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giovedì 11 giugno 2020

Matriosca

Una storia chiama l'altra, come una matriosca ne contiene...quante? 
Ecco la mia ultima fiaba, per chi avrà voglia di leggerla.

Matriosca

Barbara Cerrone



La fata Aurelia era stanca. Aveva lavorato tanto durante l’inverno, e ora che la primavera era arrivata e il sole scaldava la terra, sentiva proprio il bisogno di prendersi una vacanza.

“Sono a pezzi. Ho bisogno di un periodo di ferie,” disse alla sua fata capo,” vorrei andare a trovare mia cugina Nasturzia. Un po’ di riposo mi farà bene, tornerò fra una settimana.”

“C’è ancora tanto lavoro ma se sei proprio stanca va bene, mi raccomando però, tra una settimana esatta ti voglio di nuovo in servizio!”

“Va bene, ci sarò”.

Fata Aurelia preparò le valigie in quattro e quattro otto, mise nella sua gabbietta il gatto Fred e saltò sulla sua carrozza alata, diretta a sud.

Fu un bel viaggio, sereno e senza contrattempi. Nasturzia l’aspettava in giardino, in mezzo agli oleandri e ai limoni fragranti.

“Benvenuta, cugina! Ti vedo un po’ sciupata, hai fatto bene a prenderti una vacanza.”

“Cara Nasturzia, lo credo bene che sono sciupata, mesi di duro lavoro senza un attimo di tregua sciuperebbero qualunque fata. Eh, ma ora starò qui, in buona compagnia e senza far niente per almeno una settimana.”

“Ben fatto. Olmina, fammi la cortesia: prendi tu le valigie di Aurelia che io ho il solito mal di schiena e non posso portare pesi”.

Olmina era l’anziana tartaruga che viveva con Nasturzia fin da cucciola. Era molto robusta e nonostante l’età si rendeva sempre utile nelle faccende di casa.

“Eccomi, eccomi. Bentornata, Aurelia. Felice di rivederti” disse Olmina caricandosi le valigie sulla corazza.

Olmina era una tartaruga di nobile famiglia. I suoi genitori provenivano da una delle casate tartarughesche più in vista della zona, vivevano nel parco della villa di proprietà degli Audibene, i più ricchi della regione che si davano un sacco di arie perché il re in persona li aveva voluti a corte in più di un’occasione.

La madre di Olmina si chiamava Eufrasia, il papà Guidalberto. Si erano sposati in tenera età ed avevano avuto subito una bella tartarughina, Olmina, appunto.

La nascita della piccola aveva reso perfetta la felicità dei giovani sposi, finché un giorno…

“Ginevra, “ disse il signor Audibene alla moglie,” il re ci ha di nuovo chiamati a corte, questa volta per sempre. Dobbiamo lasciare la villa.”

“Oh, ma che onore, che alto onore! E cosa ne faremo della casa? La venderemo?”

“Non so, vedremo. Intanto si parte, poi si vedrà.”

“ E i nostri cani? Le tartarughine?” chiese la moglie, che intanto stava già pensando a quali abiti portare con sé.

“I cani li porteremo con noi, quanto alle tartarughe…si arrangeranno. Qui hanno di che mangiare per un anno”.

Gli Audibene partirono il giorno dopo, lasciando le tartarughine al loro destino.

Il parco era grande, è vero, e c’era un bell'orto, sul retro, le tartarughe mangiarono insalata finché ce ne fu poi, dato che nessuno coltivava più l’orto perché anche la servitù se n’era andata con i padroni, di insalata non ce ne fu più nemmeno una foglia e le povere tartarughe rischiavano di morire di fame.

“Che ne sarà di noi?” chiese un giorno Eufrasia al marito.

“Non lo so, moglie mia. Ciò che più mi preoccupa è come faremo a crescere la nostra creatura. Ha bisogno di nutrirsi per crescere”.

Eufrasia e Guidalberto ci pensarono giorno e notte, alla fine decisero di chiedere aiuto alla fata Nasturzia.

La fata, generosa com’era, accolse la famigliola nel suo bel giardino, dove Eufrasia Guidalberto e la piccola Olmina furono di nuovo felici e con la pancia piena.

Quando Olmina fu adulta decise di restare con la sua amata fata, non avrebbe saputo immaginare un posto migliore per vivere.

Era anziana, ormai, ma ancora forte e volenterosa, era felice di aiutare Nasturzia quando c’era qualche lavoro pesante da fare.

L’aveva aiutata anche molti anni prima, quando avevano traslocato dalla vecchia casa a questa, più grande e accogliente.

Insieme a loro viveva anche Tebaldo, il giardiniere.

Tebaldo era un omino piccolo e curvo, timidissimo, scappava sempre quando avevano visite. Oppure si faceva rosso rosso in volto e sorrideva pieno di imbarazzo.

Era nato in un lontano villaggio, oltre il monte, oltre l’orizzonte.

I suoi erano contadini, la sua famiglia coltivava la terra da generazioni. Suo nonno Erberto aveva avuto un premio dal re in persona per l’abbondanza di messi che i suoi campi davano ogni anno. Nonna Elvira, invece, era considerata la migliore sarta del paese, perfino la regina andava da lei per farsi cucire gli abiti da gran sera.

Tebaldo aveva una sorella più giovane, Giovannina, che da piccola era una vera peste, le era molto affezionato e al suo matrimonio aveva pianto tanto per la commozione.

Il figlio di Giovannina, Guglielmo, voleva fare l’esploratore, per questo una mattina, salutati i genitori, si era imbarcato per terre lontane.

Aveva con sé pochi bagagli perché gli esploratori devono viaggiare leggeri e sapersi arrangiare alla bisogna.

Sbarcò in Asia, prima, e la esplorò in lungo e in largo. Laggiù conobbe un principe che gli offrì un passaggio sul suo vascello diretto in una terra che Guglielmo non aveva mai sentito nominare.

Scesero a terra dopo quattro mesi e ciò che vide riempì i suoi occhi di immensa meraviglia.

C’erano uccelli con ali di velluto, e mosche blu che si posavano sui fiori e discutendo con le api si caricavano un po’ di nettare sulle ali e lo succhiavano, volando qua e là.

C’erano volpi e tigri che facevano colazione con certa frutta succosa e dolce, arrampicate sugli alberi, e buoi e cavalli tutti blu, sdraiati sull'erba, a chiacchierare del più e del meno in una lingua che lui non conosceva.

C’era di che esplorare per una vita intera, e Guglielmo infatti restò lì, e ancora oggi vaga per quella terra misteriosa dove c’è sempre qualcosa da scoprire.

Laggiù ha trovato anche una compagna, sua moglie Ottavia, che percorre con lui quella terra in lungo e in largo, senza fermarsi mai.

Ottavia è bionda, piccola e sempre allegra. Per forza, viene dalla terra dei ridenti!

Dai ridenti non si conosce  la malinconia, tutti sono felici. Perfino la natura sembra che sorrida, anche quando piove.

Una volta il loro re, stufo di tutta quell'allegria, fece un editto col quale ordinava ai suoi sudditi di piangere almeno per cinque minuti al giorno. La gente eseguì ma ogni volta che cominciavano a scendere le lacrime su quelle guance abituate a sollevarsi in un sorriso ecco che a tutti scappava da ridere e il re fu costretto a ritirare l’editto: “Come non detto” disse, e tutto finì lì.

Anche Tolomeo, il mago del sorriso, proveniva dalla terra dei ridenti.

Come mago non era un gran che ma come allevatore di formiche un vero fenomeno.

Riconoscimenti, premi, coppe d’oro e d’argento…tutti lo acclamavano, perfino i re.

Le sue formiche erano le più belle, le più addestrate, le più educate del mondo intero e lui ne andava fiero, giustamente.

Anche di lei, Clorofilla, nonostante tutto.

Clorofilla era cresciuta poco, come formica sembrava più una pulce ma Tolomeo l’amava ancor di più per questo. La sua era una storia triste. Nata in una famiglia delle più illustri, educata nei migliori formicai, aveva i modi di una vera signora ma era piena di complessi perché era così piccola che spesso chi la incontrava per la prima volta faticava a capire da dove proveniva quella vocina dolce e suadente.

Clorofilla allora non diceva niente ma tornata nel suo formicaio, e di nascosto ai suoi genitori, piangeva lacrime piccole piccole, ma pur sempre lacrime.

Se ne accorse un giorno la formica Eusebia, vecchia nutrice di Clorofilla, e le parlò.

“Piccina mia, che hai da piangere? Sei una formica fortunata, hai tutto quel che si può desiderare.”

“Nutrice mia, lo so,” rispose Clorofilla tra le lacrime, ”è che sono troppo piccola, quasi non mi si vede. Le altre non sono come me.”

“Piccina mia, non piangere per questo, credi che a volte esser piccoli e non esser visti può tramutarsi in una gran fortuna. Per esempio un certo umano di nome Pollicino ne ebbe gran vantaggio”.

E gli narrò la storia che tutti conoscete, di Pollicino e di come se la cavò.

La storia consolò un poco la piccina, soltanto un poco, ma ciò bastò a farla smettere di piangere.

E quando Tolomeo partecipò ad una gara di formiche in terra  straniera, che per l’appunto era il paese dove viveva la nostra Aurelia, Clorofilla decise di lasciare il formicaio e di restare nel suo bel giardino dove formiche non ce n’erano ancora e i confronti con le altre non si potevano fare.

Fu così che Clorofilla divenne la formica di Aurelia, una formica senza formicaio.

Fata Aurelia la portava sempre con sé, anche in vacanza. 

Dormivano insieme, ora, nel lettone della bella stanza che Nasturzia aveva preparato per loro.

Un buon riposo, ecco che ci voleva per Aurelia, che dormì a lungo, per una settimana.

Fra un sonno e l’altro prendeva il tè con la sua buona amica, e chiacchierava del più e del meno nel suo giardino pieno di fiori.

La bella vacanza passò in un attimo, si sa che volano sempre via veloci, i giorni, in questi casi!

Aurelia fece ritorno a casa,  Clorofilla in tasca, ben riposata e pronta a ricominciare.

“Aurelia, ben tornata,” l’accolse la fata capo,” giusto in tempo: abbiamo un problema. La vicina di casa…”

E sciorinò i guai più che disastrosi della vicina e di molti altri ancora. C’erano un mare di interventi fatistici da fare, le vacanze erano ormai lontane.

Aurelia si rimise subito al lavoro, e la nostra storia, come le sue vacanze, ora è finita.

 

 

 

 

 

 

 

 


4 commenti:

  1. Una vacanza davvero ristoratrice e rigenerativa per tutti. Bella! :)
    sinforosa

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  2. Grazie, sei gentile. Come sempre.
    Un saluto
    B

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  3. Grazie, mi fa piacere che ti sia piaciuta.
    Una buona serata a te

    Barbara

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