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sabato 25 luglio 2020

Paroladoro

Non solo il mattino ha l'oro in bocca!

Buona lettura

Paroladoro

 Barbara Cerrone

 


Re Soldone era un pacifico e grasso re di campagna, con un bel castello, un bell'esercito, una bella scuderia, delle belle terre e una bella regina per moglie.

Era un uomo, anzi, un re felice, perché non avrebbe dovuto esserlo? Non gli mancava nulla. Diciamo che forse aveva anche troppo. Di sicuro troppo oro. Perché? Semplice. Ogni volta che parlava dalla sua bocca uscivano lingotti e se rideva o sospirava erano monete che cadevano giù come una pioggia luccicante. D’oro, s’intende.

 In questo modo si capisce bene che il nostro re si era arricchito come nessuno al mondo e la sua fortuna non cessava, perché gli bastava aprir bocca per riempir la stanza d’oro zecchino, meglio dell’Eldorado.

“Suvvia, un uomo che è una miniera!” diceva sempre la suocera, regina Umberta, quando la figlia si lamentava per qualche difettuccio del marito.

Ed era vero, Soldone come un’inesauribile miniera sfornava ricchezze a profusione, rendendo più che agiato il regno e tutta la famiglia.

Questo dono assai particolare dovrebbe far felice ogni umano, e re Soldone era felice ma…c’è sempre un ma in ogni storia, e questa non fa eccezione, cari miei.

Il fatto è che una miniera va protetta da ladri e intrusi di varia specie e natura, un re però è un uomo e proteggerlo vuol dire quasi ingabbiarlo, se si vuol star sicuri.

Soldone non poteva muovere un passo senza che tutto l’esercito lo seguisse come un sol uomo. Non poteva farsi vedere ai tornei perché c’era sempre il ladrone di turno che provava a rapirlo, e ogni volta era una bagarre.

Men che meno poteva andare in giro con la sola scorta, come tutti sovrani, perché uscire a far due passi fuori dal suo palazzo voleva dire muovere ancora una volta l’esercito intero e anche così non bastava.

Una volta che era andato a spasso con i suoi armigeri per le vigne e gli uliveti del suo regno, ci mancò poco che non scoppiasse una guerra. Il re nemico lo aspettava al varco, a truppe schierate, per tendergli un agguato e portarselo via a sputare oro come una fontana.

Eh sì, non era vita, povero re Soldone. La sua fortuna si trasformava  per lui in sfortuna, paura e prigionia. Viveva come un recluso nel suo castello, sempre temendo attacchi da ogni parte.

Di più, uno così, non solo re e potente ma anche capace di coniare oro come la zecca, di certo non poteva avere amici perché come faceva a sapere se erano sinceri o interessati solo alla splendente produzione delle sue fauci regali?

Così finiva per restare solo, e frequentare solo la famiglia, anche quella, chissà? Interessata alle monete o a lui? Soldone se lo chiedeva spesso. La regina l’aveva sposato per le sue doti umane o per l’oro che le metteva nel piatto? I cortigiani, già brutta razza di ipocriti e bugiardi, l’amavano o lo seguivano nella speranza di raccogliere qualche doblone caduto a terra quando sproloquiava?

La sua vita era tutta un dubbio, e solitudine la sua vera compagna.

Soldone non sapeva che per quel suo dono aurifero il popolo gli aveva dato un soprannome, Paroladoro, così lo chiamavano i suoi sudditi e come tale fra la gente comune era conosciuto.

Un giorno che tristezza e solitudine lo afferrarono tutte insieme Soldone  fece una pazzia.

Dopo aver udito per caso un servitore dire, spettegolando con una cameriera, che il re come uomo non piaceva a nessuno ma come forziere lo volevano tutti, re Soldone decise di sparire.

Non era facile, con tutto il codazzo che lo seguiva sempre, ma ci riuscì con la scusa più vecchia del mondo.

“Vado alla toilette,” disse alle sue guardie,” aspettatemi fuori come al solito”.

Le guardie lo attesero per un’ora intera, chiacchierando del più e del meno.

“Ué, ma si è fatto tardi!” Disse ad un certo punto il più anziano guardando la meridiana che stava proprio lì, davanti a lui.” Il re non esce: non starà mica male? Armigeri, fa d’uopo entrare con la forza”.

Ci volle del bello e del buono per buttar giù una porta che più che porta era un portone massiccio e grande che pareva fatta di roccia pura.  

Entrò per primo il fido Guidalberto, il preferito dal re. Si guardò intorno, esplorò ogni angolo: nulla.

Del re Soldone nessuna traccia.

C’era, invece, la finestrella aperta. Dava sul parco,  lato rose rampicanti, ovvero l’angolo più amato dalla regina. Meno dal re, che ogni volta si pungeva con le spine, goffo com'era in tutti i movimenti.

“E’ scappato! Il re è scappato!” gridarono all'unisono i soldati.

La regina, accompagnata dalla sua degna madre, udite le grida si precipitò.

“Che accade? Oh, povera me, che accade?” chiese facendo mostra di svenire.

“Maestà, il re è comparso. Si è involato dalla finestra. Temiamo il peggio se qualche furfante lo incontra”.

Ma il re aveva pensato anche a questo, prima di fuggire.

Nella regal toilette si era spogliato dei suoi preziosi panni e aveva indossato quelli di un servitore, rubati mentre erano stesi ad asciugare.

Correva, re Soldone, correva come una lepre inseguita dai cacciatori. Nel bosco correva, gli pareva di aver dietro mute di cani e assassini pronti a ghermirlo, invece era solo, per la prima volta nella sua vita da monarca era uscito senza nessuno al seguito.

Aveva paura ma nello stesso tempo un senso di ritrovata libertà lo faceva sentire più leggero dell’aria, e continuava a correre come se non avesse fatto altro nella vita.

Arrivò in prossimità di un villaggio, non sapeva dove si trovasse ma gli piaceva quel posto.

Decise di tentar la sorte e si avvicinò.

Scelse di bussare alla porta di una graziosa casetta circondata da un piccolo giardino.

Venne ad aprirgli un vecchio, con gli occhi grandi e azzurri come il mare e una lunga barba a incorniciargli il viso austero.

Soldone stava quasi per parlare quando all'improvviso si ricordò che aprir bocca significava lanciare oro a ripetizione  e pensò bene di fingersi muto.

Gesticolò, fece capire a segni al vecchio che non poteva parlare ed era un forestiero bisognoso di aiuto e di riparo. Si offrì per lavorare, fece il gesto della zappa e della vanga. Il vecchio capì e sorridendo lo fece entrare. In quella casa restò molto a lungo, il nostro amico, finché la storia non prese un’altra piega.

 

 Erano passati dieci anni dalla fuga di re Soldone, a corte lo avevano cercato per mari e monti, avevano inviato messi e banditori ovunque ma del sovrano Paroladoro neanche l’ombra.

Nel frattempo la regina, dopo un ragionevole lasso di tempo, spinta dai consiglieri  decise che ormai era tempo di dichiarare la morte presunta del coniuge e si  fidanzò con un nobile del luogo. Certo, non sputava oro dalla bocca ma era ricco, di nobile lignaggio e suvvia! Poteva bene fare il re.

Il futuro sovrano si chiamava Erberto, era alto e robusto come una roccia e alla regina incuteva una certa soggezione.

“Poco male, “ sentenziava la madre soddisfatta,” è così viziata la mia figliola che un po’ di soggezione le gioverà”.

Soldone non sapeva nulla di quanto stava accadendo nel suo regno, continuava a fingere di essere muto ed era finalmente in pace, ora. Tutti lo amavano e lui era certo che fosse per le sue qualità, per l’uomo che era e non per l’oro. In più era libero come l’aria, andava dove voleva solo soletto senza temere agguati.

Certo, il suo paese gli mancava,  sentiva nostalgia della sua pur petulante moglie, perfino della suocera a volte. Gli mancava il suo cane Artemidoro, il paggio Eustachio, la servitù e anche il suo bel letto morbido. Tutto, insomma.

Nonostante ciò, gli bastava ripensare alla sua prigionia, all'esercito che lo seguiva ovunque, ai dubbi sulla sincerità di affetti e amicizie per non rimpiangere più il passato ed essere più  felice che mai della sua nuova vita.

E avrebbe continuato a godere della sua felicità se non fosse stato per fra’ Guglielmo.

Sant'uomo, per carità, ma doveva proprio passare da quel villaggio per raggiungere il santuario?

Fra’ Guglielmo era un frate del grande convento che si trovava nel regno di Soldone, abbarbicato su un cocuzzolo e famoso per il miele dolcissimo che quei frati operosi ricavavano con pazienza dai loro alveari. Era partito per un pellegrinaggio al santuario che si trovava proprio nel villaggio dove ora viveva Soldone.

A piedi e con i sandali nuovi di zecca, quel martedì di luglio era già in vista della meta quando notò un uomo curvo sulla zappa che intento a lavorare in un orticello.

“Ma quell'uomo somiglia…come una goccia d’acqua. Incredibile! Ma no, non può essere lui”.

Fece per passare oltre ma qualcosa dentro lo indusse a fermarsi per parlare con lo zappatore.

“Buon uomo, buongiorno a voi. Una domanda: è questa la strada per il santuario?”

Soldone, perché era lui l’uomo curvo sulla zappa, appena sollevò la testa lo riconobbe e trasalì. Di bianche e rosse che erano le sue guance si fecero pallide e gelide come la neve. Gli veniva da balbettare ma non poteva aprire bocca perché gli sarebbe uscito l’oro, come al solito, e il frate avrebbe avuto la certezza di essere davanti al suo re.

Decise di continuare la finzione. Fece segno di non poter parlare,  chinò di nuovo il capo e si rimise di buona lena a zappare, facendo finta di niente.

Eh, ma a volte certe bugie hanno le gambe davvero corte.

Fra’ Guglielmo lì per lì si convinse che si trattasse di un caso, una somiglianza eccezionale e di certo se ne sarebbe andato senza pensare più a quell'incontro se non fosse stato per una gocciolina di saliva che vide scendere dalla bocca semiaperta dello zappatore.

Quella goccia luccicava come l’oro, anzi, era oro!

Soldone non se n’era accorto e continuava il suo lavoro senza badare a Guglielmo.

“Sire, ora non ho più dubbi,” disse di nuovo il frate avvicinandosi,” ma ditemi, perché negate di essere il mio re? E come mai zappate un orticello?”

Il re, vistosi scoperto, si decise a raccontare tutta la storia.

“Vi capisco, “ fece il frate, “tuttavia il vostro regno vi reclama, vostra moglie ha scelto un nuovo marito, neanche questo vi interessa? Suvvia, fatevi coraggio e tornate ai vostri doveri, perché di doveri si tratta. Ognuno di noi ha i suoi pesi da portare, i vostri in fondo li vorrebbero in tanti, non credete? Di certo chi non ha il pane per mangiare! Al mio ritorno dal santuario mi fermerò di nuovo qui e spero vogliate tornare a casa con me”.

Con queste parole fra’ Guglielmo si congedò dal re e riprese il cammino, lasciando Soldone ai suoi pensieri.

Passò una settimana. Ne passarono due. Del frate nemmeno l’ombra.

Soldone cominciava a preoccuparsi. Non era certo ansioso di tornare a casa, né gli piaceva deludere con un rifiuto quel bravo frate che lo consigliava per il suo bene ma lo rispettava, nutriva per lui un sincero affetto, avrebbe voluto rivederlo al più presto passare di nuovo da lì sano e salvo.

Cos'era accaduto? Il buon frate si era ammalato e ora giaceva in un letto, ospite del convento del villaggio.

Soldone non lo sapeva, lo seppero i  confratelli ai quali Guglielmo aveva inviato una missiva per informarli.

I fraticelli non si fecero attendere. Dopo qualche giorno ne arrivarono tre, per far visita al povero Guglielmo e accompagnarlo nel viaggio di ritorno non appena fosse stato in grado di alzarsi.

E allora indovinate. Anche loro  videro il re e non ci fu più modo di tergiversare.

Dopo una settimana Soldone tornò a casa,  in groppa ad un asino, dono del villaggio.

La regina sua moglie, dopo una serie di malori e svenimenti, liquidò in fretta e furia il promesso sposo, perdonò il marito e riprese la sua vita di regina così come Soldone riprese a fare il re, monete comprese.

Il ritorno alla sua vecchia vita, però, lo rese molto infelice.

Non faceva che pensare al villaggio, alla serenità di quella vita libera e sicura, senza dobloni che gli uscivano dalla bocca né ladri pronti a derubarlo, con tanti amici sinceri e un pezzo di pane e formaggio guadagnato col sudore della fronte.

Tanto ci pensò e tanto rimpianse che un giorno cadde ammalato.

Aveva una febbre da cavallo, delirava e nel delirio cercava la sua zappa.

“Povero marito mio, è grave assai se cerca una volgare zappa!” si lamentava la regina scuotendo il capo velato.

Per giorni e giorni in tutto il regno si temette il peggio, finché una mattina così come era venuta quella febbraccia se ne andò.

Era domenica. Soldone si alzò, e si affacciò alla finestra per salutare i sudditi come faceva sempre  quel giorno della settimana. Invano la regina lo implorò di stare attento, di riguardarsi e rimandare i saluti. Soldone non l’ascoltò.

Il popolo riunito sotto la finestra aspettava notizie del suo re, credendolo ancora ammalato. Quando lo videro in piedi sventolare sorridendo la mano come se niente fosse i loro volti si dipinsero di stupore.

Soldone prese la parola. Voleva dire alla sua gente che ora stava bene, che tutto era passato, rassicurarli e ringraziarli di essere lì.

Un discorso improvvisato, parlò a ruota libera, così, come gli veniva. Sembrava un fiume in piena, ma udite udite da quel fiume non uscì nemmeno una pepita d’oro.

“Guardate, a Paroladoro  si è esaurita la miniera in bocca!” disse un ragazzo.

E tutti gli altri gli a ripetere: “Gli si è esaurita la miniera! Gli si è esaurita la miniera!”

Soldone non si rese conto subito di quello che stava accadendo, preso com'era da tutto ciò che ancora voleva dire.

Fu il vecchio consigliere Aristide ad avvisarlo, mentre la folla sotto di loro rideva e gridava:

 “Viva il re senza l’oro! Viva il re senza l’oro!”

“Maestà, “disse, “non avete visto che le vostre frasi non son più d’oro zecchino?”

Soldone lo guardò senza capire,  poi disse una parola qualsiasi,  tanto per provare, e vide che  era proprio vero. Niente più oro, solo le frasi che il cuore a mano a mano gli dettava.

Sul momento non sapeva se essere felice o disperato, decise poi per la felicità perché così si liberava finalmente di tutti i dubbi  che l’avevano angosciato, ed era libero di essere un re come tutti gli altri.

“Sudditi, amici,” fece rivolto al popolo festante,” questo giorno sarà ricordato come una data storica. L’oro non fa più parte di me, sono libero. Del resto ne abbiamo tanto nei forzieri da bastare per qualche secolo ancora. Vi esorto a festeggiare perché io sono felice, e farò in modo che lo siate anche voi”.

La festa continuò per giorni e giorni, il re non stava nella pelle dalla gioia, si sentiva leggero come l’aria e tutti intorno a lui erano allegri per la sua allegria.

Gli amici falsi in capo a qualche giorno si dileguarono, i veri amici gli rimasero accanto, Soldone seppe così chi lo amava davvero e chi no.

Era proprio felice. E felice fu per il resto dei suoi regali giorni.

“Bernardo, “ disse un giorno il re al suo giardiniere, “ ora non mi manca che una cosa per essere davvero l’uomo più fortunato della terra. Una zappa, portami una zappa”.

Bernardo sorrise. Era abituato alle bizzarrie del re, ne aveva fatte tante che una più una meno non faceva più tanta differenza. Gli portò la zappa.

Da allora, ogni mattina e di buon’ora, chi aveva voglia di alzarsi con le galline poteva vedere il sovrano in persona zappettare contento nell'orticello del palazzo.

Il fortunato osservatore, per quanto si stropicciasse gli occhi  convinto di avere un’allucinazione, doveva arrendersi all'evidenza e ridere, se voleva, ma prender atto di avere per sovrano un grande re e un bravo, bravissimo ortolano.


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