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lunedì 23 luglio 2018

La povera lavandaia o dell'ingiustizia riparata



Nella vita reale i prepotenti spesso ottengono ciò che vogliono con il terrore e le minacce, così può accadere che un innocente paghi per il colpevole.
Nelle fiabe invece c'è sempre una buona fata che difende i più deboli e pone rimedio all'ingiustizia. 
Buona lettura.





La povera lavandaia
Barbara Cerrone






C’era una volta una povera lavandaia.
Lo so, lo so, una volta di povere lavandaie ce n’erano tante ma questa aveva qualcosa di speciale perché era destinata ad essere la protagonista di una fiaba.



Questa brava donna si chiamava Amelia, non era più tanto giovane ma il viso aveva ancora i lineamenti morbidi della gioventù, forse perché dentro di sé  era ancora una fanciulla, e la fanciullezza del suo animo le risplendeva in viso.
Il marito era un uomo bislacco, la tormentava con i suoi capricci e aveva spesso idee balzane che lei non poteva ostacolare senza che lui montasse in collera come una furia e urlasse lanciando oggetti come al tiro al bersaglio, rischiando di colpire anche lei.
Le aveva rotto vasi, vasetti, ceramiche e oggetti di ogni tipo, e se nessuno era arrivato dritto sulla sua testa era solo per la pietà di madama la fortuna che deviava quei proiettili lanciandoli lontano dalla sua piccola persona.
Quando il marito si metteva in testa qualcosa, qualunque cosa, perfino la più pericolosa,  non c’era modo di dissuaderlo.
Un giorno il fratello della donna venne a trovarla, doveva partire per un lungo viaggio e le affidò tutti i suoi averi: non voleva lasciarli nella sua casa incustoditi e nemmeno poteva portarli con sé rischiando di essere derubato.
Amelia gli disse di non preoccuparsi, che ne avrebbe avuto cura come fossero stati suoi e lo salutò, raccomandandogli di essere prudente durante il viaggio.
Più tardi il marito tornò a casa dall'osteria, dove bighellonava tutto il giorno, vide il bauletto pieno di monete e chiese di chi fosse; quando seppe che era del  cognato disse, con l’acquolina in bocca:
“Moglie, se quel ben di Dio è di tuo fratello, allora in fondo è come se appartenesse anche a te. Che se ne fa quel tanghero di tanti soldi? Se n’è andato a zonzo mentre noi stentiamo a campare. Prendiamo le monete e...chissà? Magari con un po’ di fortuna non tornerà dal viaggio a reclamarle, e se invece dovesse tornare gli dirai che è venuto un ladro e le ha rubate.”
“Marito mio,” rispose Amelia tutta tremante,” io non sono tipo da rubare al mio stesso sangue. Ho sempre vissuto onestamente e onesta voglio restare.
Custodiamo questo denaro come gli ho promesso e andiamo avanti con il nostro, come sempre.”
Il marito, però, non ne volle sapere e fece  tante di quelle scene che a raccontarle vengono ancora i brividi.
Amelia fu costretta ad obbedire perché quel disgraziato non ci avrebbe messo nulla a prenderla e buttarla dalla finestra come una cartaccia; in cuor suo piangeva ma consegnò il bauletto nelle mani dello sciagurato consorte e pregò che suo fratello tornasse il prima possibile.
Passarono tre mesi,  il fratello di Amelia non tornava ancora e di monete ne erano rimaste poche.
Una mattina bussò alla porta una donna che disse di essere sua cognata.
Il fratello l’aveva sposata durante il viaggio, ora lui stava per tornare e mandava avanti la consorte a conoscere la sua amata sorella e a riprendersi il bauletto con le monete.
Amelia, con le lacrime agli occhi,  andò a prendere il bauletto semivuoto e lo mostrò alla cognata.
Questa, vedendo che non era rimasto più nulla o quasi del patrimonio, prese a gridare, a insultare, e a nulla valsero le preghiere e i pianti: andò dritta dritta dal giudice a denunciarla.
“Mio marito l’aveva affidata a te e tu ne risponderai!” urlò uscendo come una furia dalla casa.
Il giudice, che non conosceva né come né perché e giudicava solo sulla base dei fatti e dei suoi codicilli, fece condurre Amelia al suo cospetto e la interrogò ben benino.
“Ti dichiari colpevole o innocente?” le chiese, facendole gli occhiacci.
“Innocente, innocente!” proclamò Amelia.
Poiché era onesta,  non volle mentire dicendo che erano stati i ladri ma non spiegò come mai le monete fossero sparite. Che avrebbe dovuto dire? Che il marito l’aveva costretta e che di lui aveva una gran paura? Di sicuro non le avrebbero creduto e poi lui si sarebbe di sicuro vendicato. Allora?
Allora tacque, inghiottendo le lacrime che scesero a fiumi dai suoi occhi.
Il giudice, al quale non pareva vero di avere lì, servito su un piatto d’argento, un bel colpevole tutto per sé, non fece che chiamar le guardie e sbatterla in galera come una delinquente.
In tutto quel bailamme il marito non fiatò, non pensò affatto a discolpar la moglie, anzi, si fregò le mani per la contentezza al pensiero che non fosse toccato a lui.
Andò perfino a trovarla in galera, e col sorriso ipocrita le disse:
“ Vedrai, te la caverai con poco, non hai mai rubato, e poi sei una donna: saranno clementi con te. Forte come sei ce la farai a resistere a questa bufera. I soldi io li spenderò bene, non preoccuparti. Intanto ti saluto, perché qui l’aria si è fatta pesante anche per me”.
Così dicendo quel mascalzone se ne andò, lasciandola nei guai fino al collo.
Quella notte Amelia non poté dormire, pensava alla vergogna di esser lì e al fratello che forse la credeva una ladra; perfino alla morte, pensava, ma non ebbe il coraggio di darsela.
Passarono due giorni, Amelia languiva dietro le sbarre, tutti sembravano essersi dimenticati di lei, perfino il giudice, che ora era occupato in altre faccende.
Scoccava mezzogiorno e la guardia venne a portarle il pasto ma lei non mangiò, perché non aveva fame.
“Deve mangiare,” disse la guardia impietosita,” non faccia così, tanto non serve.”
Amelia non rispose, prese il piatto, lo appoggiò sul tavolaccio che stava in mezzo alla stanza e si rimise a sedere sul letto.
Ma si dà il caso che una donna onesta che sta in galera per colpa di un marito delinquente intenerisca il cuore delle fate, e questo è ciò che accadde, per fortuna.
Fata Rosabella stava potando le rose in giardino quando la sua bionda sorellina la chiamò.
“Rosabella, Rosabella, c’è un’ingiustizia da riparare. Una povera donna è in prigione  per colpa del marito. Lei è innocente: dobbiamo aiutarla  è il nostro compito di fate, lo sai!”
Rosabella si lagnò del fatto che gli umani non stavano mai buoni e si cacciavano nei guai anche nei momenti più inopportuni, tuttavia corse subito a togliersi gli abiti da giardinaggio e si mise la veste ufficiale, ovvero l’abito rosa con lo strascico e il cappello a cono.
Prese la bacchetta, raccomandò le rose a sua sorella e uscì, diretta alla prigione.
Trovò  Amelia in lacrime, tanto per cambiare.
“Non piangere,” le disse,” io sono qui per aiutarti. Uscirai presto da qui a testa alta, e a pagare sarà quel mascalzone. Parola mia di fata.”
Amelia aveva perso la speranza ma la parola di una fata conta pur qualcosa, perciò si rincuorò, e finalmente fece un bel sorriso.
Fata Rosabella batté tre volte la bacchetta in aria, si girò verso il muro e disse:
“Muro muretto che imprigioni questa donna, crolla subito e lascia solo il tetto!”
Appena finì la frase eccoti un boato spaventoso: il muro era crollato, dallo squarcio si vedeva la strada e alcuni passanti che guardavano, basiti.
“Forza, ora esci e vai a cercare tuo marito. Ha preso la strada per la contea vicina, non è lontano, se corri lo raggiungerai prima di sera. Non temere, quando lo avrai trovato ti dirò cosa fare.”
Amelia non stette lì a porre tempo in mezzo, uscì dalla cella e corse a cercare quel vigliacco del suo sposo.
Il sole non era ancora tramontato quando lo vide in lontananza, era in groppa a un bel cavallo, legato alla sella aveva il bauletto con le monete.
“Ora è il momento di far giustizia, “sussurrò Rosabella da dietro a un cespuglio, “ come vedi sono qui, per te. Non aver paura, vagli pure incontro con un bel sorriso. Gli dirai che il giudice ti ha liberata perché ha creduto alla tua innocenza. Vorrà sapere se per discolparti  hai accusato lui: negalo decisamente! Non ti crederà ma tu negalo ancora. Il resto lo vedrai, abbi fiducia in Rosabella.”
Amelia fece come aveva detto la fata, corse incontro al marito e gli raccontò quella storia.
Il marito, solo a vederla si fece bianco come un lenzuolo e pensò subito che lo avesse denunciato.
Amelia negò più volte ma l’uomo, che ormai si vedeva perso, scese da cavallo, prese  la moglie e la legò.
“Eccoti sistemata,” disse,” ora non mi farai più danno. Ti lascerò qui, da sola. Tra poco calerà la notte, e arriveranno gli animali selvatici: voglio vedere chi ti salverà. Io, per me, spero di cavarmela sennò torno indietro e se le belve non ti avranno sistemata ci penserò io.”
Ma non aveva fatto i conti con le fate!
Rosabella aveva in mano la sua fedele bacchetta salvatutti: la batté in aria tre, quattro, cinque volte e disse:
“Malefica creatura, uomo vigliacco! Ti mando contro l’esercito col re alla sua testa, e il giudice a metterti nel sacco!”
Un polverone si levò all'improvviso, Amelia lì per lì non riusciva a capire cosa fosse,  pensò si trattasse di una mandria inferocita e si sentì perduta.
Solo quando furono più vicini riconobbe lo stendardo reale, dietro c’erano il re, il giudice e tutto l’esercito in armi.
In un baleno raggiunsero il marito, lo catturarono come un animale e lo portarono via, verso la galera.
Amelia fu liberata, due cavalieri l’accompagnarono a casa dove una dama l’attendeva già da un pezzo per confortarla e farle compagnia.
Il re in persona con un editto proclamò l’innocenza di madama Amelia e la colpevolezza del  marito. La condanna per il reo, poi,  fu esemplare: venti anni di lavori forzati dentro una caverna, e il divieto di vedere anima viva, tranne i suoi carcerieri.
Perché Rosabella la fece tanto lunga, vi chiederete, perché non fece intervenire subito il re con tutti i suoi armigeri? Ma ragazzi miei, che volete che ne sappia? Questa è una fiaba!
Forse  la fata ha voluto mettere alla prova Amelia per vedere se aveva fiducia in lei e misurare la sua forza d’animo? Vai a sapere. Le fate fanno a modo loro, si sa, ma  fanno bene, e questo è l’importante.
Vi basti sapere che tutto è bene quel che finisce bene e che da quel giorno Amelia ricevette da Rosabella la nomina di fata,  e come fata  visse felice in mezzo alle altre nel parco dei sogni fra alberi, rose, gelsomini e passerotti a cinguettar sui rami.




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