A volte succedono cose che somigliano a presentimenti...
circa una settimana fa ho scritto questa fiaba e ho dato al protagonista il nome di uno dei miei gatti, il più dolce e affettuoso: Arturo.
Arturino, così lo chiamavo, stava sempre sulle mie ginocchia quando scrivevo, e anche quando non scrivevo.
Faceva caldo? Trenta, trentacinque gradi? Arturino cercava comunque di "incollarsi" a me, voleva il contatto, e poi faceva le fusa. Era felice così.
Bianco e nero, trovatello, usciva poco e amava stare in casa. Con me.
Ora, davanti a questa tastiera, ne sento ancor più la mancanza.
Arturino è morto ieri, dopo un'improvvisa e del tutto inaspettata malattia.
Arturino, dolcissimo micio, questa fiaba è per te.
Il
musico pastore
Barbara Cerrone
C’era,
di questo son sicura, tanto tempo fa un certo pastorello che viveva felice e
contento in una casetta in fondo a una
bella vallata.
Portava
ogni giorno le sue pecore a pascolare, e mentre mangiavano lui suonava il suo
zufolo.
La
gente che passava da quelle parti si fermava beata ad ascoltare, tanto era
bravo il pastorello a suonare.
Capitò
che un giorno lo sentisse il re in
persona.
“Da
dove viene questa musica celestiale?” chiese al paggio che gli stava accanto.
“Il
pastorello che vive in fondo alla vallata, maestà.”
“Che
sia condotto al mio cospetto!”
Il
paggio inviò subito un messaggero al pastorello, che lo seguì, pieno di timore.
“Eccomi,
maestà,” disse appena fu al cospetto del re,” sono al vostro servizio.”
“Come
ti chiami, figliolo?” chiese il sovrano
“Arturo,
sire”
“Un
nome importante, bene, bene. Arturo, ho sentito come suoni e ti dico che
sei molto bravo: voglio nominarti musico di corte, avrai ricchezze e onori ma
bada, dovrai obbedirmi sempre senza mai discutere e seguirmi ovunque, anche in
battaglia.”
“Maestà,
non so se sono all’altezza...”
“Basta
così, lo sei, ti dico. Prendi le tue
cose e stasera stessa vieni a vivere qui, il mio servitore ti mostrerà la tua
stanza.”
“Ma
sire, e le mie pecore? Non posso abbandonarle!”
“Porta
anche loro. Allieteranno i giochi dei miei figli”.
Fu
così che il pastorello si trasferì a
corte e inizio la sua nuova vita.
Il
re gli ordinava di suonare giorno e
notte e sempre gli chiedeva: “Suona questo, suona quello”.
Il
suono che usciva dal suo zufolo, però, era diverso, Arturo non lo riconosceva
quasi più ma al re piaceva e lo copriva di onori e
monete d’oro, il giovane pastore, come ubriacato da tutto quel ben di Dio, non pensava più alla sua musica ma a intascar
denaro e suonava qualunque cosa volesse il re.
Le
sue pecorelle intanto facevano la felicità dei principini che le vezzeggiavano,
le coccolavano, le infiocchettavano come bambole.
Arturo
non le vedeva quasi più, se non dalla finestra, mentre suonava per il re.
Purtroppo
anche le gioie, come le rose, hanno qualche spina, che nel caso dei re spesso
si chiamano guerra.
Il
sovrano chiamò Arturo e gli disse chiaro
e tondo:
“Ascolta,
devo partire per la guerra e tu mi devi seguire. Col tuo zufolo renderai più piacevole il
mio riposo e quello dei soldati. “
Arturo,
a dire il vero, non era poi tanto entusiasta di partire per la guerra ma i
patti sono patti e lui non era tipo da tirarsi indietro, così fece di sì con la
testa riccioluta e corse a prepararsi.
Il
fatto è che certe guerre sembrano non finire mai, e quella sembrava proprio
senza fine.
“Sire,
“disse un giorno Arturo al re,” sono tre anni che siamo in guerra, lontani da
casa, vorrei tanto una licenza: per pietà concedetemi di tornare solo qualche
giorno, il tempo di salutare le mie pecore e rivedere il mio villaggio.”
“No
e poi no! Sapevi bene cosa ti aspettava quando hai avuto l’onore di diventare
musico di corte, ora hai degli obblighi e finché la guerra non sarà finita e io
stesso dirò che possiamo andare a casa tu resterai al mio fianco, come un cane
fedele. Questa è la mia volontà, e se disobbedisci ne pagherai le conseguenze.”
Arturo
non osò replicare, sapeva che col re c’era poco da scherzare e in cuor suo era
disperato.
Quella
notte non poté dormire, si girò e rigirò nel letto come un ossesso; cercava un
modo, pensava a una maniera di uscirne fuori senza finir nei guai. Il mattino
venne e non l’aveva ancora trovata.
Nonostante la paura decise di tentare ugualmente la fuga, anche a costo di esser condannato a morte
come disertore.
Quatto
quatto, mise il capo fuori dalla tenda per controllare se la via era libera, poi
uscì correndo più veloce di una lepre.
Si
fermò solo quando fu certo di non essere seguito. Si trovava già nel bosco inoltrato, il sole si
affacciava tra i rami degli alberi e i
primi fiori sbucavano qua e là, timidamente.
Stava
attraversando quel corridoio verde piano piano, per godersi tutta la sua
bellezza, quando sentì una vocina che sembrava provenire dalla terra stessa.
“Tu,
umano, vieni qui!”
“Chi
è che parla?” chiese Arturo guardandosi intorno.
“Sono
io...non mi vedi”
“No,
non ti vedo: dove sei?”
“Sono...qui!”
disse ancora la voce, e un fungo enorme comparve all’improvvsio davanti agli
occhi atterriti di Arturo.
“Un
fu-fun...go che parla?”
“Sì,
caro, un fungo che parla. Che c’è da ridire? Insomma anche noi abbiamo i nostri
bei pensieri, sai? Ogni tanto passa di qui una fata compassionevole e ci regala
qualche facoltà: una volta è quella di cantare, un’altra è quella di camminare,
e qualche volta capita perfino che possa regalarci quella di parlare, se abbiamo qualcosa di
importante da dire.”
“Gentili,
queste fate. E oggi tu hai qualche cosa di importante da dire?”
“Certamente.
Devo parlare con te, ragazzo mio. Tu sei
un pastore e un musico ma vivi a palazzo, ti sembra giusta la vita che fai? Hai
lasciato le tue pecore a far da giocattolo ai figli del re e non te ne occupi
più, ti sembra bello? Tu stesso non sei che il giocattolo del re, e suoni a
comando solo melodie sciocche.”
“Il re in persona mi ha voluto accanto a sé
perché lo allietassi con la mia musica, non potevo rifiutare.”
“Potevi
eccome. Non sarà piuttosto che ti hanno lusingato i suoi complimenti? Non sei stato tentato
dagli agi della vita di corte?”
“Forse,
lo ammetto. Per uno come me, che non ha mai visto tanta ricchezza, c’è da farsi
girare la testa.”
“E
ora il re ti vuole per forza al suo fianco, cosa credevi? Di non pagare in
qualche modo il suo favore? E come disertore ti farà uccidere, se ti prenderà. Hai
tradito la tua musica e le tue pecore, e tutto
per la tua vanità”-
A
queste parole il fungo sparì, lasciando Arturo nella più nera disperazione.
Uscito
dal bosco, s’incamminò lungo la stretta via che portava al castello.
Ai
lati della strada vide donne e uomini cenciosi che litigavano fra loro per un
pezzo di pane, capì che il suo paese era caduto in miseria a causa della guerra,
e se ne rattristò.
Era quasi sera quando finalmente vide in
lontananza il castello.
“Eccomi
a casa!” gli venne di gridare. ”Ora cosa racconterò? Dirò che il re mi ha
lasciato tornare per qualche giorno a vedere le mie pecorelle, e poi? Poi
troverò il modo di scappare, andremo via, io e le mie piccole, via per sempre
da questo posto, prima che il re e le sue guardie ci uccidano”.
Al castello non trovò nessuno, sembrava abbandonato da tempo, ragnatele e
polvere erano dappertutto; di cortigiani e armigeri, dame e buffoni invece nemmeno l’ombra.
Cercò
le sue pecore ma neanche di loro c’era traccia. Un dubbio atroce lo assalì: e
se qualcuno, per fame, le avesse mangiate? La fame è brutta e in guerra a
volte fa più vittime della spada.
Corse
subito via, a cercarle, diretto verso la
campagna. Percorse valli, bussò alle porte di misere case di contadini.
“Pecore,
signor mio?” dicevano quelli.” Se ne avessi vista anche solo una me la sarei
già mangiata, con la fame che ho”.
Venne
la sera e Arturo non aveva trovato che paura e miseria sul suo cammino.
Non
sapendo più che fare, né dove andare, poiché era buio e il freddo gli pungeva
le ossa, si decise a picchiare ancora una volta alla porta di una casupola.
“Ci
sarà pure un po’ di fuoco per riscaldarsi, in questa casa” pensò.
Ma
bussa bussa non apriva nessuno.
“Che
sfortunaccia! E ora che si fa?” si chiese Arturo.
Il
cielo stellato sembrava guardarlo compassionevole mentre cercava un angolo più
riparato dove accoccolarsi a passar la notte.
Decise per un albero, sotto le sue fronde sparse un po’ di foglie, a mo’
di giaciglio, e vi si sdraiò.
Stanco
com’era, il sonno non tardò ad arrivare.
Il
guaio fu che gli vennero sogni più brutti della fame nera che aveva.
Sognò
le sue pecore macellate, il re con la
spada in mano che cercava di ammazzarlo, un fungo alto e grosso che lo fermava
e damigelle vestite da lupi che gli danzavano intorno.
Al
mattino si svegliò in un bagno di sudore.
“Mamma
mia che incubi! E non ho certo fatto indigestione!”
Mentre
pensava a queste cose e si sgranchiva le gambe rattrappite per il freddo, vide la
luce fioca di una candela accendersi dentro la casupola.
“Allora
c’è qualcuno! Riproverò a bussare.
Dovranno pur aprirmi se non son mostri senza pietà.”
“Che
c’è? Chi è che mi disturba a quest’ora del mattino?” chiese una vociaccia.
“Apri,
buon uomo, te ne prego! Sono un povero pastore che ha smarrito le sue pecore,
ho passato la notte all’addiaccio e ho tanta fame.”
“Se
sei un pastore e hai perso le pecore peggio per te, vuol dire che non ne sei
degno. Vattene, o ti mando contro il mio cane che ha più fame di te!”
“Almeno
dimmi: per caso hai visto le mie pecorelle? Un bel gregge di pecore grasse e
lanose, che belano dolcemente e sono più
tenere di un fiorellino?”
“Non
ho visto niente di tutto ciò, qui non son passati né pecore né lupi ma a voler
esser precisi forse più lupi che pecore. Avevano due gambe e grosse spade al fianco.
Guardati da loro, è tutto ciò che posso dirti. E ora addio”.
Il
povero Arturo capì che lì non c’era nulla da fare e si riprese la via del castello,
cercando qua e là qualche radice da rosicchiare.
Per
la gran fame quasi non ci vedeva più e procedeva a stento, con passi lenti e
incerti.
“Chissà
se qualcuno è tornato” si chiese quando fu in vista del maniero.
Per
tornati erano tornati, dove mai fossero stati questo restò un mistero.
Tutti
gli fecero mille feste, non sospettavano certo che fosse fuggito di nascosto al
re.
Arturo
ebbe da mangiare e da dormire nel lusso del suo bel lettino, prima però volle
vedere le sue amate pecorelle che, guarda un po’, erano tornate anche loro e dormivano beatamente nel recinto.
“Mie
piccole, domani all’alba sarò qui e insieme andremo via. Dormite, ora, che ci
sarà camminare a lungo, domani”.
La
mattina seguente, di buonissima ora, Arturo si svegliò, prese con sé quel che
poteva per mangiare e vestirsi, un cavallo per andar più veloce e andò dalle sue pecore.
Aprì
il recinto e le fece uscire una ad una ma quelle, che sempre lo avevano
seguito, ora quasi non volevano saperne di andargli dietro. Ci volle del
buono e del bello per convincerle.
Quando finalmente si decisero il sole era già alto all’orizzonte e una guardia lo vide.
“Ohilà,
che fai con quelle pecore?” gli gridò, ma Arturo ormai era in groppa al suo
puledro e galoppava via veloce, mandando avanti il gregge che adesso correva
più di lui.
Gli
armigeri si gettarono al suo inseguimento come cani contro la lepre ma il pastorello
aveva un bel vantaggio: prese una via
che a cavallo c’era di che rompersi il collo, le guardie invece rimasero
bloccate e furono costrette a tornare indietro per prendere una strada più
agevole.
Intanto
Arturo si era inoltrato nel bosco e beato chi l’acchiappava!
Fuori
dal boschetto si apriva una radura più verde del verde in primavera, piacque
molto alle sue pecore e siccome quello che piaceva alle sue pecore piaceva
anche a lui, si fermò e le lasciò brucare in santa pace mentre lui suonava lo
zufolo.
Quando
furono satolle Arturo le portò via di là perché gli armigeri del re potevano
raggiungerli da un momento all’altro e di sicuro non c’era da scherzare.
Un
torrente attraversava la campagna, il pastore si fermò a bere un sorso d’acqua:
non l’avesse mai fatto! Anche un minuto può essere prezioso quando c’è tutto
un esercito a cercarti.
Arturo
se li trovò addosso all’improvviso, non poté fare nulla, solo arrendersi e
farsi mettere le catene a mani e piedi.
Procedevano
veloci, malgrado il gregge e Arturo incatenato, erano quasi arrivati quando il
cielo si oscurò all’improvviso e scoppiò un brutto temporale. Il più violento che si fosse mai
visto da quelle parti.
Si
scatenò come una furia, e il bello fu che si accaniva solo su di loro, intorno
tutto era luce e pace, e il cielo era azzurro.
“Com’è
possibile? Che magia è questa?” si chiedevano quei soldati, sgomenti.
Non
riuscivano quasi a camminare, tanto era forte quella pioggia, un uragano di
vento e acqua che li seguiva senza dare tregua.
“Signore,
“ disse un soldato al capitano,” qui c’è di mezzo il pastore, ne sono certo.
Che sia un mago? Lasciamolo andare, o non ne caveremo le gambe.”
“Lasciarlo
andare? Sei impazzito? Se lo viene a sapere sua maestà ci fa ammazzare tutti!
Andiamo avanti, il castello non è lontano, lì saremo al sicuro”.
In quello stesso istante un fulmine colpì lo scudo e l’alabarda del capitano in
persona, che cadde a terra e per poco
non morì.
“Ohi,
ohi, ohi!” si lamentava il poveraccio.” Forse hai ragione, meglio rischiare
domani il castigo del re che una morte
certa subito. Guardie, liberate il prigioniero e le sue stramaledette pecore!”
Arturo
fu subito liberato e scacciato malamente insieme al gregge; il cielo si rischiarò in un baleno, perfino
la terra apparve asciutta, come se non fosse caduta neanche neanche una goccia
di pioggia.
Il
pastorello prese molto volentieri la via della fuga, questa volta con la
benedizione delle guardie che di certo non l’avrebbero inseguito.
Cammina
cammina arrivò dove voleva arrivare, un posto che sapeva solo lui, dove le
pecore avrebbero avuto di che mangiare e star contente e lui zufolato in libertà, senza obbedire più a
nessun comando.
Il
suono che gli uscì...ah, che delizia!
“Ecco,
questa è la tua musica! Ora non perderti mai più, ragazzo mio!” disse una voce
che sembrava d’oltretomba.
“Chi
sei? Che vuoi?” chiese il pastore roteando gli occhi.
“Sono
lo spirito del tuo zufolo, e ora posso
riposare. A me devi la salvezza: io sono il fungo e anche il temporale. Senza
di me saresti morto mille volte, ricordalo, e non cadere mai più in tentazione,
non gettare per le monete il tuo talento. Coraggio, dunque! E sii felice, amico
mio.”
“Ma
sei un mago?”
“Come
se lo fossi. E ora addio”.
La
voce scomparve e non tornò mai più, da allora in poi la musica di Arturo fu
la più dolce, la più armoniosa che si fosse mai sentita; nella campagna attorno
si spargeva come un olio che cura le ferite.
I fiori crescevano, le messi erano rigogliose,
i contadini lavoravano contenti “Per carità, suona ancora” gli chiedevano.
E
lui suonava, suonava, trovando sempre nuove melodie.
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