Perdere la memoria di ciò che siamo ed eravamo: un grande guaio, parola di "smemorini".
Buona lettura.
Il paese smemorato
C’era, tanto tempo fa, un paese che aveva perso la memoria e
proprio per questo lo avevano soprannominato “Il paese smemorato”.
I suoi abitanti, detti “smemorini”, erano anch’essi vittima
di una certa confusione: c’era chi, tra loro, pensava di essere cittadino e
dipingeva la facciata di casa come i palazzi di città, si dava arie da
cosmopolita e non parlava con i compaesani. Altri invece, sapevano di essere in
paese ma non ricordavano in quale, e passavano il tempo a chiedere e cercare di
scoprire il nome del villaggio dov’erano nati e cresciuti.
Tanta era la confusione che ad un certo punto quel povero
villaggio fu come diviso in due: da una parte palazzi che volevano essere
eleganti, dall’altra case modeste con le persiane e le facciate un po’
scrostate.
Una situazione, si può ben capire, piuttosto complicata e di
non facile soluzione perché in quel povero paese non c’era più nessuno, ormai, con
la testa a posto. Nemmeno il sindaco, nemmeno gli assessori.
L’eco di questi avvenimenti non mancò di giungere fino al
palazzo del re, Tebaldo Primo, detto “Il conquistato” perché ogni volta che
muoveva guerra al nemico non solo la perdeva ma veniva puntualmente fatto
prigioniero. Tebaldo poveretto, era molto giovane e inesperto nella difficile
arte di governare, figuriamoci poi se si trattava di rimettere giudizio nelle
arruffate teste degli “smemorini”.
“Che si fa, che si fa con quegli sciagurati?’” Chiese un
giorno al primo consigliere.
Il primo consigliere, ahimè, di solito non era di grande
aiuto e di consigli non ne sapeva dare perché dormiva come un tasso da mattina
a sera, e pochi erano i momenti in cui apriva gli occhi .
Non trovando nella persona più indicata il consiglio che
tanto gli premeva, Tebaldo di solito si
rivolgeva alla matrigna, Usberta di Norandia, donna acidina e piuttosto sciocca
la quale di pareri ne dava eccome, ma sempre assolutamente sbagliati.
E anche quella volta non fu da meno della sua fama
catastrofica. Tebaldo la interrogò e lei rispose da par suo.
“Muovigli guerra,” disse,” che altro può fare altrimenti un
giovane re per svegliare un manipolo di sudditi rimbambiti? Muovigli guerra,
dunque, e vedrai come rinsaviranno tutti quanti”.
Il re, purtroppo, in questi casi la ascoltava col risultato
di far precipitare situazioni che già erano ingarbugliate per conto loro.
Anche in questa occasione Tebaldo fece come aveva detto la
svitata Usberta e mosse guerra agli “smemorini”.
La prima battaglia si tenne lungo il fiume che attraversava
il paese smemorato, l’elemento sorpresa fu decisivo: gli “smemorini” non erano
preparati all’attacco, non si aspettavano certo che il loro re invadesse il
loro paese come un nemico qualunque!
La vista dell’esercito che avanzava all’inizio li lasciò
indifferenti, pensarono si trattasse di grandi manovre o roba del genere, ma
quando la prima palla di cannone colpì il tetto dell’unico palazzo nobiliare
capirono che la faccenda era grave e sciamarono come api a cercare un riparo.
Qualcuno ebbe anche l’ardire di gridare un “Perché?” nel
caos della battaglia. Non lo sentì nessuno. Il temerario allora ritenne più
saggio lasciar perdere le domande e scappar via prima che la risposta gli arrivasse a suon di palle di cannone.
Inutile dirlo, la battaglia la vinse re Tebaldo.
Forte della prima vittoria riportata nella sua giovane vita,
il re la sera stessa volle festeggiare senza badare a spese (tanto pagavano i
sudditi con le gabelle).
Lui e i suoi generali gozzovigliarono fino a notte fonda,
fra vini prelibati e pietanze succulente, musica e danzatrici venute apposta
dal palazzo a celebrare il loro re vincitore.
Tanto gozzovigliarono che la mattina seguente dormirono fino
a mezzogiorno.
“Sire, “disse il primo generale,” non è una bella cosa, non
si fa: alzarsi a mezzogiorno quando c’è una guerra da combattere.”
“Lo so, “ammise il sovrano sbadigliando,” d’altronde
bisognava pur festeggiare. E non ci si poteva certo svegliare presto dopo aver mangiato
e bevuto fino alle tre! I nostri nemici poi non sono di quelli pericolosi,
hanno ceduto subito e oggi non credo daranno battaglia. Possiamo stare
tranquilli, dopo tutto, ed attaccare domani, quando saremo lucidi abbastanza
per combattere”.
Il primo generale fece buon viso a cattivo gioco e si ritirò
nella sua tenda a riflettere, ovvero a ronfare ancora un po’ prima di
affrontare l’impegnativa fatica del sontuoso pasto che lo attendeva.
Anche i re sbagliano, sbagliano pure i loro generali a
sottovalutare il nemico con l’arroganza di chi si crede sempre il più forte.
Quella volta sbagliarono, infatti, Tebaldo e il suo primo
generale. Gli “smemorini”, per quanto disarmati e disorganizzati, non erano
certo tipi da farsi sottomettere così. Il primo attacco li aveva colti di
sorpresa, ma dopo lo smarrimento iniziale nelle loro zucche testarde si era
fatto avanti un concetto piuttosto fermo: nessun re ha il diritto di attaccare
il suo popolo così, senza un vero motivo, neppure Tebaldo. Così pensarono di
farglielo capire in modo che gli rimanesse ben impresso nella mente. Come? Eh!
Attaccando a loro volta con bastoni, manici di scopa, secchi e tutto quello che
poterono trovare nelle loro case. Qualcuno si presentò perfino con un paio di
stivali dal tacco così appuntito da tagliarci il pane.
E chi non aveva nulla, i più poveri, vennero con le loro
mani callose e dure.
Il re stava ancora sonnecchiando quando la sentinella suonò
l’allarme e il si salvi chi può.
Lo sorpresero in mutande, con la bocca aperta e gli occhi
semichiusi, mentre un po’ stordito chiedeva al servitore che fosse mai tutto
quel baccano.
“Siamo noi,” rispose il più giovane degli insorti,” siamo
venuti a dirvi, maestà, che il vostro attacco non ci è proprio piaciuto e se
non lo capite con le buone ecco, siamo pronti alle cattive e guai a chi ci
prende contro pelo!”
Tebaldo, che non era esattamente un eroe, non se lo fece
ripetere e dichiarò subito la fine delle ostilità.
“Andate in pace, “proclamò, “dal vostro re per ora non avete
più nulla da temere, ma cercate un po’ di ricordare. La vostra smemoratezza è stata causa di questa
guerra improvvisata, fate che io non debba più intervenire per riportarvi a
miglior consiglio. Il vostro bel paese è diviso e ciò non va affatto bene. Ci
sono a corte persone decise a farvi ragionare con la forza, ritrovate la memoria
o io non mi faccio più garante della vostra incolumità”.
Gli “smemorini” si guardarono l’un l’altro, poi, sempre il
più giovane che aveva nome Angelo, prese la parola a nome di tutti gli altri:
“Sire, ci impegniamo qui, seduta stante, a ritrovare la
memoria, dite però a chi a corte vuole le maniere forti che noi non siamo gente
da farci sopraffare. Dateci un po’ di tempo e garantisco che vedrete il
risultato. Il nostro…paese…città…insomma, qualunque cosa sia noi gli ridaremo
il volto che gli spetta e se di paese si tratta non lo faremo più apparire una
città, e viceversa. A riprova della nostra buona fede fissiamo una scadenza:
fra un mese esatto avremo risolto il garbuglio, io stesso verrò a corte a
riferire e se dovessimo fallire sarò io a pagare per tutti, se ciò vi aggrada.
A voi la scelta della punizione”.
Tebaldo scosse il capo, roteò gli occhi, si grattò il capo
sotto la corona e alla fine disse sì ma che non si illudesse il giovanotto, la
punizione sarebbe stata molto dura. Del resto, aveva un mese intero per
studiarla.
Gli “smemorini” cantarono vittoria, per il momento, pur
sapendo che non c’era tempo da perdere in festeggiamenti perché un mese passa
veloce e bisognava darsi subito da fare per trovare la soluzione al
problemaccio.
Si indissero subito riunioni su riunioni, si convocarono i
vecchi perché frugassero fra i ricordi e dicessero se in origine era un paese o
una città, si consultarono fior di professori…niente. Nessuno fu in grado di
dipanare la matassa. Alle riunioni scoppiavano litigi, anche i vecchi
bisticciavano fra loro perché c’era chi diceva che ai loro tempi era solo un
povero paese e chi invece non ricordava proprio e proponeva di far finta che
fosse sempre stata una città. Quanto ai professori, poi, blateravano per ore e
ore senza arrivare alla conclusione. E la scadenza si avvicinava a grandi
passi.
Una mattina, durante una assemblea improvvisata davanti al
mercato della frutta, si fece avanti un giovane che non era del posto e si
trovava a passare di lì, disse, per puro caso.
Incuriosito da quello strano concilio si avvicinò e volle
dir la sua.
“Amici miei, non sono uno di voi ma proprio per questo vedo
le cose con un certo distacco e vi dico che per me avete sbagliato il modo. I
ricordi, a quanto pare, sono diversi per ognuno di voi, così come il punto di vista
e allora non c’è che una soluzione: chiedere al re di decidere al posto vostro,
visto che voi non sapete farlo.”
A questo punto si levò un brusìo fra quella gente riunita in
crocchio, qualcuno disapprovava ma c’era anche chi diceva che era una buona
idea e poteva valer la pena provare.
Dopo un’ora e passa di discussione accanita si decise per
alzata di mano che quel ragazzo aveva ragione, subito dopo una delegazione
formata da due anziani e due giovani si recò a corte per chiedere l’alto
consiglio del sovrano.
Immaginatevi un po’ la reazione del re. Con tutte le
difficoltà che aveva a governare, incerto e inesperto com’era trovarsi sulle
spalle anche quel rebus!
E cosa fece il nostro re, allora? Indovinato. Si rivolse
alla matrigna Usberta, la quale stavolta non suggerì di fare guerra agli
“smemorini” perché, distratta dal restauro del suo antico maniero, non fece per
così dire mente locale. Dando ordini a
destra e a manca per aprire varchi, chiuderne altri, verniciare porte e
sverniciarne altre non aveva tempo né voglia di pensare a questioni di stato.
Dato però che una risposta la doveva pur dare, consigliò al
povero Tebaldo di prendere i dadi di nonno Gusberto e tirarli nel mezzo della
sala consiliare.
“Se esce un numero pari, “disse, “si dichiara che è un
paese, se esce dispari che è sempre stata una città”.
Con questa lapidaria consulenza lo liquidò, tornando ad
occuparsi delle sue faccende.
Tebaldo, che si fidava ciecamente del parere di
Usberta, mandò subito il suo fido
maggiordomo a prendere i dadi dal nonno Gusberto.
Appena li ebbe fra le mani andò a lanciarli nel bel mezzo
della sala consiliare davanti a un gruppo di cortigiani chiamati a far da
testimoni.
I dadi, neanche fossero in preda all’incertezza anche loro,
rotolarono e rotolarono finché finalmente di fermarono sotto il grande tavolo
rettangolare.
Tebaldo ordinò al suo primo consigliere di andare a vedere
se fosse uscito un numero pari o dispari, e si mise in solenne attesa del
responso.
“Mah…sire,” borbottò il consigliere,” a prima vista direi
che il numero è pari. Ora li prendo senza girarli in modo che tutti gli astanti
possano vedere”.
Piano piano, i dadi furono presi e depositati sul tavolo
dove tutti i cortigiani convenuti poterono constatare che era proprio pari il
numero uscito.
“Si tratta dunque di un paese, è deciso,” fece Tebaldo,” ora
i miei cari sudditi dovranno prenderne atto. E guai a chi non si adegua. Datemi
carta e penna che faccio subito un editto”.
Tebaldo si mise subito di buzzo buono a dettare l’editto al
suo scrivano Aristide, in capo a un’ora la pergamena con la dichiarazione del
re fu letta nella pubblica piazza davanti a un folto pubblico di cittadini.
Pardon: di paesani.
I sostenitori della tesi che voleva fosse una città
naturalmente non furono contenti, il brusio delle loro proteste arrivò fino
alle orecchie del re il quale se ne rammaricò tantissimo, disse però che ormai
il dado, letteralmente, era tratto e non c’era più nulla da fare: si
rassegnassero dunque i contestatori perché altrimenti li avrebbe incarcerati
con la grave accusa di ribellione al re.
Il brusio invece di diminuire aumentò, tanto che il re si
vide costretto a chiamare le guardie perché eseguissero i primi arresti.
Al tramonto tutti gli insorti erano ormai chiusi nelle
patrie galere, avevano un bel gridare e protestare, nessuno li ascoltava.
Figuriamoci il re che si stava preparando per la grande cerimonia ufficiale di
consacrazione.
Il discorso glielo aveva scritto in quattro e quattro otto
il lord ciambellano, era un po’ affrettato ma i concetti c’erano tutti: era
felice che l’incresciosa vicenda avesse trovato una soluzione, il fatto che
fosse stato dichiarato paese non sminuiva l’importanza e a bellezza del luogo
eccetera eccetera.
I festeggiamenti iniziarono subito dopo e andarono avanti
fino a notte fonda. Tebaldo bevve come
una spugna, come non dovrebbe fare nessuno, figuriamoci un re. Furono costretti
a caricarselo sulle spalle per ricondurlo a palazzo, dove fu messo a letto come
un bambino, mentre russava a più non posso.
Nei giorni seguenti la voce dell’avvenuta consacrazione
giunse in ogni angolo del regno, in poco tempo tutti seppero che si trattava di
un paese…e il nome? Già, era un paese, ma come si chiamava?
Nessuno lo sapeva. Tantomeno il re.
Pensa e rimugina, a corte si giunse alla conclusione che
tanto valeva inventarne uno nuovo, visto che nessuno lo ricordava più.
Si decise di emettere un bando rivolto a tutti i sudditi: si
invitavano a indicare un nome per il paese, due settimane di tempo, poi una
giuria composta dai notabili del regno avrebbe scelto fra tanti il nome che
riteneva più adatto. A colui che lo avesse inventato sarebbero andate dieci
monete d’oro zecchino per ricompensa. Una fortuna.
Inutile dire che i sudditi si misero subito all’opera. Da
ogni parte si vedeva gente con la penna in mano intenta a scarabocchiare
qualcosa su fogli e fogliacci, anche chi non sapeva scrivere si cimentava
nell’agone facendo della propria testa lo scrigno dove conservare il nome da
presentare al cospetto del re e della giuria.
Dopo due settimane, una vera e propria folla si presentò a
corte per sottoporre i nomi scelti alla giuria schierata nella sala del trono.
I nomi più strani seguirono a quelli più scontati, qualcuno
era davvero originale e piacque al re ma non ai notabili che storsero più volte
i nobili nasi. Qualcun altro invece dispiacque assai sia a Tebaldo che ai
cortigiani e il malcapitato che lo aveva inventato fu messo alla porta senza
tanti complimenti.
Si fece avanti, ultimo fra tutti, un giovane contadino.
“Sire, “disse,” io non ho una grande istruzione, so a
malapena leggere e scrivere ma voglio provare ugualmente. Il nome che mi è
venuto in mente è Bellaterra, perché è bella la nostra terra e bello il villaggio che
con le nostre mani abbiamo costruito. Uno dei più belli qua intorno. Come
vedete la mia idea è semplice e mi scuso se non ho saputo trovar di meglio per
questa nostra terra meravigliosa”.
Per qualche secondo nessuno parlò, poi il re iniziò a battere
le mani seguito a breve distanza da
tutti gli altri.
“Bravo!” si sentì gridare ad un certo punto e un coro di
approvazione si unì a quel grido.
Era chiaro ormai a chi sarebbe andata la vittoria, il
semplice contadino aveva avuto l’idea più bella, soprattutto ci aveva messo il
cuore che in certe scelte è sempre vincente.
Il giovane fu portato in trionfo da una folla di compaesani,
si diede inizio a una festa improvvisata che era solo l’anticipo di quella che
sarebbe seguita alla proclamazione ufficiale del vincitore, sulla pubblica
piazza di Bellaterra.
Balli, canti e cibo a volontà furono distribuiti senza
risparmio fra quella gente che ora inneggiava alla semplicità e alla bellezza
come a un nuovo corso della vita paesana.
Re Tebaldo, dopo la proclamazione, si ritirò nelle sue
stanze a riposare, contento di avere fra i suoi sudditi un giovane pieno di
cuore e di buon senso come quel contadino.
“Sono proprio fortunato, “ disse al ciambellano rientrando
nel palazzo, “ con sudditi così il mio compito sarà ben leggero. Che si
divertano, dunque, e siano date subito le monete a quel ragazzo. La sua fortuna
è fatta, e anche la mia”.
Il contadino, che si chiamava Adelmo, prese le monete con
quella soggezione che spesso hanno le anime semplici, quasi pensando di non
meritarle.
Il suo futuro ormai era dipinto del rosa della felicità.
Anche il paese da quel momento in poi conobbe solo gioia e
tanta fortuna, la memoria di chi erano e che il loro era il paese più bello che
ci fosse al mondo non si cancellò mai più dai cuori dei suoi abitanti, la conservarono con gelosa cura da una
generazione all’altra e per l’eternità.