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giovedì 5 giugno 2025

Il buon Guglielmo e il paese in volo

 A volte il vento si arrabbia e allora combina guai inaspettati..


Il buon Guglielmo e il paese in volo

Barbara Cerrone

 

Il vento era stanco, soffiava da una settimana per pulire l’aria, in città la gente non si rendeva conto di quanto fosse utile e si lamentava in continuazione: “Mamma mia che ventaccio” e “Quando la smette di soffiare”, dicevano. Un’ingratitudine che a volerla pesare sarebbe stata di almeno un chilo, un chilo e tre.

Certe cose fanno male all’umore, il vento infatti era infuriato, quella mattina.

Tanto per cominciare aveva litigato con le nuvole che volevano piovere a tutti i costi.

“Siamo cariche d’acqua, troppo peso, non ce la facciamo più” si lamentavano quelle, e lui a pregarle di avere pazienza, doveva soffiare ancora due giorni e poi si sarebbe calmato, ma loro niente, sempre più inviperite. Volarono parole grosse, e quando le parole volano non sempre vanno dove devono andare, a volte cadono nelle orecchie sbagliate e allora sì che si crea confusione! La cosa magari finisce sui giornali e si diffonde a macchia d’olio, si ingigantisce come una patacca sul vestito e non si ferma finché qualcuno, magari il sindaco o l’assessore alle parole, dice “Basta!” abbastanza forte perché tutti lo sentano e facciano silenzio, finalmente.

Quel giorno lì era proprio uno di quelli in cui la confusione gira come una trottola fra le persone, e si incaglia esattamente dove non dovrebbe.

Anche per questo il vento era nervoso, quando è così poi fa il broncio e comincia a soffiare più forte.

Soffiando forte pulisce l’aria meglio di un’aspirapolvere, ma quella volta ha proprio esagerato.

Ha cominciato scuotendo un po' le cime degli alberi e i panni stesi alle finestre, all’inizio nessuno ci ha fatto caso, la gente, sapete, è distratta da mille pensieri e non bada all’aria che si muove o alle chiome degli alberi che danzano. Solo quando il movimento d’aria cominciò a crescere e a crescere attirò l’attenzione dei passanti, perfino dei sognatori che, si sa, hanno sempre la testa fra le nuvole e non sanno neppure di che colore hanno le scarpe.

Ad un certo punto quel vento pazzo diventò simile a un tifone e soffiando trascinò tutto con sé, alberi, case e anche le persone. A decine furono portati via verso paesi sconosciuti, senza poter avvertire la famiglia che forse avrebbero fatto tardi per il pranzo.

All’inizio, si capisce, fra la gente c’era una gran paura, specialmente fra chi soffriva di vertigini e a guardar giù aveva il capogiro.

Il vento, agitato, non cessava di brontolare e sbatacchiare tutti di qua e di là. Soffiava così forte che ad un certo punto sollevò anche i pensieri, ma di questo nessuno si lamentò.

 La gente pareva non avere più peso, i più felici erano i bambini e le signore grasse che non erano abituate a quella sensazione.  

“Visto, Giannina, come volo?” diceva una. “Altro che cicciona, una libellula, mi sento! Se fossi grassa come dice la mia amica Wanda, il vento di certo non potrebbe sollevarmi.”

E un’altra, di rimando:” Ma certo, l’ho sempre detto, è tutta invidia”.

Dopo un po' tutti, passata la paura del momento, cominciarono a divertirsi.

C’era chi, volando così senza avere niente da fare, ne approfittava per leggere il giornale, altri, sorpresi dal vento mentre giocavano a briscola con gli amici al bar, avevano ancora le carte in mano e continuavano a giocare come se niente fosse. Molti simpatizzarono col vicino di volo, nacquero amicizie e qualcuno si fidanzò, perfino. Non mancarono i litigi, ma durarono poco perché il paesaggio sotto di loro era così bello che addolciva anche gli animi più duri.  Visti da terra, sembravano tanti moscerini e volavano, volavano nel cielo azzurro di marzo.

Solo verso mezzogiorno ci fu qualche segno di impazienza: va bene scherzare, ma lo stomaco brontolava per la fame, lassù in alto neppure un chiosco per prendere un panino!

Anche il buon Guglielmo subì la stessa sorte dei suoi concittadini, fu sollevato come una foglia e trascinato via lontano, così lontano che non sapeva più dove fosse.

Sotto di lui scorrevano paesi e fiumi che non conosceva, gli sarebbe piaciuto vederli da vicino, ma il vento non badava alle proteste di chi gli chiedeva di rallentare.

 “Il tempo di una foto” diceva uno.

 “Un paio di minuti per un video… così lo mando a mia cugina”, pregava un altro con le lacrime agli occhi.

Niente da fare, il mattacchione continuava la sua corsa, ci mancò poco che non sollevasse il mondo intero, se non fosse stato per il buon Guglielmo a quest’ora anch’io sarei su Marte o chissà dove, sperduta tra le galassie insieme al nostro pianeta.

Il buon Guglielmo è detto così proprio perché è buono per davvero, gentile e generoso, mai dispettoso e sempre sincero. Insomma, una perla d’uomo, e dire perla è fargli un torto perché uno così è più prezioso di qualunque perla.

Di lavoro fa il risolvi problemi, ne risolve di ogni tipo, tutti lo cercano perché è davvero un grande esperto di guai e preoccupazioni. C’è chi dice che dovrebbe essere inviato sempre lui dove c’è una guerra, visto che è bravo anche a rappacificare le persone.

Va avanti e indietro per la città da mattina a sera con la sua bici e il cane, Gemma, che corre al suo fianco. Gemma non ha una razza, ha solo un cuore grande e tanto pelo, era con lui anche quella volta e lo seguiva mentre pedalava lassù in alto, perché il ventaccio aveva sollevato Guglielmo con tutta la bicicletta.

In molti casi il buon Guglielmo aveva dimostrato il suo valore, tanto che si dice fosse stato chiamato, molti anni prima, a fare da pacere in un conflitto così lontano che più lontano si va dritti in cielo. Lui ci riuscì, a metter tutti d’accordo, e fu insignito della nobile medaglia al valor pacificatore.

Anche col vento fu eccezionale.

Si era fatto tardi, le persone ormai non si divertivano più a svolazzare come aquiloni, volevano ritornare a casa, e poi c’era una certa preoccupazione: se il vento fosse cessato all’improvviso? Sarebbero caduti tutti giù come sassi in un posto che non conoscevano. Bisognava fare in modo che Scirocco tornasse indietro e non facesse mosse brusche. Il problema era farlo ragionare.

“C’è una sola persona fra noi che può farlo,” disse un omino col cappello di traverso,” il buon Guglielmo. Se non ci riesce lui, nessuno ci riuscirà.”

In quel momento tutti si voltarono verso Guglielmo, lui, come sempre, sorrise e fece segno di sì con la testa, mentre il suo cuore iniziò a battere così forte che si vedeva andar su e giù sotto la sua giacca.

“Ci penso io, “assicurò,” ho già in mente un’idea. Credo che Scirocco sia solo un po' stressato, lavora tanto in questa stagione per ripulire il cielo, basta un nonnulla per farlo scattare. Lo convincerò a fare una pausa. Bisogna sapere che c’è una vallata verde subito dopo la città, dove crescono fiori e volano farfalle colorate. In quella valle pacifica l’aria è serena, è proprio là che vanno a riposare i venti per riprendersi dalla fatica di soffiare. Fanno due chiacchiere, si rilassano su quell’erba verde e poi tornano a casa come rinati. Sono sicuro che anche il nostro venticello vorrà passarci qualche giorno.”

“Sì, sì, viva Guglielmo!” gridarono tutti in coro, e Guglielmo ringraziò con un bell’inchino.

A questo punto bisognava passare dalle parole ai fatti, così Guglielmo si schiarì la voce, fece un respiro profondo e chiamò Scirocco.

“Scirocco, ehi, ascoltami. Ti devo parlare”.

E Scirocco niente.

“Scirocco, per favore, solo un momento. Si tratta di una cosa importante.”

Niente da fare, non rispondeva.

“Te la dirò lo stesso, e se non rispondi te la ripeterò finché non mi dirai cosa ne pensi”.

Il buon Guglielmo, allora, parlò a Scirocco della vallata verde dove i venti stanchi vanno a riposare. Usò le parole più dolci per dirgli che anche lui doveva essere stressato, con tutto il lavoro che aveva da fare, e che una pausa nella vallata di sicuro gli avrebbe fatto bene.

“Per esempio, vedi, “continuò,” oggi hai fatto tutti questi chilometri soffiando a più non posso e ora immagino che sarai stanco, vero? Noi ti ringraziamo per questa bella gita, ma ora perché non fai marcia indietro, ci riporti a casa e ti vai a riposare nella vallata? Ne hai bisogno”.

Parole gentili, affettuose: il buon Guglielmo sapeva come convincere i testoni come Scirocco.

Il vento non rispose subito, ma si vedeva che ci stava pensando perché a tratti rallentava e poi riprendeva a soffiare ancora più forte.

Alla fine, dopo aver tanto riflettuto, Scirocco buttò fuori le parole dalla sua bocca d’aria.

“Buon Guglielmo, so che sei una brava persona e non inganni il prossimo.  Hai ragione, sono stanco, quindi ho deciso: soffio ancora un pochino, mi sfogo bene bene e poi magari seguo il tuo consiglio, torno indietro e vi riporto tutti a casa. Ho sentito parlare di questa vallata, non ci sono mai stato perché pensavo fosse un posto per venti sfaccendati, ma tu mi hai convinto. Ci andrò, te lo prometto”.

Scirocco fu vento di parola, soffiò ancora per mezz’ora e poi fece marcia indietro.

La gente, quando si accorse che stava invertendo la rotta, lanciò un urlo di gioia che squarciò le nuvole, grossi goccioloni di pioggia scesero sugli umani volanti bagnandoli da capo a piedi, tuttavia nessuno se ne lamentò. Pur di andare a casa, non gli importava di essere bagnati.

Canti e grida proseguirono fino all’arrivo in città, dove Scirocco rallentò, con delicatezza depose alberi, persone e case sulla terra e poi se ne andò, come aveva promesso.

L’unico problema, all’inizio, fu rimettere a posto le case e gli alberi, il vento aveva lasciato tutto un po' così, a caso, del resto non si poteva pretendere che si ricordasse dove abitavano il farmacista o il macellaio, né dove stavano prima gli alberi che aveva portato via. Ci volle del bello e del buono per rimettere ordine, alla fine tutto tornò come prima, compresa la piccola casa di Guglielmo, col suo bel giardino fiorito e il camino fumante.

Al momento della furia ventosa, la nonna Gina gli stava preparando le lasagne, erano rimaste sul tavolo, bisognava solo infornarle.

In tutte le case della città ormai si pensava solo a gustare un buon pranzetto, e già si spandeva nell’aria un profumino da leccarsi i baffi. Non c’era che da mettersi il tovagliolo intorno al collo.

A questo punto, è chiaro, la storia è bella che finita. Lasciamo i nostri amici seduti a tavola, davanti a un piatto di pasta ben condito, a noi non resta che filar via in silenzio e augurare a tutti:

buon appetito!

lunedì 23 agosto 2021

Il paese smemorato

 

Perdere la memoria di ciò che siamo ed eravamo: un grande guaio, parola di "smemorini".

Buona lettura.




Il paese smemorato

 Barbara Cerrone



C’era, tanto tempo fa, un paese che aveva perso la memoria e proprio per questo lo avevano soprannominato “Il paese smemorato”.

I suoi abitanti, detti “smemorini”, erano anch’essi vittima di una certa confusione: c’era chi, tra loro, pensava di essere cittadino e dipingeva la facciata di casa come i palazzi di città, si dava arie da cosmopolita e non parlava con i compaesani. Altri invece, sapevano di essere in paese ma non ricordavano in quale, e passavano il tempo a chiedere e cercare di scoprire il nome del villaggio dov’erano nati e cresciuti.

Tanta era la confusione che ad un certo punto quel povero villaggio fu come diviso in due: da una parte palazzi che volevano essere eleganti, dall’altra case modeste con le persiane e le facciate un po’ scrostate.

Una situazione, si può ben capire, piuttosto complicata e di non facile soluzione perché in quel povero paese non c’era più nessuno, ormai, con la testa a posto. Nemmeno il sindaco, nemmeno gli assessori.

L’eco di questi avvenimenti non mancò di giungere fino al palazzo del re, Tebaldo Primo, detto “Il conquistato” perché ogni volta che muoveva guerra al nemico non solo la perdeva ma veniva puntualmente fatto prigioniero. Tebaldo poveretto, era molto giovane e inesperto nella difficile arte di governare, figuriamoci poi se si trattava di rimettere giudizio nelle arruffate teste degli “smemorini”.

“Che si fa, che si fa con quegli sciagurati?’” Chiese un giorno al primo consigliere.

Il primo consigliere, ahimè, di solito non era di grande aiuto e di consigli non ne sapeva dare perché dormiva come un tasso da mattina a sera, e pochi erano i momenti in cui apriva gli occhi .

Non trovando nella persona più indicata il consiglio che tanto gli premeva, Tebaldo  di solito si rivolgeva alla matrigna, Usberta di Norandia, donna acidina e piuttosto sciocca la quale di pareri ne dava eccome, ma sempre assolutamente sbagliati.

E anche quella volta non fu da meno della sua fama catastrofica. Tebaldo la interrogò e lei rispose da par suo.

“Muovigli guerra,” disse,” che altro può fare altrimenti un giovane re per svegliare un manipolo di sudditi rimbambiti? Muovigli guerra, dunque, e vedrai come rinsaviranno tutti quanti”.

Il re, purtroppo, in questi casi la ascoltava col risultato di far precipitare situazioni che già erano ingarbugliate per conto loro.

Anche in questa occasione Tebaldo fece come aveva detto la svitata Usberta e mosse guerra agli “smemorini”.

La prima battaglia si tenne lungo il fiume che attraversava il paese smemorato, l’elemento sorpresa fu decisivo: gli “smemorini” non erano preparati all’attacco, non si aspettavano certo che il loro re invadesse il loro paese come un nemico qualunque!

La vista dell’esercito che avanzava all’inizio li lasciò indifferenti, pensarono si trattasse di grandi manovre o roba del genere, ma quando la prima palla di cannone colpì il tetto dell’unico palazzo nobiliare capirono che la faccenda era grave e sciamarono come api a cercare un riparo.

Qualcuno ebbe anche l’ardire di gridare un “Perché?” nel caos della battaglia. Non lo sentì nessuno. Il temerario allora ritenne più saggio lasciar perdere le domande e scappar via prima che la risposta gli  arrivasse a suon di palle di cannone.

Inutile dirlo, la battaglia la vinse re Tebaldo.

Forte della prima vittoria riportata nella sua giovane vita, il re la sera stessa volle festeggiare senza badare a spese (tanto pagavano i sudditi con le gabelle).

Lui e i suoi generali gozzovigliarono fino a notte fonda, fra vini prelibati e pietanze succulente, musica e danzatrici venute apposta dal palazzo a celebrare il loro re vincitore.

Tanto gozzovigliarono che la mattina seguente dormirono fino a mezzogiorno.

“Sire, “disse il primo generale,” non è una bella cosa, non si fa: alzarsi a mezzogiorno quando c’è una guerra da combattere.”

“Lo so, “ammise il sovrano sbadigliando,” d’altronde bisognava pur festeggiare. E non ci si poteva certo svegliare presto dopo aver mangiato e bevuto fino alle tre! I nostri nemici poi non sono di quelli pericolosi, hanno ceduto subito e oggi non credo daranno battaglia. Possiamo stare tranquilli, dopo tutto, ed attaccare domani, quando saremo lucidi abbastanza per combattere”.

Il primo generale fece buon viso a cattivo gioco e si ritirò nella sua tenda a riflettere, ovvero a ronfare ancora un po’ prima di affrontare l’impegnativa fatica del sontuoso pasto che lo attendeva.

Anche i re sbagliano, sbagliano pure i loro generali a sottovalutare il nemico con l’arroganza di chi si crede sempre il più forte.

Quella volta sbagliarono, infatti, Tebaldo e il suo primo generale. Gli “smemorini”, per quanto disarmati e disorganizzati, non erano certo tipi da farsi sottomettere così. Il primo attacco li aveva colti di sorpresa, ma dopo lo smarrimento iniziale nelle loro zucche testarde si era fatto avanti un concetto piuttosto fermo: nessun re ha il diritto di attaccare il suo popolo così, senza un vero motivo, neppure Tebaldo. Così pensarono di farglielo capire in modo che gli rimanesse ben impresso nella mente. Come? Eh! Attaccando a loro volta con bastoni, manici di scopa, secchi e tutto quello che poterono trovare nelle loro case. Qualcuno si presentò perfino con un paio di stivali dal tacco così appuntito da tagliarci il pane.

E chi non aveva nulla, i più poveri, vennero con le loro mani callose e dure.

Il re stava ancora sonnecchiando quando la sentinella suonò l’allarme e il si salvi chi può.

Lo sorpresero in mutande, con la bocca aperta e gli occhi semichiusi, mentre un po’ stordito chiedeva al servitore che fosse mai tutto quel baccano.

“Siamo noi,” rispose il più giovane degli insorti,” siamo venuti a dirvi, maestà, che il vostro attacco non ci è proprio piaciuto e se non lo capite con le buone ecco, siamo pronti alle cattive e guai a chi ci prende contro pelo!”

Tebaldo, che non era esattamente un eroe, non se lo fece ripetere e dichiarò subito la fine delle ostilità.

“Andate in pace, “proclamò, “dal vostro re per ora non avete più nulla da temere, ma cercate un po’ di ricordare.  La vostra smemoratezza è stata causa di questa guerra improvvisata, fate che io non debba più intervenire per riportarvi a miglior consiglio. Il vostro bel paese è diviso e ciò non va affatto bene. Ci sono a corte persone decise a farvi ragionare con la forza, ritrovate la memoria o io non mi faccio più garante della vostra incolumità”.

Gli “smemorini” si guardarono l’un l’altro, poi, sempre il più giovane che aveva nome Angelo, prese la parola a nome di tutti gli altri:

“Sire, ci impegniamo qui, seduta stante, a ritrovare la memoria, dite però a chi a corte vuole le maniere forti che noi non siamo gente da farci sopraffare. Dateci un po’ di tempo e garantisco che vedrete il risultato. Il nostro…paese…città…insomma, qualunque cosa sia noi gli ridaremo il volto che gli spetta e se di paese si tratta non lo faremo più apparire una città, e viceversa. A riprova della nostra buona fede fissiamo una scadenza: fra un mese esatto avremo risolto il garbuglio, io stesso verrò a corte a riferire e se dovessimo fallire sarò io a pagare per tutti, se ciò vi aggrada. A voi la scelta della punizione”.

Tebaldo scosse il capo, roteò gli occhi, si grattò il capo sotto la corona e alla fine disse sì ma che non si illudesse il giovanotto, la punizione sarebbe stata molto dura. Del resto, aveva un mese intero per studiarla.

Gli “smemorini” cantarono vittoria, per il momento, pur sapendo che non c’era tempo da perdere in festeggiamenti perché un mese passa veloce e bisognava darsi subito da fare per trovare la soluzione al problemaccio.

Si indissero subito riunioni su riunioni, si convocarono i vecchi perché frugassero fra i ricordi e dicessero se in origine era un paese o una città, si consultarono fior di professori…niente. Nessuno fu in grado di dipanare la matassa. Alle riunioni scoppiavano litigi, anche i vecchi bisticciavano fra loro perché c’era chi diceva che ai loro tempi era solo un povero paese e chi invece non ricordava proprio e proponeva di far finta che fosse sempre stata una città. Quanto ai professori, poi, blateravano per ore e ore senza arrivare alla conclusione. E la scadenza si avvicinava a grandi passi.

Una mattina, durante una assemblea improvvisata davanti al mercato della frutta, si fece avanti un giovane che non era del posto e si trovava a passare di lì, disse, per puro caso.

Incuriosito da quello strano concilio si avvicinò e volle dir la sua.

“Amici miei, non sono uno di voi ma proprio per questo vedo le cose con un certo distacco e vi dico che per me avete sbagliato il modo. I ricordi, a quanto pare, sono diversi per ognuno di voi, così come il punto di vista e allora non c’è che una soluzione: chiedere al re di decidere al posto vostro, visto che voi non sapete farlo.”

A questo punto si levò un brusìo fra quella gente riunita in crocchio, qualcuno disapprovava ma c’era anche chi diceva che era una buona idea e poteva valer la pena provare.

Dopo un’ora e passa di discussione accanita si decise per alzata di mano che quel ragazzo aveva ragione, subito dopo una delegazione formata da due anziani e due giovani si recò a corte per chiedere l’alto consiglio del sovrano.

Immaginatevi un po’ la reazione del re. Con tutte le difficoltà che aveva a governare, incerto e inesperto com’era trovarsi sulle spalle anche quel rebus!

E cosa fece il nostro re, allora? Indovinato. Si rivolse alla matrigna Usberta, la quale stavolta non suggerì di fare guerra agli “smemorini” perché, distratta dal restauro del suo antico maniero, non fece per così dire mente locale.  Dando ordini a destra e a manca per aprire varchi, chiuderne altri, verniciare porte e sverniciarne altre non aveva tempo né voglia di pensare a questioni di stato.

Dato però che una risposta la doveva pur dare, consigliò al povero Tebaldo di prendere i dadi di nonno Gusberto e tirarli nel mezzo della sala consiliare.

“Se esce un numero pari, “disse, “si dichiara che è un paese, se esce dispari che è sempre stata una città”.

Con questa lapidaria consulenza lo liquidò, tornando ad occuparsi delle sue faccende.

Tebaldo, che si fidava ciecamente del parere di Usberta,  mandò subito il suo fido maggiordomo a prendere i dadi dal nonno Gusberto.

Appena li ebbe fra le mani andò a lanciarli nel bel mezzo della sala consiliare davanti a un gruppo di cortigiani chiamati a far da testimoni.

I dadi, neanche fossero in preda all’incertezza anche loro, rotolarono e rotolarono finché finalmente di fermarono sotto il grande tavolo rettangolare.

Tebaldo ordinò al suo primo consigliere di andare a vedere se fosse uscito un numero pari o dispari, e si mise in solenne attesa del responso.

“Mah…sire,” borbottò il consigliere,” a prima vista direi che il numero è pari. Ora li prendo senza girarli in modo che tutti gli astanti possano vedere”.

Piano piano, i dadi furono presi e depositati sul tavolo dove tutti i cortigiani convenuti poterono constatare che era proprio pari il numero uscito.

“Si tratta dunque di un paese, è deciso,” fece Tebaldo,” ora i miei cari sudditi dovranno prenderne atto. E guai a chi non si adegua. Datemi carta e penna che faccio subito un editto”.

Tebaldo si mise subito di buzzo buono a dettare l’editto al suo scrivano Aristide, in capo a un’ora la pergamena con la dichiarazione del re fu letta nella pubblica piazza davanti a un folto pubblico di cittadini. Pardon: di paesani.

I sostenitori della tesi che voleva fosse una città naturalmente non furono contenti, il brusio delle loro proteste arrivò fino alle orecchie del re il quale se ne rammaricò tantissimo, disse però che ormai il dado, letteralmente, era tratto e non c’era più nulla da fare: si rassegnassero dunque i contestatori perché altrimenti li avrebbe incarcerati con la grave accusa di ribellione al re.

Il brusio invece di diminuire aumentò, tanto che il re si vide costretto a chiamare le guardie perché eseguissero i primi arresti.

Al tramonto tutti gli insorti erano ormai chiusi nelle patrie galere, avevano un bel gridare e protestare, nessuno li ascoltava. Figuriamoci il re che si stava preparando per la grande cerimonia ufficiale di consacrazione.

Il discorso glielo aveva scritto in quattro e quattro otto il lord ciambellano, era un po’ affrettato ma i concetti c’erano tutti: era felice che l’incresciosa vicenda avesse trovato una soluzione, il fatto che fosse stato dichiarato paese non sminuiva l’importanza e a bellezza del luogo eccetera eccetera.

I festeggiamenti iniziarono subito dopo e andarono avanti fino a notte fonda.  Tebaldo bevve come una spugna, come non dovrebbe fare nessuno, figuriamoci un re. Furono costretti a caricarselo sulle spalle per ricondurlo a palazzo, dove fu messo a letto come un bambino, mentre russava a più non posso.

Nei giorni seguenti la voce dell’avvenuta consacrazione giunse in ogni angolo del regno, in poco tempo tutti seppero che si trattava di un paese…e il nome? Già, era un paese, ma come si chiamava?

Nessuno lo sapeva. Tantomeno il re.

Pensa e rimugina, a corte si giunse alla conclusione che tanto valeva inventarne uno nuovo, visto che nessuno lo ricordava più.

Si decise di emettere un bando rivolto a tutti i sudditi: si invitavano a indicare un nome per il paese, due settimane di tempo, poi una giuria composta dai notabili del regno avrebbe scelto fra tanti il nome che riteneva più adatto. A colui che lo avesse inventato sarebbero andate dieci monete d’oro zecchino per ricompensa. Una fortuna.

Inutile dire che i sudditi si misero subito all’opera. Da ogni parte si vedeva gente con la penna in mano intenta a scarabocchiare qualcosa su fogli e fogliacci, anche chi non sapeva scrivere si cimentava nell’agone facendo della propria testa lo scrigno dove conservare il nome da presentare al cospetto del re e della giuria.

Dopo due settimane, una vera e propria folla si presentò a corte per sottoporre i nomi scelti alla giuria schierata nella sala del trono.

I nomi più strani seguirono a quelli più scontati, qualcuno era davvero originale e piacque al re ma non ai notabili che storsero più volte i nobili nasi. Qualcun altro invece dispiacque assai sia a Tebaldo che ai cortigiani e il malcapitato che lo aveva inventato fu messo alla porta senza tanti complimenti.

Si fece avanti, ultimo fra tutti, un giovane contadino.

“Sire, “disse,” io non ho una grande istruzione, so a malapena leggere e scrivere ma voglio provare ugualmente. Il nome che mi è venuto in mente è  Bellaterra, perché è bella la nostra terra e bello il villaggio che con le nostre mani abbiamo costruito. Uno dei più belli qua intorno. Come vedete la mia idea è semplice e mi scuso se non ho saputo trovar di meglio per questa nostra terra meravigliosa”.

Per qualche secondo nessuno parlò, poi il re iniziò a battere le mani seguito  a breve distanza da tutti gli altri.

“Bravo!” si sentì gridare ad un certo punto e un coro di approvazione si unì a quel grido.

Era chiaro ormai a chi sarebbe andata la vittoria, il semplice contadino aveva avuto l’idea più bella, soprattutto ci aveva messo il cuore che in certe scelte è sempre vincente.

Il giovane fu portato in trionfo da una folla di compaesani, si diede inizio a una festa improvvisata che era solo l’anticipo di quella che sarebbe seguita alla proclamazione ufficiale del vincitore, sulla pubblica piazza di Bellaterra.

Balli, canti e cibo a volontà furono distribuiti senza risparmio fra quella gente che ora inneggiava alla semplicità e alla bellezza come a un nuovo corso della vita paesana.

Re Tebaldo, dopo la proclamazione, si ritirò nelle sue stanze a riposare, contento di avere fra i suoi sudditi un giovane pieno di cuore e di buon senso come quel contadino.

“Sono proprio fortunato, “ disse al ciambellano rientrando nel palazzo, “ con sudditi così il mio compito sarà ben leggero. Che si divertano, dunque, e siano date subito le monete a quel ragazzo. La sua fortuna è fatta, e anche la mia”.

Il contadino, che si chiamava Adelmo, prese le monete con quella soggezione che spesso hanno le anime semplici, quasi pensando di non meritarle.

Il suo futuro ormai era dipinto del rosa della felicità.

Anche il paese da quel momento in poi conobbe solo gioia e tanta fortuna, la memoria di chi erano e che il loro era il paese più bello che ci fosse al mondo non si cancellò mai più dai cuori dei suoi abitanti,  la conservarono con gelosa cura da una generazione all’altra e per l’eternità.

 

 

 

venerdì 30 luglio 2021

Disavventure...

 Una brutta caduta, un polso fratturato e un periodo nero...non è proprio una fiaba ma la tragicomica  disavventura che mi è capitata quasi due mesi fa. 

Tornerò a scrivere e a pubblicare su questo blog non appena la mia mano sopporterà di nuovo senza troppo dolore di muoversi sui tasti di un computer.

A presto

sabato 15 maggio 2021

L'arcobaleno tascabile

 

Eccomi di nuovo, dopo un po' di silenzio. 

Non ho smesso di scrivere, ho solo sospeso per qualche tempo le pubblicazioni sul mio blog perché in fondo ho con quest'ultimo un rapporto "distratto" e discontinuo, lo ammetto.

Che dire della fiaba di oggi? Eh, se bastasse un arcobaleno tascabile a riportare la pace! 

La guerra sembra non voler finire mai, così pure le scaramucce fra noi umani,  piccole o grandi che siano.

Pace, allora? Ma sì, almeno nel mio blog. Pace, e un bell'arcobaleno  a sigillare il patto.

Buona lettura.



 L’arcobaleno tascabile

 Barbara Cerrone



Ferruccio era un omino piccolo piccolo e grasso grasso  che girava sempre con un arcobaleno in tasca, “Perché non si sa mai,” diceva,” metti che il grande arcobaleno non si senta bene o non abbia voglia di uscire, io tiro fuori il mio dalla tasca e siamo a posto!”

Per questo fatto molto particolare era diventato famoso in tutto il mondo, anzi: in tutta la galassia. Forse anche oltre, ma al momento non lo posso confermare.

L’arcobaleno tascabile non serviva solo in caso di temporale, Ferruccio lo usava anche per dirimere le contese. Dopo un litigio che c’è di meglio di un piccolo arcobaleno per riportare il sorriso fra due vecchi amici? Ferruccio lo sapeva bene e all’occorrenza, dopo che i due contendenti avevano finito di gridare, prendeva l’arcobaleno tascabile,  lo metteva in mezzo a quei due galli scatenati e di lì a qualche minuto i litiganti tornavano ad abbracciarsi e a scherzare come prima.

Non era una vita facile, la sua, sempre a correre dove c’era bisogno, fosse pure in capo al mondo. Senza contare che Ferruccio lavorava, era un falegname molto richiesto, faceva di quei mobili, ma di quei mobili! Capolavori, ecco che cos’erano. Aveva clienti a tutte le latitudini, ma quando c’era da tirar fuori l’arcobaleno lui non conosceva né fatica né lavoro e andava ovunque a fare il suo dovere di paciere, fra le nuvole nel cielo o sulla terra, in mezzo ai battibecchi degli umani.

Mi ricordo una volta, era di giovedì, giorno di festa in paese. Ferruccio aveva appena portato un nuovo sgabello a Matteo, il calzolaio, e stava tornando a casa fischiettando tutto allegro.

Lungo la via si imbatté nella sua vicina di casa, Clelia, un’anziana signora dedita al ricamo e al pettegolezzo.

 Ferruccio notò che la donna sembrava disorientata, si  guardava intorno  con l’aria sgomenta di chi sta cercando qualcosa e dispera di ritrovarla.

“Clelia, tutto bene?” le chiese.

La vicina lo guardò come se non lo conoscesse e proseguì senza rispondere. La cosa parve ancora più strana al nostro uomo che decise di fare una piccola deviazione e di seguirla, malgrado si stesse avvicinando l’ora di cena e lui avesse una gran fame.

Cammina cammina finalmente Clelia si fermò davanti alla bottega del fornaio, ormai chiusa a quell’ora. Bussò due o tre volte alla vetrina poi cominciò a chiamarlo Duccio, Duccio! Prima piano, poi sempre più forte Duccio, Duccioooo!

Il fornaio, sentendo tutto quel chiasso si affacciò, piuttosto seccato.

“Che c’è, chi mi vuole a quest’ora di un giorno festivo?”

“Duccio, delinquente, ridammi il mio panino!” urlò la donna  agitando un pugno in aria.

“Che dici, sei pazza? Quale panino?”

“Il panino che ho pagato stamattina e che non mi hai dato. Forza, dammelo!”

“Ti sbagli, non mi hai pagato nessun panino. Hai preso il solito mezzo chilo di pane e te ne sei andata.”

A queste parole Clelia, montando su tutte le furie, aveva cominciato a prendere a calci prima la vetrina, poi la porta, urlando sempre più forte ladro,ladro! In modo che tutti la sentissero.

E la sentirono, infatti. In pochi minuti tutto il paese si fece nei pressi del forno a curiosare, sentenziare, prender parte per l’una o per l’altro.

Si formarono così due fazioni opposte: quelli pro fornaio e quelli pro Clelia, e presero a lanciarsi ingiurie come fossero stati vecchi nemici giurati.

In tutto questo trambusto l’unico che manteneva il controllo era proprio Ferruccio, che lì per lì non sapeva cosa fare, se tirar fuori dalla tasca il suo bell’arcobaleno o lasciare che quegli scalmanati se la sbrigassero da soli.

“In fondo sono degli sciocchi, “ si disse,” non meritano il mio aiuto. Il fornaio avrebbe dovuto fare il superiore e darle il panino, visto che è un’anziana donna, e Clelia non avrebbe dovuto fare una scenata simile per un misero panino”.

Stava per andarsene a godersi la sua cenetta quando sentì qualcosa bussargli piano piano al cuore: era la sua coscienza. Non gli permetteva di lasciare quei due ai loro guai, gli imponeva, visto che lui poteva, di fare qualcosa.

Ferruccio allora tornò sui suoi passi, prese, seppure di malavoglia, l’arcobaleno e lo mise ( a fatica, perché quei due ormai si stavano accapigliando) in mezzo ai litiganti.

Dopo un minuto erano già a chiedersi scusa, a guardarsi come se non capissero cosa fosse successo.

La pace fu fatta, e il panino donato a Clelia che lo mangiò tutta soddisfatta, quella sera, col formaggio fresco del pastore Emilio.

Che giorno memorabile fu quello! E che pace storica per il paese. Le fazioni si ricomposero, tutti tornarono amici di tutti e il brutto episodio fu presto dimenticato.

Quella fu una delle imprese più memorabili del caro Ferruccio.

Per non parlare di quando scoppiò la guerra fra il principato di qua e il ducato di là. 

Non ci furono morti né feriti ma avrebbero potuto esserci, sapete com’è, era pur sempre una guerra.

 Il nostro amico Ferruccio fu chiamato in causa, prima dagli abitanti del principato, poi da quelli del ducato. Entrambi dicevano di volere la pace ma alla fine, puntualmente, veniva fuori che si pretendeva dall’arcobaleno tascabile una qualche magia che facesse vincere l’una o l’altra parte.

Che fece Ferruccio, allora? Da vero paciere si rifiutò di fare qualunque altra cosa che non fosse mettere fra i due nemici il suo arcobaleno, per portare pace, e solo pace.

Che cosa avreste fatto voi, al posto di ducato e principato? Forse all’inizio vi sareste arrabbiati col paciere, poi, vedendo che non c'era modo di tirarlo dalla vostra parte e che si rischiava di farsi male a forza di combattersi, vi sareste calmati e convinti che la cosa migliore per tutti era proprio quella di mettere in mezzo l’arcobaleno del Ferruccio. Così fecero, infatti, e fu la pace. Una pace duratura, a quanto so, perché tuttora resiste e nessuno, fra quella brava gente, nemmeno principi e duchi, sembra volerla turbare per nessun motivo.

Al buon Ferruccio si deve questo e molto altro ancora, non sto qui a dirvi tutto perché sarebbe troppo lungo il discorso e io ho da fare.

Devo scrivere un’altra fiaba prima di sera, prima che il buio, gli affanni, o una maligna distrazione mi portino da un’altra parte col pensiero.

E io non voglio, non lo vorrei mai.

 

 

 


martedì 23 marzo 2021

Le sorelle margherite

 La primavera è qui! Qui fa ancora freddo ma tutto intorno ci parla di lei, della stagione più fiorita.

In omaggio alla primavera e alle sue tenere figlie, le timide margherite, ecco la mia nuova fiaba.

Buona lettura e buona primavera.



Le sorelle margherite

Barbara Cerrone





Le sorelle margherite

 


 

 L’alba era passata e Flora non aveva ancora aperto la corolla.

“Sveglia, “la incitava Susanna,” non vedi che il sole è già alto? Forza, pigrona!”

Niente, margherita Flora non ne voleva sapere di aprire la corolla.

Allora tutte le margherite chiamarono ad una voce la sorella addormentata, con una certa ansia  perché quel sonno così ostinato faceva quasi temere il peggio.

“Che stia male?” chiese ad un certo punto Vivì, la più anziana delle corollate.

L’idea che la loro sorella potesse stare male aveva attraversato i petali di tutte ma nessuna, tranne Vivì, che era senza peli sullo stelo, aveva avuto il coraggio di confessarlo.

Le sorelle si guardarono sgomente: e se Vivì avesse visto giusto? Bisognava appurarlo subito. Ma non fecero in tempo.

Un grido di terrore si levò all’improvviso.

Grandi piedi!” Urlarono le sorelle.” E’ di nuovo qui.  Pieghiamoci, presto, o ci schiaccerà tutte.”

“Oggi non è solo, ce ne sono altri con lui. Un esercito di piedi giganteschi. Siamo spacciate, sorelle”.

I loro steli tremavano, le corolle ondeggiavano come bandiere al vento: le sorelle margherite erano in preda al panico.

Proprio in quel momento, infatti, venti  piedi stavano attraversando il prato, incuranti dei fiori sotto di loro.

Solo Flora, svegliata dal grido, sembrava non essersi ancora accorta del pericolo e sbatteva i petali per togliersi la polvere di dosso come se niente fosse. Ci vollero un bel po’ di urlacci di Vivì per scuoterla e riportarla alla realtà.

Le sorelle margherite cercarono di piegarsi il più possibile nella speranza di evitare il peggio ma i piedi avanzavano inesorabili e le poverette avrebbero avuto la peggio se quelli non avessero deviato all’improvviso verso la strada adiacente, dirigendosi  a calpestare chissà dove.

“Fiùùù! L’abbiamo scampata bella.” Esclamò Vivì. “Ragazze, la nostra vita è davvero dura, ogni giorno qui si rischia lo stelo.”

Quest’amara riflessione occupò le loro corolle come un pensiero fisso fino al tramonto, poi si addormentarono e il campo tornò al suo placido silenzio.

Nei giorni seguenti grandi piedi non si fece vedere, le sorelle margherite trassero un bel sospiro di sollievo ma sapevano bene che era solo una tregua. Sarebbe tornato, prima o poi.

“Dovremmo studiare una strategia” disse un giorno Lili’, la più brillante delle sorelle.

“Quale strategia? Cosa vuoi che possano fare dei fiori piantati a terra, fuggire?”

Bianchetta era sempre stata una margherita pessimista ma stavolta non si poteva darle torto, Grandi Piedi aveva tutti i vantaggi e loro no, non potevano nemmeno strappare le loro radici da terra e scappare via perché non sarebbero sopravvissute.

Era una gran brutta situazione, roba da far cadere i petali anche alle più forti.

Le sorelle si spremevano le corolle per trovare il modo di liberarsi da Grandi Piedi e da tutti quelli che come lui non si facevano scrupoli a calpestarle, arrivarono perfino a chiedere ai papaveri di spargere il loro addormenta-umani nell’aria intorno al prato, in modo che chiunque si accingesse ad attraversarlo cadesse in un sonno profondo e non potesse nuocere a tante povere margherite indifese. I papaveri si prestarono volentieri all’esperimento. Purtroppo, proprio quando cominciarono a diffondere la sostanza soporifera, si alzò un vento di tramontana che trasportò gli effluvi da tutt’altra parte: quel giorno in città si registrò un numero incredibile di persone che sui tram, sugli autobus e perfino sui marciapiedi si addormentarono così, di colpo, accoccolandosi alla meglio ovunque si trovassero pur di dormire.

Dopo il fallimento dell’ennesimo tentativo di salvarsi, si può immaginare lo scoramento delle sorelle. Tutte ripiegate sullo stelo, moge moge come se le avessero abbattute.

“Non ne usciremo, rassegniamoci al nostro destino” disse Vivì  con una voce così piagnucolosa che quasi non si riconosceva.

“Ma sì, rassegniamoci,” fecero in coro le sorelle margherite,” inutile farsi la linfa amara”.

Passarono giorni, settimane e di Grandi Piedi nessuna notizia, non si era più visto dall’ultima incursione con i suoi piedacci pesta – fiori. 

Le sorelle margherite si interrogavano.

“Gli sarà successo qualcosa? Mi sembra molto strano che non sia più venuto, di solito si fa vedere almeno una volta a settimana. Che sia andato a vivere da un’altra parte? Oh, sarebbe troppo bello!” disse Flora.

“Magari! Non ci dobbiamo illudere, quello torna. Torna e calpesta, come sempre” fece Vivì.

Le sorelle margherite sospirarono tutte insieme: anche se la speranza è sempre l’ultima a morire, sapevano bene che Vivì aveva ragione, non bisognava farsi troppe illusioni se non altro per non rischiare di rimanere deluse nel caso si fosse fatto vedere di nuovo.

Decisero di continuare la loro vita floreale sforzandosi di non pensarci troppo, ma ognuna di loro dentro di sé era come in attesa del giorno in cui sarebbe tornato e le avrebbe calpestate ancora umiliandole dal profondo delle corolle.

Eppure era primavera e a primavera tutti i fiori sono tutti in festa, per le sorelle margherite invece era come se fosse ancora inverno, perché la loro gioia era guastata da un paio di piedi maleducati.

Tutto intorno a loro era un’esplosione di colori e profumi, gli alberi esibivano le loro nuove gemme, le piante mettevano nuove foglie e sorridevano al nuovo sole. Gli sbadigli delle violette facevano ridere i fiori di pesco intenti a spargere la loro fragranza.

Un dolce tepore avvolgeva tutta la natura al risveglio dal lungo sonno invernale.

Ma loro no, le sorelle margherite non spargevano fragranze e non sorridevano al sole. In silenzio, strette le une alle altre, cercavano conforto e protezione nella vicinanza delle sorelle.

“Beati i fiori che non vivono qui con  noi,” dicevano,” non devono preoccuparsi di Grandi Piedi. Quell’energumeno attraversa sempre questo prato”.

La dolcezza della stagione acuiva la tristezza delle sorelle proprio perché non potevano goderne come gli altri fiori, sempre preoccupate com’erano di poter essere schiacciate da un momento all’altro.

Tanto erano tristi e sconsolate che un bel giorno la Primavera in persona ebbe compassione di loro.

“Povere le mie margheritine, in fondo sono la mia bandiera. Devo fare qualcosa, non posso abbandonarle al loro destino”.

La Primavera rimuginò notte e giorno sulla faccenda, tanto che il tempo ne risentì: per una settimana fu ventoso e agitato come i suoi pensieri.

All’ottavo giorno, finalmente, un’idea balzò nella mente fiorita di Primavera.

“Ci sono!” Esclamò.” Ogni volta che proverà ad attraversare il prato delle mie margheritine col vento di marzo soffierò tanto di quel polline nel naso di Grandi Piedi da fargli venire un mare di starnuti.  E sarà inutile andare dal dottore, non ci sarà medicina che resisterà al turbine di polline che il mio venticello gli soffierà”.

E così fece, la bella Primavera.

Due giorni dopo, infatti, ecco arrivare Grandi Piedi, andava di corsa e quando correva era ancora più maldestro, le sorelle margherite tremavano di terrore.

“Eccolo, quell’energumeno. Corre come un pazzo, ci stenderà come marmellata. Attenzione ragazze, giù le corolle!” gridò Vivì.

Fu una sorpresa per tutte vedere quel tanghero maleducato e insensibile  tutto d’un tratto starnutire e lacrimare come una fontana, tanto che, preso dalla disperazione, girò sui tacchi e andò via veloce come era arrivato, brontolando tra sé che doveva prendere un fazzoletto.

Tornò poco dopo ma la scena si ripeté, fino a che, al quarto tentativo, capì che il prato c’entrava qualcosa con quella sua improvvisa allergia e decise di passare da un’altra parte.

Nei giorni seguenti Grandi Piedi provò nuovamente ad attraversare il prato, con lo stesso risultato. Passò un mese, fra nuovi tentativi e fughe in preda agli starnuti, prima che si arrendesse definitivamente.

“Maledetto prataccio!” Esclamò.” Non so se siano le margherite o l’erba che cresce qui ma ogni volta che lo attraverso mi viene l’allergia. Andrò dal sindaco a chiedere che faccia rasare tutto a zero per metterci il cemento, così finisce l’allergia e vi saluto fiorellini”.

Per fortuna Primavera aveva ascoltato tutto! Di certo non avrebbe permesso che il suo prato preferito fosse falciato come erba cattiva e già che c’era fece soffiare dal suo venticello un bel pensiero nelle orecchie dei cittadini indaffarati.

I bei pensieri spesso danno buoni frutti.

Al sindaco, prima ancora delle lagnanze dell’energumeno, giunsero le preghiere di chi aveva a cuore la Primavera e i prati.

Le margherite non sanno leggere né scrivere, ma quel giorno, chissà perché, capirono lo stesso che quel cartello sul bordo della strada parlava proprio di loro e diceva:

“Non calpestate le margherite, perché ci stanno a cuore, come ogni filo d’erba che vive in questo prato. Chi lo farà pagherà la multa, e state attenti perché sarà salata!”

 

 

 


martedì 9 febbraio 2021

La pioggia se ne va

 Giorni di pioggia, noiosi, forse tristi per qualcuno ma l'acqua è un bene prezioso...

buona lettura.


La pioggia se ne va

 Barbara Cerrone

 


La pioggia se ne va

 

Un giorno la pioggia, sentendosi poco amata dalla gente che sognava sempre il sole, decise di andar via, fece le valigie e partì per un lungo viaggio portando con sé tutte le nuvole.

Andò a stare dal suo migliore amico, il Grande Ghiacciaio, che viveva nel lontano nord.

Con il cielo pulito il sole tornò a farsi vedere, per la gioia di tutti coloro che dopo giorni e giorni di rovesci sognavano soltanto i suoi raggi.

Per settimane il tempo fu bellissimo, le piante cominciavano a mostrare un po’ di sofferenza per la mancanza di acqua ma nel complesso sembravano godersi il sole anche loro.

Finché non arrivò l’estate.

Il caldo torrido mise a dura prova ogni creatura sulla faccia della terra.

Il suolo riarso, arido, cominciava a creparsi qua e là, le piante seccavano e morivano, gli animali soffrivano la sete e cadevano uno dopo l'altro. Per gli umani era solo questione di tempo, presto sarebbe finita anche per loro.

Stava morendo la vita sul pianeta e nessuno poteva farci nulla.

La gente alzava gli occhi al cielo nella speranza di notare qualche nuvola che portasse di nuovo la pioggia ma li abbassava quasi subito, delusa, vedendo che di nuvole lassù non c’era neanche l’ombra.

Disperati, gli umani decisero di andare alla ricerca della pioggia, si portarono dietro anche gli animali, le piante no perché non potevano sradicarle senza ucciderle.

Si era saputo che la pioggia ora viveva nel lontano nord con le sue nuvole, lo aveva detto il mare che l’aveva saputo dal cielo che l’aveva detto al vento che l’aveva soffiato agli uomini, ed era proprio là che erano dirette tutte quelle creature in marcia.

Quando arrivarono la pioggia cercò dapprima di nascondersi dietro una nuvola: non voleva tornare a casa, con il ghiacciaio stava bene, si sentiva amata e capita. Non come fra gli umani che si lamentavano se solo cadeva per più di un giorno e volevano soltanto il sole! Poi, sentendoli implorare con certi occhi e certi lamenti da far piangere una pietra, si commosse. Qualche gocciolina cadde dal suo viso umido e andò a bagnare il becco di un fringuello che subito si rianimò.

In tutte le creature, allora, si riaccese la speranza.

La pioggia, che per essere buona era buona, non poté più resistere. Fece di nuovo le valigie e partì, con le fedeli nuvole al seguito.

Al suo ritorno la terra, gli uomini e tutte le creature bevvero a sazietà e si nutrirono.

Da allora la pioggia fu la benvenuta ogni volta che bussò alla porta del cielo, ad aprirla andavano le nuvole, ma ad accoglierla c'erano mille e mille uomini felici sulla terra.