardando l’orologio a pendolo appeso alla parete difronte, “ sarà meglio che vada a dormire, allora. Non temere, libro, mi sono venute delle bellissime idee. Prendo due appunti e poi vado a nanna, ti consiglio di fare altrettanto. Buonanotte, ci vediamo domattina”.

Giovanni prese un taccuino, buttò giù due righe e poi, sbadigliando a più non posso, salì al piano di sopra dove si trovava la sua camera da letto.

“Ecco qua, “ brontolò il libro che invece non aveva affatto sonno,” e adesso che faccio tutta la notte qui, da solo? Speravo che si mettesse a scrivere, gli scrittori spesso lo fanno, scrivono di notte perché c’è più silenzio intorno e si concentrano di più. Bah, non mi resta che sfogliarmi le pagine per passare il tempo, forse così prima o poi ci scappa anche un sonnellino”.

Per sua fortuna il sonno arrivò davvero, più o meno a pagina trecentoventitré.

Giovanni lo svegliò che erano le nove.

“Buongiorno. Su, dai: apri le pagine! Ho da scrivere per due libri come te.”

“Davvero?” Rispose il libro stropicciandosi la copertina.” Allora comincia subito, non vedo l’ora di essere scritto”.

Giacome si mise alla scrivania e cominciò a scrivere come un forsennato. Si alzò a mezzogiorno passato.

“Sembravi una furia scatenata,” fece il libro,” hai scritto davvero tanto: posso leggermi?”

“Non ancora. Quando avrò finito il capitolo. Nel frattempo mi preparo il pranzo. Tu vuoi qualcosa? Non so, un po’ d’inchiostro…”

“No, grazie. Finché non sarò scritto preferisco restare digiuno. Questione di etica.”

“Va bene, come vuoi. Io intanto pranzo”.

Fra un piatto di pasta e una frittata si fecero le due del pomeriggio.

Il libro fremeva.

“Non avrai mangiato troppo?” Chiese non appena il suo amico riprese a lavorare. ”Sai, con un pranzo impegnativo sullo stomaco poi viene sonno…”

“Oh, non a me. Io ho bisogno di energia per il mio cervello, stai tranquillo, so quel che faccio”.

E si rimise di buzzo buono a tirar fuori parole e frasi dalla penna.

Alle sette il primo capitolo era finito.

“Ora si tratta di correggere la bozza, “disse lo scrittore stiracchiandosi le braccia,” ma lo farò dopo cena”.

Tutte queste pause per mangiare preoccupavano il nostro libro, gli sembrava che il suo autore perdesse troppo tempo. Tuttavia non osava replicare perché temeva di nuocere alla sua ispirazione che fino a quel momento scorreva come un fiume in piena.

Da quel giorno in poi lo scrittore lavorò come un forsennato per un anno intero, fermandosi solo per mangiare un boccone e per dormire.

“Ecco, ci siamo. Adesso rivedo l’ultimo capitolo ed è fatta. Sei scritto” disse Giovanni al libro al quale tremavano le pagine per l’emozione.

“Davvero? Ora anch’io finalmente sono un libro scritto come gli altri, niente più pagine bianche?”

“Davvero. Guardati.”

Lo scrittore gli mise davanti uno specchio, e cominciò a sfogliargli le pagine una ad una.

“Oh, ma è meraviglioso!”

“Sei felice? Ora ti manca solo il titolo: che ne dici di Il lungo viaggio? A me pare giusto. Se anche per te va bene, non ci resta che andare da un editore. Speriamo che qualcuno ti voglia” sospirò l’uomo prendendolo sotto il braccio.

Si rivolsero a ben dieci editori in città, uno più famoso dell’altro ma nessuno di loro volle saperne di quel romanzo che giudicarono troppo bizzarro per avere successo.

“I soldi, “mormorò Giovanni tornando a casa, “molti editori pensano solo ai soldi. Ma non ti preoccupare: domani andremo nella città vicina e proveremo anche lì. Ci sono almeno venti case editrici importanti, una che ci prenda in considerazione ci dovrà pur essere”.

Il libro annuì piegando l’indice, aveva perso la fiducia ma non voleva scoraggiare il suo nuovo amico.

Il giorno dopo, ahimè stessa scena. Editori dispiaciuti, gentili o sgarbati che li facevano ricevere da segretarie distratte e altere per rispondere sempre la stessa cosa:” Non è di nostro interesse”.

C’era di che strapparsi pagine e capelli.

“Tenteremo ancora. Nella città di G. ce ne sono venticinque. Ci andremo domani”.

A G. purtroppo non andò affatto meglio.

“Mi dispiace davvero, la prima volta che ti scrivono e va così male!” esclamò Giovanni con le lacrime agli occhi.

Al libro venne anche il sospetto che Giovanni non fosse poi così capace di scrivere,  ma non ebbe il coraggio di dirglielo perché  sembrava crudele dopo tutto l’impegno che aveva messo in quell’impresa.

Si tenne per sé questi brutti pensieri e si chiuse nel suo mondo di carta.

Passarono altri giorni durante i quali libro e Giovanni sprofondarono nella malinconia più nera, nel più cupo scoramento, nella disperazione più assoluta, nella…insomma stavano maluccio.

Tanto era il dolore che una sera Giovanni disse al suo amico libro che voleva andar via.

“Ho deciso, parto. Vado nelle Indie e non torno più. Non so cosa farò ma di certo non scriverò più. Non posso portarti con me, il viaggio è troppo pericoloso. Ti lascerò ai giardini pubblici, qualcuno ti raccoglierà e magari ti leggerà, in fondo è per questo che sei nato. Vedrai, avrai una vita migliore di quella che può offrirti  uno scrittore fallito come me”.

Il libro provò a dissuaderlo, cominciò perfino a stracciarsi le pagine ma non ci fu nulla da fare, Giovanni era determinato: la sera dopo prese il libro e lo portò ai giardini dove lo lasciò, delicatamente deposto su una panchina.

Figuratevi il povero libro: che tristezza, che dolore per quell’abbandono! Non ce l’aveva con Giovanni, perché capiva che solo una grande desolazione lo aveva portato a quel gesto, anzi era in pensiero per lui, temeva che nello stato d’animo in cui si trovava gli potesse succedere qualcosa di brutto.

“Povero il mio autore, “pensava fra le righe, “e povero me. Chi mi prenderà? Speriamo che sia una persona che ama i libri per davvero e non uno sciupa- pagine che poi nemmeno mi legge”.

Eh sì, se per un libro non scritto la vita non è bella per uno scritto che nessuno legge è davvero triste.

Il rischio è di finire nel fondo di un magazzino fra gli invenduti oppure negli scaffali di una libreria fra i dimenticati o, peggio, in mezzo ai poveri libri comprati per riempire gli spazi vuoti nelle librerie di chi non legge.

Il lungo viaggio restò sulla panchina per una settimana intera. La notte si accartocciava tutto per l’umidità,  il giorno un sole ancora quasi estivo gli faceva sudare l’inchiostro. Una vita dura, quella del libro senza tetto e senza lettori.

Finalmente, dopo sette giorni e setti notti esposto a tutte le intemperie, quando ormai aveva perso la speranza, un uomo gli si avvicinò.

“Guarda guarda,“ disse prendendolo fra le mani, “un libro. Chissà chi ti ha dimenticato qui? Vediamo…non c’è il nome del proprietario, dunque come si fa a riportarti a casa tua? Pazienza. Vuol dire che verrai con me e se qualcuno ti reclamerà allora ti restituirò”.

Il libro non stava più nelle righe dalla gioia: un lettore si interessava a lui, un lettore lo prendeva e lo portava a casa!

L’uomo si infilò Il lungo viaggio nella tasca sinistra del cappotto e si avviò con l’aria di chi ha avuto un colpo di fortuna.

“Che bello, avrò una casa,” pensava il libro al caldo della tasca,” chissà cosa fa invece il mio povero amico Giovanni. Sarà già partito per le Indie? Sono così in pensiero per lui!”

Combattuto fra la gioia di avere trovato un lettore e l’ansia per il destino del suo amico, non si accorse nemmeno che erano già arrivati in quella che sarebbe diventata la sua nuova casa.

“Marisa, guarda cosa ho trovato ai giardini: un libro. Penso che ti piacerà, parla di un viaggio” disse l’uomo posandolo sul tavolo della cucina.

“Oh, Antonio dove pensi che lo trovi io il tempo di leggere? Dallo ai ragazzi, magari a loro interessa” brontolò una donnina indaffarata ai fornelli, senza degnare il libro di uno sguardo.

“Va bene, allora lo darò a loro”.

Il lungo viaggio  quel giorno passò molte volte da una stanza all’altra di quella grande casa prima di rendersi conto di essere finito nelle mani di non lettori.

“Ecco, ci siamo. Adesso mi lasceranno su uno scaffale, dimenticato. Oppure alla prossima fiera di beneficienza mi regaleranno a qualche volontaria a caccia di donazioni per essere poi pescato come un pesce da un fortunato vincitore al quale non importerà nulla di me perché magari puntava a un regalo diverso. Peggio di così sarebbe solo essere bruciato”.

Dopo un mese ad ammuffire su uno scaffale, pieno di polvere e senza essere mai nemmeno aperto, Il lungo viaggio finì nel robusto zaino di un volontario della parrocchia, venuto a cercare doni per la pesca di beneficienza di Natale.

Esposto accanto a giornaletti per bambini e fumetti per ogni età, il libro si sentiva fuori posto.

E poi faceva freddo. Sullo scaffale almeno stava al caldo. Ora sentiva i brividi attraversargli la carta da parte a parte, come una lama di ghiaccio.

“Che ne sarà di me?” pensava accartocciandosi per i brividi.

Una sera, Natale era vicino, alla bancarella dove era esposto si avvicinò una donna. Vestita di stracci, con l’aria smarrita, attratta dal titolo prese il libro e cominciò a sfogliarlo.

“Quanto costa?” chiese al ragazzo che stava dietro il banco.

“Oh, pochissimo. Tre euro. Quel libro lì non lo vuole nessuno.”

“Lo voglio io,” disse la donna,” però tre euro non li ho. Vanno bene due?”

“Ecco…ma sì, va bene. Vada per due euro”.

Umiliato per essere stato valutato così poco,  Il lungo viaggio si rallegrò di aver trovato almeno qualcuno che lo trovava degno di interesse.

La donna, che si chiamava Giorgia, se lo mise nella vecchia borsa delicatamente, come se fosse stato una reliquia.

Per lei il libro era più prezioso dell’oro, lo amava già, anche se non lo aveva ancora letto.

“I libri sono sempre stati i miei amici più fedeli” disse appena arrivata a casa posandolo sul camino spento.

Nei giorni seguenti Giorgia si dedicò alla lettura con passione, dopo due giorni era già all’ultimo capitolo.

“Bellissimo!” esclamò quando ebbe finito di leggerlo.

Dal canto suo il libro era al settimo cielo: dopo tanti che lo avevano ignorato, dimenticato, lasciato ora c’era qualcuno che non solo lo aveva letto da cima a fondo ma lo trovava bellissimo.

C’era di che inumidirsi le pagine per la commozione.

Giorgia era povera e sola, ma non era sempre andata così male la sua vita. Un tempo era stata una scrittrice, famosa e amata dai suoi lettori. Poi l’ispirazione l’aveva abbandonata, o forse era lei che aveva abbandonato l’ispirazione, vai a sapere. Da quel momento aveva smesso di scrivere, poiché non sapeva fare altro viveva di elemosina e di piccoli lavori domestici che le commissionavano i vicini, come annaffiare il giardino o portare a spasso il cane.

Facevano proprio una bella coppia, quei due. Un libro che nessuno aveva voluto, nemmeno il suo autore, e una scrittrice dimenticata da tutti.

Due così non potevano che stare insieme.

Da quel giorno in poi Giorgia e il libro furono inseparabili, lei lo lesse e rilesse più volte. Non capiva come avessero potuto abbandonare un simile capolavoro, diceva:” Se solo lo avessi scritto io un romanzo così!” e sospirava, sospirava.

Poiché non sapeva rassegnarsi all’idea che fosse stato ignorato da tutti, la donna, dopo molte indecisioni risolse di andare dal suo vecchio editore.

Non lo vedeva da anni ma trovò ugualmente il coraggio di presentarsi a lui, un pomeriggio.

 Aveva con sé il libro.

“Che sorpresa;” disse lui vedendola,” vieni a dirmi che hai avuto un’idea per un romanzo?”

“No, vengo a parlarti di un’opera che non ho scritto io. Ecco, questo libro l’ho trovato ai giardini, abbandonato come fosse cartaccia, e invece è un capolavoro. Leggilo, e dimmi se sbaglio”.

Mise Il Lungo viaggio sulla scrivania e se ne andò, senza aggiungere altro.

Passarono quindici giorni, Giorgia continuava la vita di sempre, fra stenti e nostalgia del passato.

Una mattina Cino, il tuttofare che il suo vecchio editore sguinzagliava in giro per varie commissioni, bussò alla sua porta.

“Giorgia, finalmente! Il capo ti cerca da giorni: ma non hai più il telefono?” chiese, trafelato.

“E che me ne farei? Nessuno mi cerca. Che vuole da me il tuo capo?”

“Vuole parlarti del libro, devi venire il più presto possibile da lui, ti riceve anche senza appuntamento.”

“Del libro?” Per un attimo gli occhi di Giorgia si illuminarono.” Certo, vengo subito”.

L’editore l’accolse a braccia aperte. Il lungo viaggio gli piaceva, ne era entusiasta. Volle conoscerne l’autore.

Non fu facile rintracciare Giovanni, perso nelle Indie a cercar fortuna, ma dato che anche da quelle parti il passaparola serve a qualcosa, presto gli giunse notizia che un editore importante lo stava cercando. Si mise subito in viaggio, e fece la sua fortuna.

Da allora ne fece di strada il nostro libro!

Le copie non facevano in tempo ad uscire che erano già esaurite. Un successo clamoroso.

Inutile dire che il libro era felicissimo, anche per tutte le copie sorelle che andavano a ruba.

Tutti erano felici. Anche Giorgia, che non ci aveva guadagnato niente, né fama né soldi.

Tuttavia anche per lei i giorni cupi sembravano sul punto di finire. In qualche modo Il lungo viaggio l’aveva aiutata a riprendere contatti col suo mondo, e con la sua ispirazione che sembrava esaurita, ma soprattutto le aveva ridato la cosa più importante: la voglia di scrivere.

A poco a poco le idee cominciarono a fluirle nella mente, scrisse un bellissimo racconto e poi altri ancora, fino a farne una raccolta che l’editore fu felice di pubblicare.

Insomma, amici miei, libro e scrittori ebbero il loro bel momento che a quanto pare dura ancora oggi.

Una storia a lieto fine…ma che dico? Una storia senza fine. La storia dell’ispirazione, della fantasia e di un libro coraggioso che qualche sciocco voleva buttar via.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

sabato 19 settembre 2020

Il gatto che miagolava ai cavalli


 Eh sì, di condottieri la storia ne ha visti tanti ma di uno così non parlano i libri di scuola.

Buona lettura



Il gatto che miagolava ai cavalli

 Barbara Cerrone

 

 

Callisto viveva con i cavalli da quando era nato.  Un bel gatto dal pelo lungo e lucido che passava le sue giornate accoccolato sull'erba fresca del prato sotto lo sguardo vigile di Vento, il puledro che aveva scelto come amico del cuore.

Il maneggio era tutto il suo orizzonte, non conosceva altro posto e non gli importava di vederne un altro: lì c’erano i cavalli, c’era Sergio che li curava e tanti bambini che venivano a  lezione di equitazione riempiendolo ogni volta di coccole e deliziosi bocconcini.

Non gli mancava nulla per essere felice, e infatti lo era. Moltissimo.

Tanto felice che quando successe quel brutto fatto non riusciva a crederci.

“Sfrattati,” piagnucolò Sergio,” e ora? Che faccio, ora? Dove li porto i miei cavalli?”

Il fatto è che il terreno dove si trovava il maneggio non era suo ma del cavalier Garanti, un uomo molto indaffarato che non si faceva vedere quasi mai nella sua proprietà, tranne quando c’era qualche problema.

“Il terreno è stato venduto all'asta,” disse una mattina piombando all'improvviso come un temporale,” mi dispiace, non avete scelta, dovete andarvene.”

Sergio credeva di aver capito male, ma quello insisteva:” Dovete andarvene, mi dispiace, presto arriveranno le ruspe: il nuovo proprietario vuole costruire un supermercato proprio qui.”

“Poteva avvisarmi prima, invece di mettermi davanti al fatto compiuto” provò a lamentarsi Sergio, ma quello gli oppose una faccia da schiaffi, un frettoloso Me ne è mancato il coraggio detto a fil di voce e se ne andò, senza nemmeno salutare.

“Sono rovinato, “dove lo trovo ora un altro terreno adatto? Garanti è sempre sulle nuvole, pensa solo ai suoi affari ma non è esoso, l’affitto è ragionevole, nessuno mi farà un prezzo simile e io non posso pagare di più. Questi poveri animali che fine faranno? Dovrò venderli”.

Sergio aveva le lacrime agli occhi, Callisto cercò di consolarlo come poteva, si strofinò alle sue gambe, fece mille fusa ma niente, non funzionava. Il suo amico era disperato.

Un gatto in gamba come Callisto ha mille risorse, tuttavia risolvere un problema come quello non era cosa da poco. Se un umano non sapeva che pesci prendere che cosa avrebbe potuto fare un micio? In un mondo di uomini avidi e distratti, un gatto non aveva alcuna chance.

In un mondo di uomini.

“I cavalli mi aiuteranno” pensò il gatto lavandosi la zampina dopo la pappa.

Vento stava dormendo quando Callisto gli si avvicinò.

“Ehi, ragazzo, sveglia!” disse il micio aggrappandosi alle sue zampe.

“Che succede? Stavo riposando. Piano con quelle unghie, mica ho le zampe di legno.”

“Lascia stare le zampe e ascolta. Siamo nei guai. Hai sentito cosa ha detto Garanti? Ci sfrattano tutti. Si va via dal maneggio. E chissà, magari qualcuno di voi finisce pure al mattatoio.”

“Che dici? Non ci credo!”

“Purtroppo è vero. Sergio è distrutto. Non ha soldi per pagare un affitto alto, se andiamo via da qui sarà costretto a lasciare l’attività e noi perderemo la nostra casa. Quanto a voi cavalli, sarà costretto a vendervi.”

“Ma sei sicuro, gatto?” chiese Vento soffiando forte dal naso.

“Sicuro come sono sicuro che esisti. Dobbiamo fare qualcosa.”

“Tipo?”

“Tipo ribellarci, ecco. Una rivolta di cavalli e…un gatto” concluse fieramente Callisto.

“Io dico che sei matto,” fece il puledro scuotendo la criniera,” comunque dimmi, sono curioso di sapere come dovremmo farla, questa rivolta.”

“I dettagli del piano non sono ancora perfezionati,” rispose Callisto,” ma lo saranno presto. Tu tieniti pronto e avvisa gli altri. Che si preparino anche loro, la lotta sarà senza quartiere”.

Detto ciò, Callisto si allontanò con l’aria di chi ha mille pensieri nella testa.

Si spremeva le meningi per mettere a punto la strategia d’attacco con meticolosa attenzione perché non potevano fallire o sarebbe stata la fine.

Risolse di fare un pisolino per riflettere meglio, si accoccolò sotto il pergolato e cominciò a sognare così forte che a momenti si svegliava per il rumore che facevano i suoi sogni.

Al risveglio aveva già chiaro in mente il da farsi. Chiamò a raccolta Vento e gli altri cavalli per una riunione operativa e cominciò a illustrare il piano, miagolando così:

“Miei cari amici, Vento vi avrà già detto che il momento è grave, bisogna agire. L’unica possibilità che abbiamo per salvare noi stessi e il nostro amico Sergio è impedire agli uomini che verranno per costruire il supermercato di entrare. Insieme possiamo farcela.”

“D’accordo, “fece un cavallo anziano che aveva nome Girolamo, “nessuno più di me ha interesse a mandar via quella gente, come anziano rischio un futuro da bistecca nel piatto di qualcuno! Il fatto è che Sergio non aspetterà che arrivino quegli uomini, ci venderà prima. Ci avevi pensato?”

“Certo che ci avevo già pensato. Sergio si sta già interessando per la vendita, ma noi sapremo respingere chiunque venga qui con l’intenzione di comprarvi, perché verranno a vedervi, a valutare e noi li spaventeremo a morte. Io guiderò l’attacco: al mio miao comincerete a nitrire tutti insieme e alzerete le zampe anteriori, in segno di minaccia. Li faremo fuggire tutti, vedrete. E lo stesso si farà quando si presenteranno per fare i lavori e mandarci via” concluse Callisto gonfiandosi tutto per la soddisfazione.

Il suo gli sembrava davvero un bellissimo piano.

Messi a punto gli ultimi dettagli il consiglio equino-felino si sciolse, Callisto tornò a dormire sotto lo sguardo vigile di Vento e gli altri cavalli si rimisero a mangiucchiare, tanto per tenere le mascelle in esercizio.

Il giorno tanto temuto arrivò prima del previsto.  A dire il vero Callisto aveva percepito una certa tensione nella voce del suo amico umano che gli fece intuire l’approssimarsi di quel triste appuntamento.

Sergio non era affatto felice di vendere, è che si era trovato con le spalle al muro, senza sapere dove sbattere la testa.

“Callisto, tra non molto ci dovremo trasferire,” disse Sergio, “noi due soli, però, i cavalli …oh, lasciamo stare!”

Quello stesso giorno arrivarono i primi potenziali acquirenti.

Uno era alto e magro, con i capelli a spazzola, l’altro piuttosto grassoccio e basso di statura. Insieme formavano una buffa coppia, ma Callisto non si mise certo a ridere.

Fece un Miao d’intesa rivolto ai cavalli che voleva dire: ”Tenetevi pronti!” e aspettò il momento giusto.

Quando la bizzarra coppia, accompagnata da un tristissimo Sergio, si mise a gironzolare nel maneggio guardando i cavalli come merce in esposizione, il micio diede finalmente il segnale.

“Miaooo!” gridò e subito i suoi compagni equini si drizzarono sulle zampe posteriori cominciando a nitrire furiosamente. Ogni volta che quei due si avvicinavano ecco che uno dei cavalli faceva la mossa di tirargli un calcio.

Sergio non riusciva a trattenerli.

“Ma non aveva detto che erano mansueti?” chiese il tipo grassoccio scappando verso la casa di Sergio.

“Non capisco, di solito sono dolcissimi. Nel maneggio vengono i bambini a far lezione di equitazione, non hanno mai dato problemi.”

“Ora ne danno, invece,” brontolò il magro scappando anche lui,” quindi temo proprio che l’affare non si farà, signor mio. Lei non è stato onesto con noi, voleva affibbiarci dei cavalli aggressivi“.

Povero Sergio! Ebbe un bel da fare a spiegare, giustificarsi: nulla. I due se ne andarono furiosi e la vendita sfumò.

Molti altri ne vennero e a tutti Callisto e i suoi riservarono lo stesso trattamento.

“Cavalli miei, ma che vi è preso?” Chiese un giorno Sergio.” Ora siamo in una situazione ancora più brutta. Verranno i nuovi proprietari e ci troveranno ancora qui. Che faremo? Io non lo so, davvero.  Se vi avessi venduti, almeno avreste trovato nuovi padroni e nuovi posti dove vivere ma ora…posso solo provare a cercare qualcuno che sia disposto a tenervi almeno per un po’, un altro maneggio, magari. Ma ci vogliono soldi e io sono al verde”.

Callisto lo ascoltava, dispiaciuto, non poteva dirgli che doveva stare tranquillo, erano preparati al secondo assalto e tutto sarebbe andato bene.

I cavalli invece erano tesi, temevano i signori che si sarebbero presentati con le ruspe per spianare il terreno.

“Quelli chiameranno la forza pubblica, “diceva Alonso, un bel purosangue dal carattere impulsivo,” non si lasceranno intimidire da qualche nitrito”.

Callisto non replicò, aveva fiducia nel suo piano, e poi che altro avrebbero potuto fare?

Gli uomini delle ruspe arrivarono un lunedì, di buon’ora.

Callisto diede il segnale appena li vide in lontananza. Il povero Sergio si fece loro incontro per fermarli, per dire che non era riuscito a vendere i suoi cavalli e chiedere un altro po’ di tempo per trovare un nuovo posto dove farli vivere.

La trattativa si prolungò per una buona mezz'ora, Callisto fremeva per dare l’ordine ma prima voleva vedere se Sergio riusciva a convincerli.

Ad un certo punto arrivò anche un grassone, con una pancia che sembrava dovesse scoppiare ad ogni passo.

Si mise anche lui a discutere con Sergio, sembravano agitati tutti e tre, finché le ruspe si mossero verso il maneggio e Callisto capì che era andata male.

Sergio stava chiamando un suo amico perché venisse a prendere in custodia i cavalli almeno il tempo necessario per tamponare quell'emergenza, quando Callisto, con la veemenza di un vero capo, lanciò il Miao di attacco.

Scoppiò il solito finimondo, solo che questa volta i cavalli si erano slegati e si slanciarono come furie contro gli operai e il grassone che, terrorizzati, fuggirono a gambe levate.

“Torneranno con gli agenti, “sentenziò Alonso,” dobbiamo essere pronti al peggio. Ci spareranno siringhe piene di sonnifero e ciao.”

“Resisteremo, “insisté Callisto, “dobbiamo farcela. C’è troppo in gioco”.

“Come vuoi resistere al sonnifero? Io non bevo caffè!” nitrì Guendalina, una puledrina piuttosto vivace.

“Con la forza di chi non ha scelta” rispose Callisto, ma sapeva che la speranza era davvero poca.

Come previsto, il giorno seguente i nuovi proprietari non si presentarono da soli.

Callisto fece appena in tempo a dare l’allarme.  I cavalli erano nervosi, temevano di essere narcotizzati e mordevano le briglie. Il gatto, tenace e coraggioso, li apostrofò così:

“Ragazzi, è qui tutto il vostro coraggio? Siete cavalli o ronzini? Io vi dico che dovete tenere duro, dovete resistere. Nessuno si prenderà il nostro maneggio, a costo di finire tutti in gattabuia. Forsa, su le zampe e mi raccomando: se vedete volare una siringa schivatela. Siete agili e forti, potete farcela”.

I cavalli si guardarono perplessi, schivare una siringa carica di sonnifero? Come pensava che potessero riuscirci? Tuttavia non era proprio il caso di tentare la fuga, ne andava del loro orgoglio equino, e poi non era possibile, tutte le vie erano bloccate. Bisognava affrontare il pericolo a muso aperto.

Al solito Miaooo di attacco le zampe si alzarono minacciose, roteando nell'aria come mulinelli. Gli uomini con le siringhe cominciarono a sparare i loro missili puntuti, ma incredibilmente nemmeno una di quelle armi soporifere riuscì a colpire l’obiettivo.

“Accidenti, come fanno ad evitarle? Una cosa del genere non mi era mai successa!” gridò uno di quei tipi, allibito.

“Qui c’è di mezzo una stregoneria, o che so io. Sono stregati, ecco” disse il suo compare preparandosi alla fuga.

“Ma che dici? Piantala con queste sciocchezze! Li avrà addestrati il padrone. Vieni, andiamocene. Bisogna farsi venire un’altra idea, e sarà meglio che funzioni o non ci pagheranno.”

“E io ti dico che è roba di magia” insisteva l’altro.

“Si tratta di addestramento, e ora basta, andiamo via”.

“E quel gatto? Hai visto che roba? Un vero condottiero!”

“Che condottiero e condottiero, è un gatto. Miagolava, ecco tutto. Lo fanno, sai, i gatti. Miagolano.”

“Dava l’attacco, ecco cosa faceva. Era un miao di attacco. Si sentiva, solo tu non te ne sei accorto. E mi vieni a dire che non c’è di mezzo la stregoneria? Sennò come ci diventa condottiero un gatto?”

“Se dici un’altra di queste scemenze ti porto in ospedale, reparto psichiatria. Basta, andiamo via. Dobbiamo studiare un nuovo piano. Gatto condottiero, figurati!”

Continuarono a litigare così fino a casa, mentre in maneggio si festeggiava la vittoria.

Sergio era il più sconvolto e incredulo di tutti loro, non si capacitava del coraggio, della destrezza e dell’astuzia che i suoi cavalli avevano dimostrato in quella occasione. Era semplicemente stupefatto.

“Forse mi avete messo nei guai più di quanto non lo fossi già, ma vi voglio bene. Siete stati incredibili” disse accarezzandoli uno ad uno. Poi si rivolse a Callisto.

“Amico mio, tu mi hai stupito più di tutti. Non ti avrei mai creduto capace di guidare un esercito di cavalli. Dal profondo del cuore grazie, non lo dimenticherò. Ma, amici, quella gente tornerà. Questa terra gli appartiene, adesso, hanno il diritto di prendersela”.

Per un attimo la gioia per la vittoria si spense negli occhi liquidi dei cavalli, ma non in quelli obliqui di Callisto.

“Ho un’idea,” sussurrò a Vento, “forse c’è un modo.”

“Quale?” nitrì Vento.

“Vedrai. Domani ci penso io”.

La mattina dopo Callisto si mise in cammino diretto in città. L’aria era fresca e dolce, sembrava proprio una bella giornata.

Il micio  entrò nella sede del giornale “Freschenotizie” che erano circa le dieci.

“C’è il capo?” miagolò entrando.

“Toh, guarda che bel micio, vieni, fatti accarezzare” disse uno dei redattori che non aveva capito un bel nulla di ciò che aveva miagolato Callisto.

“Ehi, non sono qui per le coccole!” protestò il gatto alzando una zampa mentre il tipo gli faceva un grattino sulla testa.

“Micio, sei poco socievole,” fece il redattore,” chissà come mai sei entrato. Vuoi mangiare? Ecco, questa è la mia colazione, posso dartene un pezzetto”.

Prese un cartoccio dal cassetto della scrivania e ne trasse un panino col salame, ne staccò un bel pezzo che porse a Callisto.

“Miao, accidenti, non voglio il tuo panino! Come faccio a farti capire? Forse ho un’idea”.

Callisto cominciò a miagolare così forte che tutti i giornalisti presenti di tapparono le orecchie, poi si avvicinò a quello che gli aveva offerto il panino e gli afferrò una manica con la bocca, facendo come se lo volesse trascinare via.

“Certo che questo gatto è proprio strano, “disse quello, “sembra  che voglia portarmi da qualche parte. Ragazzi, sapete che vi dico? Io lo seguo, non si sa mai. Ci vediamo tra poco”.

L’uomo, sempre più incuriosito, vedendo che il felino si stava dirigendo in una direzione precisa, seguì docilmente Callisto.

Quando giunsero al maneggio Sergio stava cercando disperatamente il suo gatto,  vedendolo arrivare in compagnia pensò che si fosse perso e l’uomo che era con lui lo avesse riportato a casa.

“Oh, grazie!” Esclamò andandogli incontro.” Chissà come ha fatto questo birbone a perdersi? Conosce  benissimo la zona, Comunque sia tutto è finito bene. Per merito suo, signor…”

“Omero Annusi, reporter. Il suo gatto non si è perso, direi  piuttosto che è venuto a cercarmi.”

“Reporter? A cercarla? Forse ho capito. Questo non è un gatto, è un fenomeno!” disse Sergio, e si mise a raccontare tutta la storia dello sfratto al giornalista.

“Capito?” fece alla fine.” Credo che il mio gatto sia venuto da lei per questo. Non è straordinario?”

Il giornalista annuì, aveva preso nota di tutto. Telefonò ad un suo collega perché portasse la macchina fotografica, “Qui c’è un servizio da fare, roba da prima pagina” gli disse.

 Scattarono foto in ogni angolo, a tutti i cavalli. Ma il più fotografato fu lui, Callisto, che non stava più nella pelo per l'orgoglio.

Il giorno dopo usciva un articolo bomba su “Freschenotizie”.

Prima pagina.

In città non si parlò d’altro per giorni e giorni, l’eco di questi fatti giunse fino alle orecchie del sindaco.

I nuovi proprietari, intanto, imbarazzati da una pubblicità non richiesta, e bersagliati da telefonate di adulti e bambini che chiedevano di lasciare il maneggio ai cavalli, furono ben felici di accettare quando il sindaco in persona li chiamò per dire che quel terreno voleva comprarlo il comune perché il maneggio potesse continuare la sua attività.

Un mese dopo tutte le ansie di Sergio e dei suoi cavalli erano solo un brutto ricordo.

Callisto e i suoi amici continuarono la loro vita tranquilla nel maneggio che dopo l’articolo del giornale fu quasi preso d’assalto: tutti volevano conoscere i famosi cavalli che schivavano anche le siringhe col sonnifero, ma soprattutto desideravano vedere lui, Callisto.

I social si scatenarono, ben presto il gatto condottiero diventò famoso in tutto il mondo. Le sue foto fecero il giro del globo terrestre in un colpo di mouse.

Ancora oggi è una celebrità, anzi, se capitate da quelle parti e volete andare a trovarlo non avete che da chiedere del gatto che miagolava ai cavalli.

Chiunque vi saprà dire dove sta.