Un gatto e un lupo, eroi della bontà: nelle fiabe questo e altro!
Ma, chissà, forse anche nella realtà...
buona lettura.
Barbara Cerrone
C’era
una volta un bellissimo gatto di nome Arturo.
Arturo
era di colore bianco e nero, aveva il pelo lungo, gli occhi color verde prato e
faceva sempre le fusa.
Viveva
nel paese di Piuinlà, poco, ma
davvero poco, lontano da qua.
Arturo
era vivace, allegro, affettuoso e
dolce, così dolce che i suoi amici lo
avevano soprannominato Miele e col
nome di Miele era conosciuto da tutti i gatti, che gli si attaccavano proprio
come le mosche al miele.
Se
andava in paese a fare un giro, tutti i mici che incontrava, randagi o residenti, gli
dicevano:
“Miele,
dove vai di bello?”
E
lui, che era un felino a modo, educato e gentile, ogni volta rispondeva:
“A
spasso, amico mio. Vuoi venire con me?”
Ecco
che allora, piano piano, di gatto in gatto, una lunga fila di mici si univa a
lui, ognuno tenendo con la zampa la coda di quello che stava davanti; la gente
che li vedeva passare si metteva a ridere per quanto erano buffi, così, in fila
indiana.
“Guarda,
guarda, c’è Miele che passa con tutti i mici dietro!” dicevano, e per farli
passare si mettevano ai lati della strada, come fosse un corteo regale.
Ogni
volta era uno spasso in paese quando arrivava Miele. Tutti, gatti e umani, lo
amavano; nessuno resisteva, neanche Aurelio, gatto selvatico e pieno di boria, che stava sempre solo e
scacciava chiunque gli si avvicinasse.
Ma
Miele no, non lo scacciava, e quando lo vedeva arrivare non perdeva occasione
per unirsi alla fila dei felini.
Con
tutti questi amici la vita di Miele scorreva serena nel paese di Piuinlà.
Ogni
mattina si alzava dalla cuccia, si lavava ben benino, faceva colazione e poi
andava a spasso nei boschi.
Una
mattina si alzò come sempre di buon’ora, fece un’abbondante colazione e uscì
come per andare in paese, dove si formò la solita fila dietro di lui e la gente
che si sbellicava dal ridere.
Giunto
a una svolta che portava dritti dritti verso il bosco, Miele ebbe un dubbio: proseguire l’esplorazione o
tornare indietro, dato che era tardi e la fame cominciava a farsi sentire?
Vedendo
che si era fermato i gatti che lo seguivano cominciarono a protestare.
“Che
fai, Miele? Ti fermi proprio ora? Noi vogliamo andare avanti!”
E
tanto fecero e tanto dissero che Miele si convinse e proseguì, nonostante il
buco nello stomaco.
La
primavera stava arrivando e il bosco era tutto un fiorire di colori, fra il
cinguettio degli uccelli che volavano da un albero all’altro.
Tutto
questo piaceva a Miele, gli piaceva davvero, tanto che decise di fermarsi per godersi lo spettacolo.
Il
caso volle che proprio quel giorno si aggirasse nel bosco la strega Malfatta,
una megera che odiava i gatti e soprattutto odiava Miele perché tutti lo
amavano e lo seguivano ovunque andasse.
Vide
i mici che si divertivano, contenti della bella gita e l’invidia, che sempre la
rodeva come un tarlo, la fece avvampare al punto che quasi si incendiava.
In
un baleno le venne un’ideaccia:c’era una buca profonda proprio in mezzo alla
strada, la strega pensò di nasconderla ben bene con della paglia presa dalla
sua caverna, poi si mise in attesa dietro un albero.
Quando
Miele arrivò in prossimità della fossa non si accorse di nulla e ci cadde dentro
come un sasso, trascinandosi dietro tutti i suoi amici.
“Ahhhh!”
gridarono i poveretti.
Nessuno
poteva sentirli, tranne Malfatta, che se la rideva di gusto aspettando il
momento giusto per farsi vedere.
“E
ora che si fa?” chiesero i mici a Miele.
“E
io che ne so? “ pensava Miele, grattandosi la testa.
Era
solo un giovane micio caduto in una buca, ci sarebbe voluto un umano per
aiutarli, o la volpe Aida, ma quella i gatti se li mangiava se aveva lo stomaco
vuoto...no, l’umano era più sicuro.
Ad
un tratto ebbe un’idea che lì per lì gli sembrò geniale: chiedere aiuto. Come? Ma
gridando come un pazzo, è ovvio!
Si
diede allora a miagolare a voce spiegata, tanto forte che lo sentirono dal
bosco alto le civette addormentate.
“Uhh!
Ma chi è il cafone che fa tutto questo rumore in pieno giorno? Silenzio, qui
c’è chi sta riposando!” brontolò Amelia, la vecchia civetta che viveva sul platano più alto.
“Ehhh, di sicuro sono ragazzi! Ma se li prendo...” gli fece eco
aprendo un occhio solo il gufo Orazio.
Miele
capì allora che non era aria, finché non fosse passato da lì qualche umano gentile
nessuno nel bosco li avrebbe potuti aiutare.
Tentarono,
è vero, di arrampicarsi e risalire da quella fossa disgraziata ma inutilmente:
il terreno era scivoloso per la pioggia recente e qualcosa, chissà cosa, ogni
volta li faceva ricadere giù, giusto al punto di partenza.
Si
fece sera, Miele e i suoi compagni di sventura avevano una fame da lupo, e a
proposito di lupo...
“Uh,
che appetito avrei, stasera, se solo ci fosse qualche animale gentile disposto
a farsi mangiare da un vecchietto come me!” borbottava Amilcare, di professione
lupo, anche lui in giro da quelle parti in cerca di un boccone da mandar giù.
“Ci
mancava solo questa!” pensò Miele, ma non disse nulla ai suoi amici che intanto
si erano addormentai e ronfavano a più non posso.
“Ucci,
ucci, sento odore di gattucci! Non mi piace la carne di gatto ma stasera non
posso far tanto il difficile, in questo boscaccio non ho trovato nulla da
metter sotto i denti, perciò Amilcare accontentati. Vediamo un po’ dove sono
nascosti questi teneri micetti.”
Cerca
e ricerca, non senza qualche lupesca difficoltà perché il suo naso era afflitto
da un tremendo raffreddore e non fiutava bene gli odori, Amilcare alla fine
scovò la buca, con i nostri amici dentro.
“Ah,
eccoli qua!” disse.” Ora vi tiro fuori io, bei micetti! Che ne dite di farmi da
cena? Oggi non ho mangiato nulla, sapete?”
Detto
ciò allungò la zampa per arraffarne uno ma la buca era troppo profonda e fu
costretto a sporgersi, e a sporgersi, e a sporgersi così tanto che cadde anche
lui, atterrando sul povero Miele.
“Ahhh!”
urlò il lupo, e tutti i mici si svegliarono.
Il
terrore si sparse come sabbia sui loro musi baffuti: un lupo! Ed era anche
affamato! Peggio di così non poteva andare.
Fra
i nostri amici fu tutto un affannarsi di zampe e code alla ricerca di una via
di fuga che non c’era.
“Miaooo!
Aiut...ahhh! Ohhh!” gridavano, mentre Miele quasi soffocava sotto il corpo
spelacchiato del vecchio Amilcare.
“Ti
vuoi spostare, sciocco di un lupo? Mi stai schiacciando, non lo vedi?” gridò Miele che dolce era dolce ma con chi lo
minacciava sapeva pur difendersi.
“
E secondo te mi diverto a star così? Io ti vorrei mangiare, mica schiacciare.
Questa buca mi va stretta, perbaccolina!”
Amilcare
tentava di girasi ma ogni movimento che faceva lo incastrava ancora di più,
Miele avrebbe voluto essere una biscia per sgusciar via e liberarsi da quel
peso.
Detto,
fatto.
“Uh?
Ma chi è che si è portato una biscia?” disse il lupo vedendola scivolare da
sotto la sua coda striminzita.
“Sono
io, Miele, non mi riconosci?”
“E
come potrei se ti travesti da biscia? Tutto per non farti mangiare. Mi spieghi
come hai fatto?”
“Non
lo so. Ero qui che pensavo vorrei essere una biscia, vorrei essere una
biscia e poi eccomi qua, biscia scivolosa. Chissà com’è successo. Intanto
io risalgo su, esco da questa buca e
vado a cercare aiuto.”
Ma
la buca era scivolosa anche per le bisce che sanno bene cos’è scivolare, così
più Miele tentava di risalire più quella
bucaccia lo respingeva giù.
“Inutile,
di qui non si esce” esclamò il nostro, sconsolato.
La
notte calò scura e umida, come ha il vizio di fare sempre la notte,
specialmente nel bosco, che da verde si fa nero nero.
Mille
canti di uccelli notturni si levano allora, e occhi rotondi di civette e gufi
guardano roteando se c’è in giro qualche succosa preda per i loro becchi
affamati.
I
mici intanto tremavano per il freddo.
“Neanche
a scaldarci sei buono, lupo!” brontolò Aurelio che era proprio stufo di star là
sotto insieme a tutta la marmaglia felina e a un vecchio lupo, per giunta senza
un bocconcino da digerire con un lungo sonno.
“Che
vuoi gattaccio? Ringrazia che quasi non mi muovo sennò parola mia ti avrei già
mangiato.”
Andarono
avanti così a litigare per un bel pezzo finché il sonno, padrone di tutti gli
occhi quando finisce la giornata, vinse, e tutti finalmente si
addormentarono.
Si
svegliarono all’alba, Miele fu il primo, si ricordò di essere una biscia e
pensò che era tempo di tornare gatto, visto che ad esser biscia non ci aveva
guadagnato nulla.
Cominciò
a pensare con intensità:”Vorrei essere un gatto, vorrei essere Arturo detto
Miele.” e subito i suoi lunghi baffi bianchi gli fecero il solletico sul naso.
“Ecco
il nostro Miele!” gridarono tutti.”Ora ci tirerà fuori di qui!”
“Magari!”
pensò il nostro amico, che davvero non sapeva più che fare.
D’un
tratto gli venne un’altra idea: perché non chiedere di diventare uccello? Di
certo così sarebbe potuto volar via e andare a chiedere soccorso in paese.
Perché non ci aveva pensato prima?
Vorrei essere un uccello,
vorrei essere un uccello, prese a pensare, e più pensava più
sentiva crescere le penne, e poi il becco; in
due minuti, eccolo là, il passerotto Miele.
A
volte certi guai son proprio duri da superare. Miele sbatteva le ali, ma più le
sbatteva più queste si facevano pesanti e lo tiravan giù, come sassi attaccati
al collo.
“Ehhh,
qui c’è un mistero” fece il lupo, che si credeva un gran cervellone.
“Proprio
così, ed eccolo, il mistero!” disse Malfatta affacciandosi dall’imboccatura.
“La
strega Malfatta!” gridò Miele.
“Sì, siete miei prigionieri, e per sempre. Ora andrò
a prendere la pala, coprirò la buca e
addio a voi! Ah, ah, ah!”
La
sua risata stridula echeggiò sinistra per tutto il bosco, i nostri amici ebbero
i brividi dappertutto, anche sulla lingua.
Nel
frattempo nel villaggio tutti si stavano chiedendo che fine avessero fatto
Miele e i suoi amici, spariti nel nulla
dal giorno prima.
Dopo
un’attenta valutazione, si decise di organizzare le ricerche e si misero in
campo tutti i migliori cerca-gatti della contea: chi andava di qua, chi andava
di là, ognuno aveva la sua zona da esplorare.
Nel
bosco andarono i cerca-gatti di Nonsolastrada,
i più ferrati nelle ricerche dei dispersi.
Malfatta
li vide da lontano e si mise subito al lavoro per fermarli.
“Coda
di cane, coda di gatto, che tu non possa trovar neanche un ratto. Coda di
rospo, coda di uccello, possa cadere tu dentro il ruscello.”
Ed
ecco che i cerca-gatto di Nonsolastrada,
i più esperti, i più bravi cerca-gatto in circolazione, caddero come un solo
cerca-gatto dentro un ruscello, dove una corrente fortissima li trascinò fino
al fiume, e sarebbero annegati se non fosse stato per un pescatore di buon
cuore e buona lenza che li ripescò uno ad uno.
La
strega Malfatta, felice e contenta di essersene liberata, era già tornata dai
nostri amici brandendo la sua pala rugginosa.
“Eccomi,
carini, adesso vi sistemo io!” disse.
“Aspetta,
Malfatta, noi non ti abbiamo fatto nulla, “fece Miele,” lasciaci andare, ti
prego!”
“Uhm,
no e poi no. Questo è il momento più bello della mia vita. Finalmente mi libero
di te, dolce, buonissimo, insopportabile
gatto. Troppo buono per i miei gusti.”
“Libera
almeno i miei amici, tu ce l’hai solo con me, non è vero?”
“Humm,
questa proposta potrebbe anche interessarmi...e sia! Loro sono liberi ma tu
resti nella buca e io ti sotterro, siamo d’accordo?”
“Sì,
siamo d’accordo.” mormorò il povero Miele.
Uno
ad uno i mici che lo accompagnavano furono fatti uscire da Malfatta, che li
prendeva per la zampa e li tirava su.
“E
io?” disse Amilcare quando fu il suo turno di essere salvato.
“Vieni
anche tu, non ho niente contro i lupi.”
Amilcare,
che in fondo era una buona pasta di lupo, proprio non se la sentiva di lasciar
nei guai Miele, così tentò un’impresa disperata: fece segno al micio di star
zitto, lo prese per la collottola e se lo mise nella tasca destra dei
pantaloni, poi si lasciò tirar su dalla strega.
“Accidenti
quanto pesi!” brontolò Malfatta.
“Eh,
ultimamente ho esagerato con la carne, forse dovrei diventare vegetariano.”
La
strega però era furba, e quando Amilcare uscì si accorse subito che la tasca
destra dei suoi pantaloni era troppo gonfia e che doveva esserci qualcosa là dentro.
“Che
hai lì, fammi vedere.”
“Niente,
è solo un fazzoletto da collo, sai, la mia cervicale...”
“Hum,
vuota subito quella tasca o ti rispedisco là sotto.”
Amilcare
tentò di opporsi ma quella megera fu più svelta di lui, gli mise una delle sue
manacce sporche nella tasca e ne tirò fuori Miele, tutto tremante.
“Ah,
traditore di un lupo! Vuol dire che creperai insieme al tuo amico. Giù!”
E
li rispedì dritti dritti nella buca tutti e due.
Infine,
con la sua palaccia riempì di terra quel pertugio fino a coprirlo completamente, di Amilcare e Miele ormai non si vedeva
più neanche il naso.
Appena
arrivati al villaggio, gli amici di Miele raccontarono quel che era successo.
Ben
presto la gioia di tutti si tramutò in disperazione quando si seppe che Miele
si era sacrificato per salvare i suoi amici, e che ora era sepolto in una buca e nessuno
poteva salvarlo perché c’era di mezzo la strega Malfatta. Contro di lei,
nessuno, gatto o umano, poteva far nulla.
La
tristezza si impadronì di quel borgo che pianse il suo Miele, e anche il lupo,
già che c’era.
Per
fortuna di Miele nel bosco le notizie corrono veloci: di farfalla in farfalla,
di fringuello in fringuello passano da una creatura all’altra e presto presto
giungono alle orecchie di chi le deve sentire.
Al
limitare del bosco viveva un vecchio mago, molto buono, nemico acerrimo di
Malfatta.
Il
suo nome era Verde.
Appena
Verde seppe di Miele e Amilcare corse
subito in loro soccorso.
Quando
fu davanti alla buca, libro delle magie alla mano, si schiarì la voce, prese
fiato e disse:
“Boffi,
baffi e biffi, venite subito fuori da quegli abissi”.
In
men che non si dica, un vortice di terra scura si sollevò, scoprendo le teste
impolverate di Amilcare e Miele.
“Grazie,
grazie di averci liberati” esclamò Miele uscendo dalla fossa.
Anche
Amilcare ringraziò con un bell’inchino, entrambi chiesero al mago come potevano
sdebitarsi per quel che aveva fatto ma Verde non voleva ricompense, gli bastava
sapere che erano salvi e che la strega era stata sconfitta.
I
nostri amici si congedarono dal loro
salvatore fra mille complimenti e presero la via del ritorno.
Quando
in paese li videro arrivare non credevano ai loro occhi, la gioia superava ogni
parola. E non parlarono, infatti, si abbracciarono e basta.
Andarono
avanti a festeggiare per una settimana, Amilcare e Miele furono proclamati
eroi, anche il lupo prima di tornare alla sua tana ebbe una medaglia che gli appuntarono
sul gilé: da quel momento fu ufficialmente riconosciuto come lupo buono e
nessuno, cacciatore o contadino, gli diede più la caccia, né lui cercò di
mangiare gli animali del villaggio.
Miele
riprese la sua vita di sempre ma con più gioia, perché ora sapeva quanto fosse
bella la vita. E la libertà.
Appena
Malfatta seppe che i due se l’erano cavata grazie a Verde, per la rabbia avvampò
al punto che prese fuoco per davvero,
come un fiammifero.
Rimasero
solo le sue ceneri, ma quelle nessuno le volle spargere sul terreno perché di
certo erano stregate e neanche la terra le avrebbe sopportate.
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