L’oro del villaggio
Barbara Cerrone
Mi
viene in mente un fatto di tanto tempo fa che a pensarci ancora mi diverte.
È
successo in un certo paesino non lontano
da qui: se lo ricordano i vecchi, che ne parlano sempre, e i notabili, che ne
conservano la memoria per i giovani.
Tutto
è cominciato con un tesoro, una cassa piena di monete d’oro di cui nessuno
conosceva la provenienza.
La
trovò, in mezzo ai campi, una contadina, Amelia, mentre falciava l’erba.
“Ohilà,
ohilà!” gridò.”Correte, gente, correte!”
E
corsero, infatti. I cinquecento abitanti del paese corsero tutti, non ne mancò
neanche uno all’appello.
Le
bocche sbalordite ci misero del tempo a richiudersi, infine si decise di
portarlo al principe del luogo che, come ricco signore, di certo era abituato
alle monete d’oro e sapeva cosa farne.
Ma
quello...
“Le monete sono state trovate nel mio regno,
io sono il principe perciò sono mie.” proclamò.”Oggi però mi sento generoso, quindi
ve le regalo: prendetele, e vediamo cosa sapete farne”.
Però!
Ce n’era davvero di che beneficare
un’intera città, così quei poveracci furono ben lieti di spostare tutto quel
ben di Dio dalla cassa alle loro tasche rattoppate.
Da
pezzenti quei disgraziati si ritrovarono signori, e cominciarono a girare in
carrozza, a vestire abiti ricchi e a rinnovare le loro catapecchie cambiando i pancacci di legno rustico in sedie e poltrone
da palazzo nobiliare, e le ruvide lenzuola di spesso cotone in finissima
biancheria di lino.
Inutile
dire che nessuno, fra quei contadini, volle più andar nei campi a sudare mille
camicie, e i raccolti andarono a farsi benedire.
L’abbandono
delle campagne fece salire la bile agli occhi del principe che fino ad allora si
era divertito a guardare quello spettacolo.
“I
miei contadini non lavorano più la terra, tra non molto non ci sarà più di che
sfamarci nel regno” disse un giorno alla
consorte.
“Marito
mio, principe, la colpa è di quelle monete e della vostra imprudenza. Come
avete potuto lasciare nelle loro mani quel tesoro? Non vi è venuto in mente che
dopo averlo avuto si sarebbero dati alla bella vita? Non hanno mai visto
l’abbondanza, c’era da prevedere questo bel risultato.”
“Lo
so, io volevo solo divertirmi a vederli recitare la parte dei
signori, non pensavo certo di lasciar loro le monete per sempre, mia cara. C’è
un bel rimedio a questa situazione, lo vedrai presto”.
Il
rimedio del principe, però, dispiacque molto a tutta quella gente: il giorno
stesso inviò i suoi soldati, armati fino ai denti, a perquisire, accusare e
incarcerare tutti coloro che avevano preso le monete, ponendo fine alla
bisboccia senza pietà.
I
più vecchi furono condannati al carcere
duro con l’accusa di complicità nel furto del tesoro, i più giovani ai lavori
forzati nei campi che così ripresero a dar frutti.
Dopo
un periodo di ricchezza e bella vita, tornare più poveri di prima fu come
svegliarsi da un bel sogno e finire dritti dritti in un incubo di miseria e
sofferenza.
Qualcuno
fra loro pensò anche di darsi la morte, tanto il dolore era insopportabile,
altri invece meditarono di andare dal principe e farlo fuori con tutta la sua
corte, ma le catene che avevano ai piedi gli consentivano a malapena di
muoversi, e la fame indeboliva talmente i loro corpi che poco a poco smisero
anche di meditare.
Così
finì il bel momento di quella popolazione che, illusa per un po’ di aver
raggiunto benessere e ricchezza, ben presto ripiombò nel buio di una povertà
ancora più amara.
Passarono
gli anni, due, per la precisione, e tutti si erano ormai rassegnati al loro
destino.
Molti
fra i più anziani e malati erano morti in carcere, i giovani invece
continuavano a sudare nei campi e campavano di stenti, come sempre, del resto.
Un
bel giorno un cavaliere col pennacchio bianco armato di tutto punto scese alla locanda del paese, che era ben
misera, tuttavia il nostro cavaliere non se ne lamentò perché a quei tempi chi
viaggiava sapeva bene che doveva adattarsi alla bisogna, sperando almeno di non esser derubato.
Bevve
del vino senza obiettare che era acqua sporca e si sciacquò la faccia in una
bacinella ancor più sporca, sempre col sorriso sulle labbra.
“Un
buon cliente, una volta tanto” commentò il padrone della baracca mordendo la
moneta che il cavaliere gli aveva anticipato per compenso.
Il
giorno dopo il suo arrivo tutto il paese parlava di questo misterioso signore
che aveva l’aria di venire da molto lontano e di esser di quelli nobili e
ricchi per davvero.
Soprattutto
ci si chiedeva che mai facesse in quella landa misera e dimenticata un uomo
così, che di valore pareva averne tanto.
Il
cavaliere sembrava non accorgersi affatto di tutte quelle attenzioni e di certo non se ne curava.
Il
giorno dopo, elmo calato e lancia in resta, prese solennemente la via del
castello, non senza aver prima foraggiato il suo cavallo, Alidoro, così lui lo
chiamava, incitandolo a non lasciare neanche un filo di quella buona biada.
Senza
dir verbo, il cavaliere si acquartierò sotto le mura del castello, e lì rimase.
Il
principe appena seppe di quello strano soggetto si insospettì e ordinò alle
guardie di condurlo al suo cospetto per
interrogarlo, ma il cavaliere si rifiutò.
“Non
parlo con un vile usurpatore, disdegno tale ignobile compagnia.” rispose.” Io
sono il legittimo erede di mio padre, re Sigismondo terzo, ucciso a tradimento
dal vostro falso principe e questo regno è il mio. Sono qui per vendicare la
morte del padre mio e riprendere l’oro che quel furfante ha rubato”.
Figuratevi
il principe! Andò su tutte le furie e ordinò ai suoi armigeri di catturarlo per
chiuderlo a vita nelle patrie galere.
Il cavaliere era più in gamba di quanto lui potesse immaginare, non appena vide
avvicinarsi i soldati alzò bandiera bianca, fingendo la resa; quelli, vedendo
la scena, rimisero nelle fodere le spade e andarono a prenderlo con l’aria
scanzonata di chi va a far merenda sui prati. Trovarono insomma l’accoglienza
che si merita chi non sa valutare il suo nemico.
Gido,
così si chiamava il cavaliere, ne atterrò cinque in una volta sola, roteando la
spada, e con la lancia finì il lavoro con gli altri cinque che, storditi e
sconfitti, tornarono al castello con le
corna rotte.
“Sciagurati,
vi siete fatti battere da un uomo solo! “ gridò il principe.
A
poco valsero piagnistei e scuse: i
disgraziati, pesti e umiliati, furono spediti dritti dritti in carcere a
riflettere sulla loro dabbenaggine.
Molti
altri ancora andarono a dar battaglia a Gido, decisi e armati fino ai denti, e tutti
tornarono al mittente senza armatura, e con qualche dente in meno.
“Qui
c’è di mezzo un incantesimo!” sbottò il re all’ennesima sconfitta.” Chiamate subito
Oddo”.
Oddo
era un vecchio mago di corte, scalcagnato e sempre in ritardo, il principe lo
tollerava solo perché era frugale e gli costava poco, e poi nelle previsioni ci
azzeccava.
Il
principe gli ordinò di scoprire quale incantesimo si nascondesse dietro alla
forza invincibile del cavaliere, gli disse di usar tutte le armi della sua magia per sconfiggerlo perché quelle dei suoi
soldati non erano valse a nulla.
Oddo, come
al solito, fece del suo meglio; consultò il libro degli incantesimi, guardò ben
bene nella sfera di cristallo, interrogò le stelle...insomma non rimase affatto
con le mani in mano.
Alla
fine si decise per la solita bacchetta, vecchio strumento di tante battaglie vinte
e, notte facendo, si diresse verso la tenda del cavaliere.
Lo
trovò che stava dormendo della grossa, russava, anzi, così che Oddo ebbe quasi
un moto d’impazienza: “Mi ricorda la mia povera moglie,” pensò” russa come fa lei.
Non c’era verso di dormire”.
Gli
si avvicinò con cautela, per non svegliarlo, e imponendogli la bacchetta sul
capo disse:
“Giro
di qui, giro di là, la tua casa non è questa qua. Giro di boa, giro di mare da
questo posto te ne devi anda...oh, oh,oh!”
Povero
Oddo! Non riuscì nemmeno a finir di pronunciare la sua formula perché all'improvviso
due bellissime fanciulle comparvero davanti al letto del cavaliere, facendogli
scudo.
“Chi siete?” balbettò Oddo.
“Siamo
le fate guardiane del cavaliere addormentato, lo proteggiamo dalle ire del tuo
falso principe e da te, mago Oddo. Se vai in pace non ti sarà torto un capello,
altrimenti farai la fine di tutti gli altri.”
“Ecco,
siete voi il segreto! E io che mi ci sono lambiccato il cervello! Vi prego, ditemi: come vi chiamate? Che io
conosca almeno il nome di chi mi ha sconfitto.”
“Verità
è il mio nome, “ disse la prima,” e giustizia è quello di mia sorella. Come
vedi, a noi non si sfugge”.
Oddo piegò umilmente il capo davanti a loro e
prese la strada del ritorno senza replicare.
La
mattina seguente il principe lo convocò
per chiedergli conto della spedizione ma Oddo, prudente vecchio consumato
dall’esperienza, nel frattempo aveva già preso
il largo temendo la vendetta del suo irascibile signore.
“Tutti,
tutti mi abbandonano!” tuonò il principe. E nessuno gli rispose, perché anche
la sua furba moglie se n’era andata, in compagnia di quattro damigelle.
Solo,
spaventato, si aggirava per la reggia come un pazzo chiedendo aiuto alle statue
e ai candelabri.
Così
lo trovò Gido, giunto col suo Alidoro a riprendersi regno e monete.
Vedendolo
in quello stato si impietosì, pensando
che aveva già avuto la sua bella punizione.
Da
quel giorno in poi il triste regno del principe usurpatore finì, Gido prese il
suo posto e fu un regnante giusto, amato e rispettato dai suoi sudditi.
Il
principe finì dentro una cella, a smaltire la follia che lo accompagnò per il
resto dei suoi giorni.
Quanto
alle monete, lo volete sapere? Gido le
regalò, una ad una, a quei disgraziati senza pane che finalmente ebbero un po’
di gioia nella vita.
“Tanto
ne ho almeno il triplo nelle mie casse,” disse a commento della decisione, “che
vivano bene i miei sudditi, e vivrò bene anch’io”.
Un
popolo felice fa felice anche il suo principe, e così fu. Vissero tutti felici
e contenti.
E anche se questa è una fiaba, è tutto vero.
Parola
mia di fata.
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