Quando la natura vince...
L’albero
Barbara Cerrone
C’era
una volta un bellissimo albero che aveva molti anni ma era ancora in gamba, e
viveva felice nel bosco insieme ai suoi fratelli verdi.
Un
brutto giorno il principe del luogo ordinò ai suoi boscaioli di abbattere
cinque dei suoi fratelli per farne legna
da portare al castello, scegliessero loro quali.
I
boscaioli decisero di tagliare i più vecchi: fra questi ultimi c’era anche il
nostro bell’albero che lì per lì sentì le foglie sbiancarsi dalla paura.
“Lasciatemi,
lasciatemi! Non voglio morire!” gridava mentre gli colpivano il tronco con la
scure ma i boscaioli non potevano
sentirlo, e continuavano a colpire senza fermarsi.
Finito
il lavoro quella brava gente caricò i tronchi sul carro e li portò al castello.
“Bene,
siete stati solerti come sempre, “disse il re,” una ricompensa vi attende, miei
fedeli. Adesso però consegnate tutto al mio spaccalegna e andate a casa a
riposarvi.”
Lo
spaccalegna era un omone grande e grosso che era a servizio del re da dieci
lustri, prese il legname e cominciò subito a farne pezzi da metter nei camini delle
stanze reali.
Il
re, però, era giovane e capriccioso, gli venne in mente che la regina, più
capricciosa di lui, voleva un nuovo tavolino per la sua camera da letto perché si
era stancata di quello che aveva, andò dallo spaccalegna e gli disse:
“Aspetta,
la mia regina vuole un nuovo tavolinetto e quel legname sembra proprio adatto,
perciò lascia uno dei tronchi per il falegname e portaglielo affinché
accontenti la mia sposa”.
Lo
spaccalegna si inchinò alla volontà del suo re e portò subito il tronco più
bello al falegname.
Non
lo indovinate? Eh, sì! Il tronco scelto era proprio quello del nostro albero.
Il
falegname in quattro e quattr’otto fece un tavolino che era le sette meraviglie:
intarsi come ricami ne impreziosivano il piano e le gambe, tornite e levigate,
erano un capolavoro di eleganza.
“Ecco
fatto, “disse quel bravo artigiano consegnandolo al re in persona,” questo è il
più bel tavolino che sia uscito dalle mie mani. Spero che la vostra maestà ne
sia soddisfatta.”
Il
sovrano lo mostrò subito ala regina che ne fu entusiasta e lo fece portare
subito in camera sua.
Tutti
felici e contenti, dunque? Tutti, tranne il povero tavolino che non voleva rinunciare
ad essere un albero e a vivere nel bosco, fra il verde e i fiori.
Dopo
qualche mese la regina si era già stancata anche di quel tavolino nuovo.
“Uffa,
sposo mio, questo tavolino mi annoia, fatene legname da ardere, e dite al
vostro falegname che ne voglio uno nuovo” disse quella svampita al re, che
subito volle accontentarla.
Venne
uno dei servitori a prendere il mobile da bruciare ma quando lo sollevò si
accorse che sul piano del tavolo c’era qualcosa.
“Uh,
e che cos’è questo?” disse il servitore.”Ah, ecco: un filo d’erba. Chissà come
c’è arrivato? Magari sì è impigliato nelle vesti della regina quando è andata
in giardino. Ora lo tolgo.”
Fece
per prenderlo ma si accorse che quel filo d’erba non era solo appoggiato: fu
costretto a tirarlo via con tutte le radici.
“Possibile?”
si chiese.” L’erba che cresce sul tavolo? Mah, comunque sia adesso l’ho
estirpato.”
Senza
pensarci oltre gettò il filo d’erba e andò a cercar l’accetta per far di quel
tavolo tanti piccoli pezzi di legno da gettar nel camino.
Non
aveva fatto tre passi che di fili ne notò altri due. Tre. Quattro. Un prato
d’erbetta fresca copriva il tavolino e non smetteva di crescere!
“Adesse
ci mancano solo le margherite!” esclamò.
E
infatti...
“NOOO!
Questo legno è stregato, aiutooo!” urlò il poveretto lanciando in aria il
tavolo, con tutto il prato e le margherite appena nate.
“Insomma
che succede?” tuonò il re entrando nella stanza.
Quando
vide il tavolo a terra prima si lagnò della pigrizia dei servitori, poi vide il
prato con i fiori e gridò anche lui come un ossesso.
“Aiuto,
aiuto! Un mago, presto, una fata, un...quel che vi pare, purché qualcuno
venga!”
Corsero
tutti: servitori, armigeri, cortigiani, perfino l’annoiata sua consorte. Tutti.
Intanto,
erbetta e margherite continuavano a spuntare, fra la confusione generale.
La
sciocca regina prima trovò la cosa divertente, poi però svenne, considerandolo
più consono al suo ruolo.
Nessuno
sapeva cosa fare, la paura era seconda solo alla meraviglia.
L’unico
che non temeva nulla era proprio il tavolino.
Le sue radici correvano sotto i nodi scuri di
quel mobile elegnate, le sue foglie si specchiavano in quell’erba sottile, la
sua corteccia faceva scudo ai piccoli fiori.
“Sono
ancora un albero”diceva, “ e questo è il mio bosco.”
Nel
frattempo il ciambellano aveva chiamato non so più quanti maghi per liberar la
corte dalla stregoneria ma quelli non cavarono un ragno dal buco; lo stesso
accadde con quattro fattucchiere, cinque indovini e sei astrologhi di
passaggio.
Niente
da fare, sul tavolo continuava a crescer l’erba a profusione.
Davanti
a tanta verde ostinazione il re non sapeva più che pesci prendere, decise
allora di convocare il consigliere più saggio della corte, quello che
consultava nei momenti di crisi e di sventura.
“So
già di che si tratta,” disse quello quando fu davanti al sovrano,” in tutta la
corte non si parla d’altro. Sire, non abbiamo scelta: riportatelo nel bosco e
piantatelo.”
“Che?
Che? Che? Io dovrei cedere ai capricci di un tavolino?”
“No,
sire, alla volontà di madre natura e del suo figlio, l’albero che avete
tagliato. Riportatelo dov’era o sarà peggio per tutti noi.”
Il
re storse il naso e anche la bocca, brontolò, si lamentò, chiamò la regina che
fece due sbadigli e poi se ne andò senza dir parola. Fece tutto questo e molto
altro ancora, poi si rassegnò e disse:
“E
sia! Chiamate i boscaioli, che lo riportino nel bosco e lo piantino, non lo
voglio più in questa reggia!”
Quando
il tavolino rivide il suo bosco gli
caddero lacrime di gioia giù, lungo le gambe levigate, le sue radici
cominciarono a tremare e si gettarono subito a terra.
Dopo
una settimana i boscaioli tornarono nel bosco a tagliar legna per i camini del
palazzo, per curiosità andarono a vedere che ne era stato del tavolino e non lo
trovarono: al suo posto troneggiava una quercia gigantesca che mosse piano i
rami al loro passaggio.
“Guarda,
ci saluta!” disse uno di loro.
“Macché!
Gli alberi non salutano, non hanno anima né cervello, proprio come te” ribattè
un altro.
Nessuno
vide come. Io nemmeno ve lo posso dire, so solo che davanti alla quercia c’era
una pozzanghera e questo tipo ci si trovò dentro, gambe all’aria, e la quercia
a fargli marameo con tutti i rami.
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