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giovedì 28 maggio 2020
Viaggio dietro le quinte di un grande teatro
Questa non è una fiaba - Omaggio del Presidente a Walter Tobagi -
L'Ansa riporta oggi il bellissimo omaggio del Presidente Mattarella alla figura di Walter Tobagi, barbaramente ucciso dalle brigate rosse il 28 maggio del 1980.
Professione fata
"Cosa vuoi fare da grande?" domande che a volte i bambini si sentono fare dagli adulti.
Le risposte possono essere fantasiose ma non so quanti dichiarerebbero così, apertamente, il segreto progetto di esercitare la nobile professione di fata...
Buona lettura
Professione fata
Barbara Cerrone
Marta
era una bambina molto carina e intelligente, le piacevano un sacco di cose come
giocare, correre, combinare guai, mangiare dolci e patatine fritte e stare a
letto fino alle undici del mattino.
Fratelli
non ne aveva, viveva in una grande casa con i genitori e il cane Armando, un pastore maremmano bello
e irruento, capace di distruggerti un divano nel breve spazio di un pomeriggio
estivo.
Nel complesso Marta era una bambina come
tante, serena e piena di vitalità.
Solo
una cosa la rendeva diversa dagli altri, un sogno molto particolare che più che
un sogno per lei era un progetto.
“Da
grande voglio fare la fata” diceva sempre alla mamma.
“Va bene ma prima devi studiare” le rispondeva ogni volta la madre.
Lei, per studiare,
studiava eccome: fiabe e racconti dove le fate la sapevano lunga e risolvevano
guai di ogni tipo, anche i più strani. Da Cenerentola alla Bella Addormentata,
nulla sfuggiva a Marta del mondo magico delle sue amate fate.
Del
resto, non voleva certo essere una di quelle ciarlatane che vendevano fumo
senza arrosto, lei aspirava ad essere una fata di quelle serie, subito pronte a
realizzare desideri, rimediare guai, vincere mostri e liberare principi e
principesse da incantesimi e magie varie.
Una
vera professionista, insomma.
Un
giorno, mentre era nella sua cameretta a leggere uno di quei suoi libri con l’amica
Amalia, e ripeteva una certa formula che
la fata recitava nella storia per liberare una tal principessa dalla fattura che
la imprigionava, successe una cosa molto strana.
Non
so come fu ma la sua stanza scomparve, insieme alla sua amica, e Marta si ritrovò
in un magnifico salone. Al posto del letto c’era un grande trono fatto di marmo
e di frutta secca. Sul trono era seduto un re che somigliava a un carciofo ma
aveva gli occhi buoni, e dolci, come le prugne, e le mani inanellate e belle
che avevano l’aspetto degli asparagi.
“Un
re verdura” si disse la bambina, e quasi quasi si sarebbe messa a ridere se
solo non avesse avuto paura di farlo arrabbiare.
“Vuoi
vedere che a forza di recitare formule magiche qualcosa è successo per
davvero?” si chiese.
Non
fece in tempo a darsi una risposta che re verdura le rivolse la parola.
“Giovane
fata, dimmi, tu che sai tutto della magia: come posso liberarmi
dall'incantesimo che mi vuole più simile all'orto di mio padre che a un giovane
principe aspirante al regno? Maga Almidia mi ridusse così cent’anni fa e non
c’è stata fata capace di riportarmi alle mie fattezze umane. Vuoi provarci tu?
Saprò ricompensarti, chiedi ciò che vuoi.”
“Io?”
chiese Marta con gli occhi che sprizzavano meraviglia.
“Tu,
sì! E cerca di far presto perché soltanto ieri ho visto una ragazza che mi
piace, vorrei farne la mia regina e con lei regnare per tanti e tanti anni, non
vegetare come faccio adesso, carciofo fra i carciofi, mani d’asparago e corpo
di melanzana.”
“Io?
Sono una bambina e poi non so ancora fare magie” avrebbe voluto dirgli, ma si
trattenne: mica poteva dir di no a un re, seppure vegetale!
Così,
senza sapere come era successo né dove si trovava esattamente, capì che il suo
bel sogno di essere fata ora era lì, alla portata delle sue manine, non le
restava che cogliere l’occasione e dare prova di ciò che aveva imparato leggendo fiabe a più non posso.
Frugò
nella mente per vedere se fra tutte le tiritere impresse nella sua memoria ce n’era una adatta alla situazione.
Pensa
e ripensa finalmente gliene venne in mente una, con aria d’importanza si mise al
centro del salone e cominciò a recitare a gran voce la formula che doveva
riportare un re carciofo a sembianze umane.
Lì
per lì non successe nulla, Marta stava già pensando a dove poteva scappare
nel caso il re l’avesse presa male.
Il
carciofo, pardon, il re tamburellava con le dita asparago sul
bracciolo dorato del suo trono, era impaziente, si vedeva bene, del resto come
dargli torto? Chiunque, al posto suo, lo sarebbe stato.
Questo,
capirete bene, aumentava la tremarella della nostra amica che si vedeva già
imprigionata o chissà cosa.
Ma la fortuna, o non so come chiamarla, quel giorno stava dalla sua parte.
Abbassò
gli occhi, Marta, solo per un attimo. Quando li rialzò vide il suo re verdura
alto e imponente vicino a lei, che sorrideva tendendole la mano.
“Grazie,
sapevo che mi avresti liberato! “disse il bel giovane che le stava accanto.
Del
carciofo e della melanzana neanche l’ombra. Gli asparagi spariti, al loro
posto mani bellissime, affusolate, si protendevano verso di lei come per
abbracciarla.
Marta
fu proclamata Fata di Corte, e la sua fama corse veloce per ogni angolo del
regno: chi la cercava di qua, chi la chiamava di là, non aveva tempo neppure per le fiabe. Aveva così tanto lavoro che
a volte, la sera, non riusciva a infilarsi il pigiamino, per quanto era
stanca. Si coricava così, vestita, e la mattina dopo via al lavoro, a liberare
qualche sfortunato da un incantesimo o da una fattura.
Non
si poteva dire che non fosse felice, amata e rispettata, faceva il lavoro che
aveva sempre sognato e viveva in un bellissimo palazzo, ma... c’è sempre un ma che
complica le cose, anche nelle situazioni più fortunate.
Il
suo ma stava nel fatto che da mesi ormai non vedeva più
i genitori e quel cane -tempesta dell’Armando, per non parlare degli amici. Aveva tanta nostalgia di casa, al punto
che un giorno ne parlò al re.
“Sire,
sono orgogliosa e felice di essere fata di corte. Ho realizzato il mio sogno ma
ho tanta nostalgia di casa e dei miei genitori. E poi, in fondo, sono ancora una bambina!”
“Ti
comprendo, “rispose il re,” è cosa assai normale. Ti concedo il permesso di
andare a fargli visita ma solo se prometti di tornare.”
“Tornerò,
sire, lo prometto. Mi piace troppo questo lavoro di fata per lasciarlo così.
Grazie, mio re”.
Per
tornare a casa pensò di usare la stessa formula che aveva recitato
il giorno in cui, dalla sua cameretta, per un caso o per vera magia, era arrivata fino lì.
La
recitò ad alta voce, con grande convinzione, e neanche a dirlo funzionò
davvero!
Tutto
il palazzo scomparve in un secondo, Marta era di nuovo nella sua stanzetta, con i
pupazzi, le bambole e i suoi libri. Tutto era come l'aveva lasciato quel giorno lontano. Solo Amalia
si era addormentata, mentre di là in cucina si sentiva la mamma trafficare ai
fornelli: che fosse già ora di cena?
Svegliò
l’amica che si riscosse tutta felice, dicendo che aveva fatto un sogno incredibile: Marta era una fata di corte e tutti l’acclamavano, guadagnava fior di monete d’oro
ed era ricca quasi quanto un re!
Marta sorrise: Amalia non si era accorta di nulla, per tutto quel tempo aveva solo dormito.
Di
sicuro anche la mamma non sapeva.
A
lei non restava che abbracciarle entrambe e mantenere stretto il suo segreto, fino alla
prossima partenza per il mondo delle sue amate fate.
sabato 23 maggio 2020
Un anniversario da non scordare mai
venerdì 22 maggio 2020
La lucertola è morta!
Io ne ho salvate molte, di queste belle creature amanti del sole, togliendole letteralmente dalla bocca della mia gattina. Lei, quando ciò accade, mi guarda stupita come per chiedere;
" Perché?"
Infatti non c'è nessuna cattiveria da parte sua, Berenice non ha consapevolezza del male che fa.
La morte è sempre una perdita, anche quella, così cruenta, di un esserino come una lucertola. Ogni vita è importante.
Tuttavia la natura ha le sue leggi, spesso ci appaiono crudeli ma il Paradiso Terrestre non è qui. Non ancora, almeno.
Sognando un Paradiso sulla terra dove esseri umani e animali vivano in armonia fra loro e nessuno uccida più, neppure per necessità, vi lascio alla mia filastrocca e prometto che molto presto mi farò perdonare per la tristezza del soggetto con una fiaba dal lietissimo fine.
Buona lettura.
La lucertola è morta!
La lucertola è morta,
ecco il suo funerale,
non sarà mai risorta,
la sua morte è gran male.
Nella mente or assorta,
nel dolor generale,
c’è un’idea un po’distorta
della morte fatale.
Vien la bara sorretta
dalle scure falene,
“E un’orrenda vendetta!”
dice il geco, e
sostiene
che la morte è
sospetta,
mentre piange le pene
dell’amica diletta,
sangue delle sue
vene.
“Ma che dici, scioccone!”
si erge ora la vespa
“Non lo sai del
burrone?
E di come lei, mesta,
presa dalla tensione
per presenza molesta
di felino in azione,
scelse una via
funesta?
attraverso un bel
prato,
ove trovò la mazza
di quell'uomo impegnato
in un gioco di razza,
e lì contro ebbe il
fato
e con esso la mazza.
Là diè l’ultimo
fiato”.
Si convinse il buon geco
che la storia era
vera,
pianse ancora lo
spreco
di un’amica sincera,
di una vita già speco
da mattina a sera
di un amor quasi
cieco
per stagion
primavera.
Pianser tutti gli
amici,
l’esistenza perduta,
i bei giorni felici
dell’amica caduta.
Dalle verdi pendici
di una valle ora muta
gemon quegli infelici
per la morte sì
bruta.
Tu lucertola bella
che riposi nel prato
non c’è buona novella
né speranza, per fato,
che la tua navicella
con Caronte dannato
ti riporti, o
sorella,
qui da noi, nel
creato.
Or la morte hai per
cella,
e in eterno ti è dato
un ergastol crudele:
così vien condannato
chi non vive in
Babele
come umano creato,
ed assaggia col fiele
la fin del suo
mandato.
mercoledì 20 maggio 2020
Il centenario
sabato 16 maggio 2020
Ognuno ha la sua gabbia - "Le nuvole in gabbia"
Le nuvole in gabbia
Topo Alfredo aveva
fame.
“Tessa, tesoro, che si
mangia stasera?” chiese alla moglie.
“Quello che vuoi, però
prima bisogna far la spesa.”
Tessa stava guardando
la sua fiction preferita alla tv, quando questo succedeva nessuno, nemmeno un
gatto, avrebbe potuto smuoverla.
“Ho capito. Vado io”
disse Alfredo.
“Non tornare con quel
formaggio ammuffito che hai portato ieri, mi raccomando: ci sarà pure qualcosa
di meglio nella dispensa! La muffa fa male alla salute, lo dicono sempre in
tv”.
Alfredo promise, poi
prese la borsa della spesa e uscì fischiettando dal vecchio fienile.
Vivevano lì da
generazioni, lui e i suoi avi.
“Per un topolino di
campagna non c’è un posto migliore di questo” diceva nonno Eraldo.
Alfredo lo ripeteva
sempre alla moglie che sognava di andare ad abitare nella casa padronale, difronte
al fienile.
Topo Alfredo non capiva
come Tessa potesse desiderare davvero di vivere in quella grande casa piena di
rumore e infestata da umani di tutte le grandezze ad ogni ora del giorno e
della notte.
Molto meglio il vecchio
fienile, riservato e silenzioso, dove al massimo si faceva vedere quel tipo
alto alto che lavorava per gli umani, trafficare un po’ con il fieno e poi se
ne andava, lasciando lui e la sua famiglia liberi di scorrazzare come e quanto
volevano.
Alfredo si guardò
intorno per controllare che non ci fosse Fred, il gatto, poi attraversò il
cortile veloce come un fulmine e si infilò in casa passando dalla finestra del
ripostiglio, che era sempre aperta.
Nessun umano
all'orizzonte. Alfredo tirò un sospiro di sollievo: non aveva paura di loro, di
solito riusciva sempre a fargliela in barba, solo facevano troppo rumore per i
suoi gusti. Specialmente quelli di taglia piccola. Gli impedivano la
concentrazione, mentre lui aveva bisogno di averne tanta, in quel momento.
Conosceva la casa come
la sua tana, esplorò tutte le stanze, nel caso ci fosse stato in giro qualche
residuo di cibo; visto che non c’era nemmeno una briciola fuori posto, si
diresse verso la grande cucina, in fondo al corridoio.
La dispensa era una
specie di vecchia cassapanca che stava proprio sotto la finestra, c’era una
fessura in basso, da lì Alfredo scivolava dentro senza difficoltà e andava a
far man bassa di cibarie.
Anche quel giorno
Alfredo il topo si infilò nella dispensa e cominciò a rovistare con energia.
Era una buona giornata,
c’erano provviste da mangiarci un anno intero. Alfredo prese tutto quello che
le sue zampette poterono arraffare, riempì il sacco che aveva con sé e scappò
via.
Era già alla finestra
quando lo sguardo gli cadde su due canarini chiusi in una gabbia che entrando
non aveva notato.
“Poverini, come fate a
resistere chiusi in una gabbia?” chiese il topo scuotendo il muso appuntito.
“Non abbiamo scelta, ci
hanno chiusi qui tanto tempo fa” rispose Pik, il più vivace dei due.
“Sono stati gli umani,
immagino.”
“Sì, sono stati loro,”
disse Pak,“ma non per cattiveria, sono convinti di volerci bene. Scappare,
dici? Fosse facile! L’unica speranza è la piccola, quella che chiamano Alice.
Lei apre spesso la gabbia ma ogni volta l’umana grande arriva in tempo a
fermarla.”
“Uhm, allora è presto
fatto. Bisogna attirare l’attenzione di questa…Alice e distrarre la grande. Ci
penso io.”
“Davvero ci aiuteresti?”
chiesero in coro i canarini.
“Certo! Datemi solo il
tempo di tornare nella tana a portare le provviste e poi torno con i rinforzi.”
Tornato a casa Alfredo chiamò
subito a raduno i suoi piccoli.
“C’è una missione da
compiere, venite con me” disse.
“Missione? Quale
missione?” chiese preoccupata la moglie, che da lui se ne aspettava sempre una.
“Si tratta di aiutare
due canarini chiusi in gabbia. Ho bisogno di uno di voi, ragazzi: chi viene ad
aiutarmi?”
Figuratevi!
“Io!” “Io!” gridarono i
topolini, spingendosi l’un l’altro.
“Basta, basta, se fate
così decido io. Viene con me…tutti e due. Andiamo, non c’è tempo da perdere.”
“Alfredo, sei sicuro
che non ci sia pericolo? I piccoli…” chiese di nuovo la moglie.
“Stai tranquilla, ci
sono io a proteggerli. Saremo prudentissimi. Tu intanto apparecchia la tavola
che fra poco si mangia”.
Topo e topolini
attraversarono di corsa il cortile, presero per la solita finestra ed entrarono
in casa.
Alfredo chiese ad
Augusto, il più piccolo dei suoi figli, di cercare l’umana di nome Alice per
farsi seguire da lei fino alla gabbia, e al più grande, che si chiamava Adelmo,
di tirarsi dietro l’umana grande in modo che non corresse dietro alla figlia, come
faceva sempre, per impedirle di aprire la gabbia.
I topolini obbedirono
felici, fregandosi le zampe.
Augusto trovò Alice in
cucina, stava mangiando una caramella e non gli badava, nonostante lui facesse
mille smorfie per farsi notare.
Alla fine fu costretto
a farle il solletico ai piedi, la bambina abbassò lo sguardo e finalmente lo
vide.
“Uh, che carino!”
esclamò.
Augusto filò via subito
verso la stanza dove era appesa la gabbia, voltandosi continuamente indietro
per vedere se la bambina lo seguiva.
La piccola non deluse le
sue aspettative. Appena fu davanti alla gabbia, come al solito, l’aprì.
E l’umana grande? Era
in cortile, alle prese con Adelmo, gli stava correndo dietro con la scopa in
mano.
Alice prese in mano i
due canarini e cominciò a vezzeggiarli, dimentica ormai del topolino.
Fu facile per Pak e Pik
sfuggirle dalle manine. Volarono via in un attimo, e ringraziando topo e
topolini, si allontanarono tra gli alberi e ciao.
I nostri roditori,
trionfanti dopo la felice impresa, stavano facendo ritorno al fienile quando
due nuvole scure come la notte li chiamarono dal cielo.
“Ehi, voi, non crederete
mica di farla franca? Vi abbiamo visti. Avete fatto scappare i canarini, ora lo
diremo agli umani e vi scateneranno contro il gatto Fred.”
“Abbiamo fatto una
buona azione, erano in gabbia e soffrivano. Perché volete fare la spia?” disse
Alfredo con tono supplichevole.
“Perché vi abbiamo
visti e lo vogliamo dire. E poi perché oggi siamo arrabbiate: non vedi come
siamo nere? Qui tra poco faremo un temporale che neanche te lo immagini, caro
il mio topo!”
“E sia! Se volete
proprio farci un dispetto, allora in gabbia ci mettiamo voi due, così vediamo
se vi piace” disse Alfredo agitando le zampine.
“Le nuvole in gabbia,
figurati! E come pensi di chiuderci? Noi siamo fatte d’acqua, sciocco di un
roditore.”
“C’è poco da ridere.
Ora vi faccio vedere io!”
Alfredo tornò nella
grande casa, dove nel frattempo era scoppiato un putiferio perché la fuga dei due
uccellini era stata scoperta.
In quel trambusto
nessuno si accorse del topo che prese indisturbato la gabbia e svelto svelto se
ne tornò in cortile.
“Ecco,” fece Alfredo,
“ora vedrete come vi ci infilo, o non mi chiamo più Alfredo”.
Le nuvole fecero una
smorfia come per dire Povero illuso,
a dire il vero nemmeno il topo sapeva come fare a imprigionarle, ma voleva a
tutti costi dare una lezione a quelle due sbruffone e lì per lì si inventò una
formula che se non sbaglio diceva così:
“Topin topetto, io sono
un maghetto. Topin topolone, chiudi qui dentro quel nuvolone.”
Detto, fatto.
Una nuvola era già
imprigionata.
Il primo a sorprendersi
fu proprio Alfredo.
“Tirami subito fuori da
qui!” gridava la malcapitata, ma Alfredo faceva finta di non sentire e intanto si
preparava a ingabbiare anche la seconda.
“Topin topetto, io sono
un maghetto. Topi topolone, chiudi dentro anche quest’altro nuvolone”.
E l’altra nuvola era
bella che chiusa.
Il fatto è che per
quanto si sforzassero e si spremessero per sgocciolare via, le prigioniere non
riuscivano a fare nemmeno una gocciolina. Più che nuvole sembravano due pietre,
compatte e ferme dentro la loro prigione.
“Ma come avrò fatto? “si
chiese Alfredo grattandosi la testa.
“E ora divertitevi un po’ voi a stare in
gabbia, “soggiunse il topo,” io e i miei topolini andiamo a pranzo,
arrivederci”.
Appese la gabbia a un
gancio dietro il fienile e se ne andò a mangiare con la sua famiglia.
Avevano un bell’urlare
e inveire, le nuvolone, sempre più nere per la gran rabbia. Alfredo non ci
pensava nemmeno a farle uscire. Per il momento.
“Che stiano almeno un
giorno e una notte a meditare sulla loro cattiveria” disse alla moglie che quasi
quasi si era impietosita.
Il giorno dopo il
nostro topo si alzò di buon mattino, voleva vedere cosa facevano le due
prigioniere e se era il caso liberarle, perché la lezione era durata
abbastanza.
Sotto la gabbia c’era
una specie di laghetto che ad avere una barchetta ci si poteva quasi navigare: le
nuvole avevano pianto tutte le lacrime che avevano per la disperazione di essere
ingabbiate.
Si erano fatte magre
magre e pallide come lenzuoli, tanto che Alfredo quasi non le riconosceva.
“Vedo che vi siete
calmate” disse.
“Ti prego, facci
tornare libere lassù, nel nostro amato cielo. Non faremo la spia, lo
promettiamo!” lo supplicarono in coro.
“Va bene, va bene, vedo
che avete imparato la lezione. Ora uscirete e niente scherzi, eh? Tornate lassù
e fate le brave, almeno fino al prossimo temporale”.
Aprì la gabbia e le due
nuvolette salirono leggere su nel cielo, e siccome erano stanche e deboli per
quanto erano dimagrite, si sdraiarono e si misero a dormire.
“Tutto è bene quel che
finisce bene,” sentenziò Alfredo, “ora mi merito una bella colazione. Un
momento: vedo due uccellini laggiù, somigliano…ma sì! Sono Pik e Pak!”
Erano proprio loro, i
canarini che aveva liberato il giorno prima e stavano volando verso di lui.
“Salve Alfredo, “disse Pik,
“abbiamo visti laghi e foreste, mari e monti, città e paesi. Ora siamo di nuovo
qui, vogliamo andare dalla nostra Alice, ci manca tanto. E chissà quanto le
siamo mancati.”
“Ma vi rimetteranno in
gabbia. Siete sicuri di volerlo fare? Io non so se riuscirò a liberarvi un’altra
volta.”
“Si, vogliamo proprio tornare
dalla nostra piccola amica ora, “fece Pak svolazzandogli sulla testa, “abbiamo
visto tante cose e assaporato la libertà, torneremo in gabbia solo per mangiare
e fare…i nostri bisognini. Siamo sicuri che gli umani, vedendoci di nuovo qui,
capiranno che possono lasciare aperta la gabbia perché noi, anche se dovessimo
partire di nuovo, torneremo sempre a casa.”
“Forse avete ragione,
ragazzi. Auguri, allora. Ci vedremo qui in giro, eh?”
Pik e Pak volarono in
casa fischiettando, come se niente fosse.
Dal cortile, Alfredo
sentì le grida di gioia della bambina, e la festa che si fece nella grande casa
quel giorno.
Gli umani non chiusero
mai più Pik e Pak nella gabbia, i canarini volavano liberi e felici in casa e
fuori.
Quando la bambina andava
a spasso si posavano sulle sue spalle e uscivano con lei, in giro per il paese,
tanto che Alice fu presto soprannominata Alice canarina.
Il soprannome se lo
tenne stretto anche da grande, quando i suoi amici non c’erano già più.
Quanto ad Alfredo,
visse felice e a lungo con la sua famiglia.
I figli crebbero sani e
forti, quando anche loro furono padri nonno Alfredo, durante le lunghe sere
d’inverno nel fienile, ai nipotini raccontava sempre la storia di quando tutti
insieme avevano liberato dalla prigionia i canarini e messo in gabbia due
nuvoloni neri.
martedì 12 maggio 2020
Bloggermiao
Ci sono gatti capaci di qualunque cosa...🐱👓
Buona lettura.
Bloggermiao
Barbara Cerrone
Teofilo era un gran bel gatto.
Grosso e vigoroso, con un pelo rosso e lucido e un’andatura fiera da felino
deciso, era amato e rispettato da ogni gatto del vicinato.
Aveva tutto, Teofilo: una bella
umana che lo adorava, una casa comoda con un grande giardino tutto per lui e
tanti nascondigli da esplorare nel verde della campagna intorno.
La sua vita scorreva tranquilla e
senza particolari sorprese, proprio come piaceva a lui.
Finché non arrivò il nuovo
vicino.
Nella casa accanto a quella della
sua padrona si trasferì un ragazzo, un tipo simpatico che gli regalava sempre
qualche buon bocconcino.
Quando Teofilo andava a fargli
visita lo trovava sempre davanti a quella scatola che la sua amica umana
chiamava computer e che lui non trovava per niente
interessante, non capiva infatti perché
piacesse tanto agli umani.
Un giorno il nuovo vicino, che si
chiamava Alberto, lo invitò a sedersi accanto a lui.
“Vuoi fare il blogger anche tu?” Disse.”
Vieni, mettiti qui, accanto a me”.
Teofilo non sapeva cosa fosse un
blogger ma Alberto era simpatico e stargli vicino gli piaceva, così si
accoccolò accanto a lui sulla sedia e si mise a guardare dentro la scatola.
“Ti piace, eh? Chissà cosa
vedi…vieni, dammi la zampa che ti faccio scrivere qualcosa”.
Prese la zampa di Teofilo e
cominciò a battere delicatamente sui tasti della scatola. Teofilo sentiva un
po’ di solletico ma come tutti i gatti era curioso e voleva proprio vedere cosa
sarebbe successo a pestare tasti in quel modo.
Dopo un po’ che pestava vide che
la scatola si era riempita di cose strane: sembravano mosche.
“Bravo, guarda quanto hai
scritto!” fece Alberto.
Scritto? Le mosche dentro la scatola le chiamano scritto? Pensò
Teofilo, perplesso.
“Ora però vai a casa, la tua
amica ti starà cercando. Torna domani, scriviamo ancora, te lo prometto”.
Se scrivere era quel pestare leggero
a Teofilo non dispiaceva affatto, perciò il micio, che capiva qualche parola
dell’umano, si disse che in fondo non era una brutta idea continuare, e se ne
andò con la precisa idea felina di ritornare il giorno dopo per continuare quel
buffo gioco.
E così fece, infatti. Tornò il
giorno dopo e quello dopo ancora, ogni volta Alberto se lo metteva accanto, gli
prendeva la zampa e gli faceva scrivere tante di quelle mosche nella scatola da
riempirci una stanza intera.
“Sai che ti dico, micio? Per te è
giunta l’ora di fare un tuo blog. Tutto tuo, capisci? Si chiamerà…Bloggermiao, ecco! Prenderemo tutto
quello che hai scritto in questi giorni e faremo tanti bei post, che ne dici?”
Teofilo lo guardava senza capire:
di che parlava quello strano umano, cos’era un blog? E un post…un post,
cos’era? Roba da umani, di sicuro, dunque perché avrebbe dovuto immischiarcisi?
Ma Alberto non era tipo da
tentennamenti, quando si metteva in testa una cosa la faceva e basta.
“A proposito, micio, io non so
nemmeno il tuo nome. Aspetta, ecco, è scritto qui sulla medaglietta: Teofilo. Posso
chiamarti Teo? Teofilo è troppo lungo! Teo questo è il tuo blog, ora facciamo
il primo post. Ci copiamo le prime cose che hai scritto. Che ne dici?”
Teo guardò lo schermo con aria
dubbiosa: c’erano le solite mosche, solo che erano disposte in un altro modo, e
poi si vedevano delle cose strane.
“Vedi che belle immagini? E che
grafica? Eh, avrai un successone”.
Grattarsi la testa quando è
perplesso non è cosa tipica del gatto, ma se lo fosse stata Teo si sarebbe
grattato volentieri perché per lui era tutto incomprensibile e quell’umano più
strano di tutti quelli che aveva conosciuto fino ad allora.
“Vediamo se qualcuno lo commenta,
il tuo primo post. Domani leggeremo”.
Nonostante si fosse divertito a
mettere mosche in scatola, il giorno dopo Teo non si presentò dal suo nuovo
amico, tutte quelle chiacchiere su post e blog gli avevano messo una certa
agitazione, preferì tenersi alla larga almeno per qualche giorno, anche se a
dire il vero quel pestare sui tasti un po’gli mancava.
Riprese la vecchia abitudine di
fare il giro degli orti intorno a casa, andò a trovare i vecchi amici che non
vedeva da tanto tempo, si trattenne con loro giusto il tempo di informarsi
sulle ultime novità, e poi tornò a casa, senza pensare più ad Alberto e alla
sua scatola piena di mosche.
C’è chi dice che non si sfugge al
proprio destino. Nel caso di Teo non fu proprio il destino. Oppure sì? Comunque
sia una mattina Alberto andò a cercare il micio blogger a casa sua.
“Salve, “si presentò,” sono il
nuovo vicino, mi chiamo Alberto. Il suo gatto è venuto spesso a farmi visita,
ma negli ultimi giorni non si è più visto. Sta bene? Sa, ero preoccupato, temevo
gli fosse successo qualcosa.”
“Salve, so chi è lei. Teofilo sta
benissimo, grazie. Sa come sono i gatti, esplorano, vanno in giro. Vedrà che si
rifarà vivo, quando ne avrà voglia.”
“Si, immagino di sì, ma vede c’è
una grossa novità che lo riguarda.”
“Una novità che riguarda il mio
Teofilo?”
“Sì, il suo non è un gatto come
gli altri. Teo è un …micio blogger.”
“Cosa?”
“Sì, un micio blogger. Io sono un
blogger, Teo un giorno si è avvicinato al computer mentre scrivevo, mi sembrava
incuriosito così mi è venuta l’idea di fare anche di lui un blogger. Gli ho
preso la zampa e l’ho aiutato a battere sui tasti. La settimana scorsa ho
pubblicato il suo primo post e, non ci crederà, ma è stato un successone! I
commenti sono tutti entusiastici e ha già così tanti followers che se continua
così mi batte. Ecco, ho stampato alcuni commenti, tanto per farle vedere.”
Tirò fuori dalla tasca un paio di
fogli mezzo accartocciati, li stese un po’ e li mostrò alla donna.
Il primo post era quello che
aveva avuto più commenti, la gente aveva pensato di tutto leggendolo, perfino
che si trattasse di un codice segreto, e molti si erano messi d’impegno a
cercare di decifrarlo, come in un gioco
di spie.
Altri ancora giuravano che Teo
fosse un marziano, non un micio, e che avesse scritto i post nella sua lingua
arzigogolata, perciò chiedevano una traduzione, e così via.
Poi c’erano i rivenditori di cibi
per animali che avendo fiutato l’affare proposero al micio blogger di
pubblicizzare nel suo blog i loro prodotti in cambio di confezioni omaggio di pappe
prelibate.
Si era fatto vivo perfino un editore: voleva
pubblicare l’autobiografia di Teo, primo gatto blogger, e prevedeva vendite da
capogiro.
L’umana di Teo, che si chiamava
Tessa, non credeva ai propri occhi.
“Incredibile! Ma cosa ha scritto
mai il mio Teo per scatenare tutto questo delirio?”
“Ecco, legga, ho qui alcuni dei
suoi post.”
Tessa lesse e rilesse i primi tre
post di Teo. Li lesse da destra, li lesse da sinistra, ma il risultato non
cambiava.
Il primo, che era anche il più
lungo, diceva:
“Yipàòkòlip456@okòkdso, paòèaòò8òa!
Aòsdjc3009238ieojosdijcnw90; oalms#map. Z. Q.”
Il secondo non era molto diverso
dal primo, solo mancava la punteggiatura, quel giorno Teo era svogliato e aveva
scritto così, senza troppo impegno.
“E tutta questa gente impazzisce
per un blog così?” chiese, stupita, Tessa.
“Si, e credo che siamo solo
all’inizio”.
Non aveva torto, Alberto, quello
era solo l’inizio.
Tessa parlò a Teo, il quale non
capì molto ma che Alberto lo aveva cercato lo afferrò, e anche le parole
“pappa” e “regalo” non sfuggirono alle sue orecchie esercitate.
Il giorno seguente tornò dal suo
amico blogger.
“Eccoti, finalmente! Vieni, ti
faccio vedere quanti commenti hai avuto. Sono tutti pazzi di te, o forse sono
tutti pazzi e basta ma che importa? Dai, andiamo a battere un altro po’ sui
tasti”.
Batterono a lungo sui tasti,
quella volta, tanto che Teo era un po’ stanco quando smisero.
Il gatto continuò a far visita al
suo amico anche nelle settimane successive, pestando tasti a più non posso, e
come si divertiva!
Ad un certo punto arrivarono
anche le prime pappe in regalo: mousse al tonno e gamberetti, bocconcini al
salmone e tanto pollo, che non guastava mai.
Teo era un micio intelligente e non ci mise molto a collegare le pappe
con quel pestare tasti sulla scatola, perciò si diede a farlo con maggiore
impegno.
Il computer si riempiva di mosche
e poi altre mosche, in un continuo via vai di punti neri sullo sfondo celestino
della scatola.
Non ci si crede, se ne accorse la
televisione.
“Un gatto da record!” disse un
giornalista.
“Si può intervistare?” chiese un
altro.
In capo a sei mesi Teo era
diventato una star. Giornalisti intrepidi si appollaiavano sugli alberi del
parco vicino alla casa di Tessa armati di cannocchiale per spiare il momento in
cui Teo sarebbe uscito per la solita passeggiata e poi… flash! Lo immortalavano nelle pose più impensate.
Lo seguivano, perfino, sperando
gli sfuggisse un Miao di troppo,
qualcosa di sensazionale da farci un bello scoop e duplicare la tiratura.
Teo cominciava a non poterne più.
Aveva nostalgia dei tempi d’oro in cui viveva come un gatto, e non era inseguito giorno e notte da intrusi che controllavano tutte le sue mosse, neanche le pappe gustose che riceveva in regalo gli bastavano più per sopportare tutto quel trambusto.
Di punto in bianco smise di
andare dal suo amico Alberto, che ebbe un bel pregarlo perché tornasse a
scrivere con lui: niente da fare, il micio era deciso.
Il telegiornale diede la notizia,
edizione delle 20.30. La gente non ci voleva credere, i centralini della tv
impazzirono.
“Ma è proprio vero?” “Lascia sul
serio?” chiedevano quelle brave persone, incredule.
Ma micio Teo non se ne diede per
inteso, e non concesse nemmeno un’intervista.
Gli parve già più che sufficiente
pestare per l’ultima volta i tasti per salutare e dire a tutti quanto si era
divertito, fare le fusa e andarsene poi a caccia di lucertole con gatto Fred e
micia Leonora, e poi a nanna nella sua cuccia blu.
domenica 10 maggio 2020
Festa
domenica 3 maggio 2020
Giornata mondiale della libertà di stampa
Che cosa significa veramente? Che si può scrivere ciò che si vuole? Quali sono i limiti, i confini?
Sbattere in faccia alla gente lo spettacolo della violenza è forse libertà? Se diventa spettacolo credo di no, è violenza nella violenza.
Di sicuro libertà di stampa è libertà di testimonianza: ciò che è sotto ai nostri occhi non si può nascondere senza offendere il principio di onestà, e negare il diritto di informazione.
Essere testimoni e non doversi nascondere, non dover tacere.
Un esempio, ma le libertà forse sono tante.
Il sensazionalismo invece tarpa le ali alla libertà, la svilisce, rendendola merce. Tuttavia i giornali si devono vendere, e allora? Allora ci vuole pazienza, coltivare l'orto dell'onestà spesso non porta frutti immediati.
Come sempre, ho più domande che risposte, sarà forse perché non è una questione così lineare e facile come potrebbe sembrare.
Nelle fiabe invece è tutto più semplice e cristallino. No, nessun manicheismo.
Solo il vecchio e abusato sogno di un mondo migliore.
Buona stampa a tutti.