Si può cercare di correggere la propria natura ma fino ad un certo punto. Non tutti, poi, ci riescono. Il nostro Cincischia, per esempio...
buona lettura
Cincischia
Barbara Cerrone
Cincischia era un mendicante che andava qua e là, in giro
per le strade di un borgo antico e bello che ora non c’è più ma quando c’era
vi assicuro che era splendente come il sole in pieno agosto e anche di più.
Il nome glielo avevano dato gli abitanti di quel paese dove
lui era capitato per caso, come piovuto
dal cielo una mattina di novembre, col sacco in spalla e i panni logori e
sporchi di fuliggine.
Non aveva né soldi né mestiere, non si sapeva da dove veniva
e a dire il vero non lo sapeva neanche lui.
Dov'era nato? Quanti anni aveva? Misteri che non si potevano
risolvere, del resto a lui non importava e nemmeno a quella brava gente che lo
aiutava come poteva, visto che la fame visitava spesso anche le loro case.
D'estate dormiva sotto il porticato della chiesa, d’inverno
il prete gli faceva la carità di farlo entrare nella stanzuccia buia che dava
sul cortile, una specie di ripostiglio ben ordinato e di certo più pulito delle strade che Cincischia bazzicava sdraiandosi a schiacciare
pisolini dove capitava.
Viveva così, quel mendicante che aveva un leggero accento
straniero e zoppicava, a volte, a causa di una maledetta sciatica che lo
tormentava.
Quel nome se l'era guadagnato a furia di perder tempo, nessuno sapeva perder tempo come Cincischia! Era pur vero, del resto, che non aveva nulla da fare e
non c’era motivo di correre per vagare come un ectoplasma di viuzza in viuzza a
mendicare. Ma quando Monna Gioconda lo chiamava alla finestra per dargli un
avanzuccio della sua mensa che avreste fatto voi se come lui aveste avuto uno
stomaco vuoto da due giorni? Sareste corsi come topolini verso il formaggio per
catturare quelle poche briciole di cibo, giusto? Lui invece prima si dondolava
su quel corpo lungo e magro, si grattava il capo, volgeva gli occhi verso la
finestra della donna, di nuovo si guardava intorno…si cincischiava, insomma.
Finché Monna Gioconda non perdeva la pazienza e gridava con quanto fiato aveva
in corpo che se non si si sbrigava quella pappa sarebbe finita nella
pancia dei cani e allora lui, con passo lento e incerto, si decideva ad andare
a prendere la sua ricompensa.
“Ecco, ora la tua pancia è piena” diceva Gioconda quando
Cincischia aveva finito l’ultimo boccone. Ogni volta così, lui sorrideva col
suo dente solo e si andava a cacciare in qualche pertugio a fare un pisolino
digestivo.
Nonostante la sua misera vita Cincischia era sempre molto
allegro, sembrava felice, addirittura.
Gli abitanti di quel villaggio ormai non si chiedevano più
come faceva a sorridere e scherzare con quella fame che gli mordeva l’anima e
una cuccia da cani per dormire. Si erano abituati, dicevano: “Buon per lui
che è felice lo stesso”.
Così andava la vita di Cincischia, finché un giorno non
capitò qualcosa che la cambiò.
Era estate. Cincischia come al solito si cincischiava
gironzolando in paese come un randagio, il sole bruciava la pelle e gli occhi,
non si portavano gli occhiali da sole all'epoca e in ogni caso lui non
avrebbe potuto comprarseli.
Cercando un po’ d’ombra si sdraiò sotto un
platano a dormire, con le cicale a fargli la serenata.
“Buon uomo,” disse una voce rauca tirandolo per la manica
della camicia rattoppata, ”svegliati. Devo parlarti. Ho da farti una proposta
che ti farà venire l’acquolina in bocca. Svegliati o perdi un’occasione!”
Il nostro a fatica, e molto malvolentieri, aprì gli occhi e
ciò che vide non gli piacque affatto.
Una vecchia laida, con lo sguardo di un rapace e la bocca
rugosa piena di denti neri lo guardava come se lo volesse mangiare.
“Chi sei , uh? Vai via!” disse Cincischia spaventato da
quella visione.
“Mi chiamo Eurina e sono una fata, sissignore: perché mi
guardi così? Non mi credi? Sono qui per aiutarti. Devi sapere che ogni anno nel
regno dal quale io provengo si sceglie un mortale che versa in condizioni di
grande miseria per cambiare la sua triste vita e far sì che da disperato
diventi il più fortunato degli uomini. Naturalmente se lo deve meritare, la nostra
regina non elargisce premi a uomini malvagi, ladri o disonesti. Tu sei un uomo
mite, lento nelle decisioni e poco sveglio, ma buono. La regina quest’anno ha
scelto te.”
“Me? Me vuoi dire proprio…me?”
“Sì, proprio te. Riceverai dalle mie mani un dono
che ti darà una nuova vita, ricca e felice come non puoi nemmeno sognare. Solo
ti si chiede di non cincischiarti più e di far qualcosa di utile per te e per
gli altri. Ma guai a te se non lo farai perché perderai tutto e non potrai mai più
essere aiutato da nessuno. Finirai la tua vita nella miseria che già conosci e
nessuno si occuperà più di te”.
Cincischia, frastornato e incredulo, guardò fisso l’orrenda
fata negli occhi: che fosse un sogno, il suo? Provò a toccarla. Era vera, le
rughe della pelle erano più reali della sua fame nera. Insomma non sognava e
bisognava risponderle alla svelta perché non pareva proprio il tipo che aveva la pazienza di aspettare un indeciso come il buon Cincischia.
“Va bene, “ rispose infine,” farò tutto quello che vuoi”.
Eurina consegnò al mendicante un rotolo di pergamena chiuso
da un nastro giallo che pareva d’oro, gli disse di aprirlo solo quando se ne
fosse andata, di leggere le istruzioni che riportava, di seguirle passo per
passo senza sbagliare e quando il poveretto protestò che non sapeva leggere
sorrise dicendo che invece avrebbe letto eccome. Subito dopo sparì, come
spariscono le fate, lasciando il nostro amico a chiedersi come accidenti
avrebbe potuto “leggere eccome” non avendo mai imparato.
Grattandosi la testa
aprì il rotolo e si mise a leggere…si mise a…leggere? Sì! Leggeva, leggeva
davvero!
Come questo potesse succedere era cosa da fate saperlo,
tuttavia lui leggeva e capiva ogni parola, eppure erano termini difficili, roba
da gente istruita che era andata a scuola.
“Chissà com'è che ora sembro un professore e intendo cose di
cui prima neanche sapevo l’esistenza?” si chiedeva con un sorriso idiota che
gli andava da orecchio a orecchio.
In conclusione capì che con quella pergamena gli si diceva
che da quel momento in poi lui sarebbe diventato un altro uomo, che intanto si
guardasse allo specchio: non vedeva il cambiamento?
Dove trovare uno specchio fu il primo problema che si pose, ma guarda un po’ eccone uno proprio sotto i suoi occhi attoniti. Dentro ci vide
un uomo giovane, prestante. La bocca morbida, i denti regolari, puliti come il
bucato delle lavandaie. Si guardò alle spalle. Non c’era un cane.
“Non è possibile che sia proprio io!” mormorava sempre più
stupito il mendicante Cincischia.
E invece sì. Era lui, se ne dovette convincere perché lì
intorno non c’era proprio nessuno.
E gli abiti? Si vide addosso panni ricchi, sontuosi. Roba da
re, almeno.
Accanto a lui ecco una carrozza, ricca, elegante. Un paggio
si avvicina, lo chiama: “Mio signore, noi siamo pronti, quando volete
partiamo”.
Partiamo? E per dove? Cincischia era troppo confuso per
chiedere al paggio chi era e dove voleva portarlo, così salì in carrozza, che
tanto più di così non poteva essere strana la situazione.
Trotta e galoppa, la carrozza si fermò davanti a un
castello.
“Che meraviglia!” disse Cincischia sgranando gli occhi
abbacinati.
“Signore, questa è la vostra dimora, non la riconoscete?”
chiese il paggio.
“Certo, come no!” mentì il poveretto non volendo far la
figura dello smemorato.” Volevo solo consolarmi del fatto che vivo in un posto
tanto bello, casomai mi venisse in mente di lamentarmi per qualcosa.”
“Molto saggio ricordare a se stessi la propria fortuna”
sentenziò il paggio aprendogli lo sportello per farlo scendere.
All'interno del maniero immaginatevi le sette meraviglie.
Oro e tappeti di rara bellezza, arazzi e ammennicoli di ogni tipo e sempre d’oro,
tempestati di lapislazzuli o di rubini.
Un tesoro sciorinato davanti a lui che aveva il fiato
mozzo per l’emozione.
Subito una ventina di domestici si disposero in fila sul
lato sinistro della stanza e si inchinarono al suo passaggio.
Gli chiedevano ordini, disposizioni. Cincischia non sapeva
cosa dire, se la cavò con un vago Sono
stanco, ne riparliamo dopo che lì
per lì lo tolse d’impicci anche se era chiaro che prima o poi qualcosa avrebbe dovuto pur
dire a quella brava gente.
Risolse di fare prima un pisolino, casomai dormendo gli
fosse venuta qualche idea, nonostante sapesse bene come le poche idee che aveva nel sonno ogni volta gli scappassero dal cervello, e poi si svegliava più imbambolato di prima.
La sua camera era enorme, una stanza dove ce ne sarebbero state
altre tre. Il letto morbido, le lenzuola pulite...e chi era abituato al letto,
alle lenzuola? Lui no di certo. Trovò che fossero piuttosto comode, e senza
far troppi commenti ci si avvolse come un baco da seta e si addormentò.
Ebbe incubi che lo fecero sobbalzare mille volte, sudò e si
svegliò col cuore che batteva all'impazzata.
Si guardò intorno: era ancora tutto lì, la stanza, le
lenzuola finissime, il baldacchino rosso. C’era proprio tutto, e c’era lui, con
una fame da leone.
Inutile dire che anche il suo stomaco ebbe presto la sua
bella soddisfazione.
Mangiò a crepapelle, si saziò per tutti i digiuni che
aveva fatto prima.
Nei giorni che seguirono si dedicò a impratichirsi della
casa e delle proprietà.
Visitò l’orto, il parco, le vigne e i pascoli dove gli
armenti mangiavano l’erba fresca e tenera dei suoi campi.
Conobbe contadini, fittavoli, vignaioli, lavandaie e
cucitrici. Tutta gente al suo servizio.
Dopo due settimane era già esperto, gli sembrava di esserci
nato in quella bella situazione.
Passò un mese. Ne passarono due. Tre. Sei.
Un anno se
ne andò veloce come l’acqua fresca di una fontana.
Il nostro uomo adesso aveva anche un nome, Cincischia era
solo un ricordo da mettere in soffitta con le pene di quella vita amara.
Gli dissero che si chiamava Ottone, e a lui piacque, gli
piacque parecchio. Della sua nuova vita Ottone amava tutto, dai pranzi
succulenti alla tappezzeria, alle gite in carrozza con le damine eleganti.
Tutto.
Unico neo in tanta gioia era che il suo carattere,
pigro, indeciso e volto più al non fare che al fare non era cambiato affatto.
Di buono, a parte spassarsela come un gaudente non aveva fatto nulla. Né beneficenza per i poveri, né imprese eroiche per il popolo o nuove opere per la posterità. Non si era nemmeno sposato per dare un erede alla dinastia. Un bel nulla di nulla, insomma.
Cambiata la vita, lui non era cambiato affatto.
In questa situazione tornò a trovarlo la famosa fata.
Dopo avergli ricordato le condizioni poste per avere una
nuova esistenza, lo minacciò.
“Attento, Ottone, se non cambi la prossima volta che mi
vedrai sarà per riportarti dove ti ho trovato e sarà per sempre. Uomo avvisato…”
Ottone di nuovo giurò e spergiurò che avrebbe fatto qualcosa
di buono, la fata volle credergli ma lo lasciò con uno sguardo che era un
fulmine pronto a cadere sulla sua testa.
Ottone ebbe un brivido, tuttavia bastò che il suo
cerimoniere gli suggerisse di dare una gran festa per il compleanno di una certa
contessa per fargli dimenticare la fata e tutte le sue angosce.
Passò così un altro anno senza che l'ex mendicante Cincischia si trasformasse finalmente in Ottone.
Dimentico di ciò che la fata aveva detto e preso dalla vita
facile e lussuosa, Ottone si meravigliò molto quando vide la fata Eurina
avvicinarsi a lui con occhi spiritati, prendere una bacchetta più lurida di un
porcile da pulire e recitare la formula che segue:
“Torna indegno alla tua fogna, di te qui non c’è bisogna”.
La rima non piacque molto al povero Cincischia ma se ne
dovette contentare perché la fata Eurina lì per lì non ne trovò una migliore.
Dopo un secondo eccolo tornato al suo villaggio, più povero
di prima, vestito dei suoi soliti stracci a mendicare un tozzo di pane.
Una voce sottile gli mormorò all'orecchio:
” Te
l’avevo detto. Hai avuto una grande occasione e l’hai sciupata conducendo una
vita sciocca e inutile. Ora torni a mendicare e ben ti sta”.
Cincischia si guardò le mani sporche e callose, si specchiò
nel ruscello e vide un uomo con il viso pieno di rughe e con un dente solo a
far mostra di sé in mezzo ad una bocca di vecchio malandato.
“Povero me, che ho fatto? Ora non tornerà mai più la bella
vita che ho perduto”.
Inutile lagnarsi, recriminare. Cincischia ben presto si
rassegnò.
“Un Cincischia non diventa un Ottone nemmeno se lo mettono a
fare il re” diceva ogni volta a chi passando per compassione gli regalava un po’
di pane.
Non gli andò neanche poi così male perché la fata Eurina,
mossa a pietà per quella zucca vuota, fece in modo che pane e giaciglio non gli
mancassero mai fino alla fine della sua misera vita perché, diceva, sempre
sospirando:
“ Se uno è Cincischia non ci si può far nulla, in fondo non
è colpa sua. Non sarà mai Ottone”.