Italo Calvino, nella sua bellissima
introduzione a “Fiabe italiane”, dice che la nostra fiaba sviluppa atteggiamenti che la
differenziano dalla tradizione germanica, più sanguinaria e truculenta, ed è “...percorsa da una continua e sofferta trepidazione
d’amore”.
Bellissima immagine. Mi piace. Molto.
Calvino... che altro c’è da dire su uno scrittore così grande? Si è già scritto tanto, e
autorevolmente, su di lui, non potrò certo aggiungere niente di originale; un
tributo, questo sì, che ho già fatto in parte scrivendo una raccolta di racconti
ispirati alla fiaba popolare, alcuni dei quali pubblicati anche su
questo blog.
Nel
volume dedicato al novecento della sua *Storia
della Letteratura Italiana, Giulio Ferroni scrive:
“
Calvino era dotato di una spontanea curiosità per le forme narrative
originarie, di una singolare disposizione ad abbandonarsi al fiabesco, a
giocare con le situazioni del racconto, a trovare combinazioni di tipo comico o
fantastico...”
Ed
è questa propensione al fiabesco, probabilmente, ad averlo condotto sulla
strada tanto impegnativa quanto affascinante dell’indagine sulla tradizione
delle fiabe italiane: due anni di ricerca che nel 1956 hanno dato come frutto
la famosa raccolta di duecento Fiabe
italiane, tratte da diverse tradizioni regionali e trascritte in una lingua semplice e piana, anticipando
l’interesse per la fiaba che più tardi sarebbe stato al centro di importanti
ricerche sulla narrazione.
Italo Calvino,
con questo lavoro, si è confrontato con figure e schemi legati al meccanismo
del narrare, ciò che si è rivelato per lui un formidabile esercizio di stile, e la sua lingua, dice sempre il Ferroni, ha
raggiunto “...un’eccezionale capacità di combinare meccanismi narrativi, di
isolarne le strutture essenziali , eliminando al massimo ridondanze, residui
espressionistici, pause liriche o sentimentali.”
In omaggio a lui, ancora una fiaba tratta dalla mia raccolta.
Buona lettura.
*Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Mondadori Education S.p.A, Milano 1991
Il
ritratto di Cece
Barbara Cerrone
Cece
di mestiere faceva il mendicante. Nel suo lavoro Cece era il migliore: come
mendicava lui, con quegli occhi che diventavano umidi non appena un qualsiasi
gaglioffo con l’aria di aver qualche soldo in tasca gli si parava davanti, e
quell’aria di vittima innocente che conquistava anche il più avaro degli avari
infognato nella sua spilorceria, non mendicava nessuno.
Di solito pigolava la sua miseria all’ingresso
della chiesa, nei giorni di festa consacrata, gli altri invece li passava nella piazza del paese,
seduto per terra, col sudicio cappello in mano e la lacrima sempre pronta.
Di senno ne aveva poco e per questo lo chiamavano Cece lo sciocco, ma un giorno gli capitò un fatto che ancora si
ricordano in paese e chi c’era lo racconta a chi non era nato e lo tramanda
come una filastrocca.
Piombò
dal nulla un uomo alla locanda, un forestiero pieno di boria che tutti
battezzarono il signore.
Costui,
gran sacca sulla spalla e baffi da sparviero, alto e robusto come uno che
mangiava tutti i giorni e perciò strano in quel luogo sperduto dove si digiunava due giorni su tre, parlava una lingua sconosciuta agli abitanti del
villaggio che a dire il vero non conoscevano bene nessuna lingua e parlavano
come potevano.
“Un
boccale di quello buono” urlò in una specie di francese come un vero signore anche se urlare in quel modo non è certo usanza da signori, “portalo presto che ho da correr
via come una lepre.”
“Sissignore,” rispose il locandiere, grasso
come si conviene ad uno del suo nobile mestiere,” vi servo subito.”
Il
vino, come sempre, era di quello cattivo che più cattivo non si poteva avere ma
il forestiero non se ne avvide: altro segno che proprio signore e avvezzo al
bere buono non era, ma nessuno se ne poteva accorgere in quel paese di morti di
fame e passò in cavalleria come l’urlo spropositato.
“E
ora che mi hai dissetato,” riprese l’ospite , “fammi mangiare. Che c’è di buono?” “Fagioli, signor mio e un certo
stufatino che ho messo via per i clienti di riguardo.”
“Via, non m’imbrogliare… io di riguardo! Son
di passaggio e casomai un pollo da spennare, eh? Ma basta: dammi quel che hai,
ho fame e pochi vezzi per la testa.”
Subito
gli portò, quel cuoco sopraffino, ciò che la sera prima aveva arrangiato per se
stesso, pensando a quanto glielo poteva
far pagare in più del dovuto, dato che
quello era forestiero, ricco e senza tanti grilli.
In
quel momento delicato, però, fece il suo ingresso il Cece, inusitato ospite,
perché soldi non ne aveva di certo, gente disposta a fargli l’elemosina lì non
ce n’era mai e il locandiere non lo teneva in grande simpatia.
“Cece,
tu qui?” fece quest’ultimo, piuttosto contrariato. “Ma che vuoi mai qui dentro?
Non è il posto tuo. Vattene.”
“Lascialo,
invece,”disse il forestiero, col boccone in bocca, “ che venga qui e si sieda
accanto me.”
“Come volete. Vieni, Cece, mettiti qui col
signore…ma badate voi che è uno stolto come pochi e vi darà il tormento.”
“Vedremo. Tu fallo venir qui, poi si vedrà”.
Cece
si accomodò accanto a quello sconosciuto, e non si pose domande né cavilli:
c’era un pasto da mangiare come un cristiano, seduto come un uomo che ha
denari, e lui felicemente si adattò.
“Che
prendete, buon uomo?” gli chiese il commensale.
“Un po’ di pane, se non è troppo, e se c’è il
lardo, una fettina appena.”
“Bene.
Portatene un bel po’. E che bevete? Non acqua, spero.”
“No, piuttosto, se ce n’è ancora, di quel buon
vino che bevete voi.”
“Ah, bravo! Tenete, eccone un bicchiere!”
Andarono
così avanti un bel pezzo, finché quel locandiere, stanco per l’ora tarda, non se ne uscì col dire che chiudeva e che il
buon Cece si doveva accomodare nel suo solito posto, cioè per strada.
La
cosa piacque poco al forestiero che però si dovette rassegnare davanti al viso storto del padrone.
“E sia,” disse,”andiamo a letto. “
E
qui venne il bello, con tutti i suoi
legati.
Il
forestiero, tutto ad un tratto, si mise a fissare il mendicante come se
l’avesse visto in quel momento: gli girò e rigirò il viso controluce non so più
quante volte, poi, come se niente fosse, aprì la sacca e tirò fuori pennelli e
tavolozza.
“Ti voglio fare un bel ritratto, corpo di
mille anguille!” disse al Cece imbambolato. “Ti renderò famoso se stai buonino e fermo, e tu lascialo qui e vai pure a letto, noi
restiamo ancora un po’, il tempo di dipingere questo bel soggetto. Finché
reggono l’estro e la candela. Costui è mio ospite, fino alla fine del lavoro,
perciò ti pago doppio, stai tranquillo, ma s’ha da far così o me ne vado.”
Figuratevi la sorpresa di quel locandiere
campagnolo nel sapere di aver per cliente una tal specie umana, talmente rara
da quelle parti da doverla quasi studiare come certuni studiano gli insetti o
le piante esotiche. Non fece una piega, questo è chiaro, ma si assicurò di non
lasciar denari in giro né cose che avessero un valore, ché tal genia era famosa
anche per non esser tanto delicata se si trattava di far bricconate e fidarsi
non era né pratico né sano.
Andò
avanti fin quasi al mattino, il buon pittore, poi, stanco e senz’altra fantasia
se non quella di ficcarsi sotto le coperte “A
dormire, ora!” disse a Cece. “ Sono
stanco e tu dormi in piedi. Vieni, andiamo nella stanza, che è piccola ma ci arrangeremo in qualche
modo.”
Cece
insistette per sdraiarsi a terra e a malincuore il pittore accettò, voleva
dargli una certa poltrona, polverosa, sì, ma comoda in apparenza, che almeno
non dormisse come un cane! Ma Cece, che un po’ cane quasi lo era o lo era
diventato, non ne volle sapere e su quel pavimento non accettò di stendere
neanche una coperta.
“Sono abituato al lastricato” disse con un
sorriso al suo compagno e giù! Si accoccolò, contento di mantener la
consuetudine.
Passarono giorni e giorni, il ritratto procedeva
bene nonostante il modello non fosse dei più disciplinati, si grattava, si
girava, rideva…un inferno per il pittore, era tutto un dirgli: “Fermo, Cece,
non muoverti!” “Cece, ora basta, la posizione…”
Sembrava
di parlare a un sordo, e Cece poi, dal canto suo non capiva la necessità di
mantenere quella posa strana e sempre a sera fatta: perché dipinger la notte a
lume di una candela risicata?
Ma il suo
pittore gli dava vitto e alloggio e gli aveva anche promesso qualche
soldo, perciò lasciava le domande e ogni
questione semplicemente al loro bel
destino.
Intanto
si era sparsa nel paese, a macchia d’olio la notizia del ritratto, e c’era chi
rideva a crepapelle dicendo: “E’ un pittore delle pulci”, e chi giurava di aver visto il dipinto e che si trattava di un capolavoro; chi,
ancora, si diceva certo che era uno
scherzo per il pezzente Cece, e un
buontempone quel pittore che si voleva solo divertire.
Fra
tutte queste voci discordanti, una sola si levò sopra le altre, con
l’autorevolezza di una certa cultura: fu
quella dell’onorato sagrestano che a malapena sapeva leggere e scrivere ,
(
grazie al prete che lo aveva raccolto ancora in fasce ai piedi del confessionale, lasciato lì da una povera
donna che aveva già nove figli da
sfamare e per il decimo proprio non c’era posto) ma per quel paese, dove nessuno sapeva da che parte prendere la penna, era già un’elevata
istruzione.
E
disse, quel cultore delle lettere, che col pittore lui ci aveva ben parlato e,
indagato quale ne fosse il nome, si era meravigliato non poco di vederlo in tale buco di paese perché l'artista era di
quelli famosi assai e Cece era fortunato a fargli da modello, che cercassero
di assicurarselo il dipinto, perché avrebbe avuto un grande valore, ecc., ecc.
Ma
chi poteva mai comprare un dipinto, e
per di più di così gran valore, in quel paese di morti di fame? Così, quando il
pittore ebbe finito, il ritratto se ne partì con lui e non se n’ebbe più notizia alcuna.
Ci
fu, a dire il vero, chi raccontò di
averlo visto nella città vicina, venduto a caro prezzo ad uno ricco, chi
disse invece che aveva preso il mare
insieme ad una nave di pirati, e via seguendo con mille e più leggende, mai più
smentite, mai più confermate.
Cece, dal canto suo, dopo aver visto quel viso
sulla tela, non si capacitò che fosse il suo, nonostante non avesse mai avuto
l’agio di specchiarsi perché uno specchio non se l’era mai trovato in
tasca e il viso suo lo conoscesse
poco, pur tuttavia gli sembrava troppo brutto quel tipaccio che
lo guardava di sottecchi a lume di
candela. Quei soldi, però, erano più di quanti
ne avesse visti mai nella sua vita, così si tenne questo dubbio e zitto zitto prese i suoi denari e se li fece bastare giusto un mese, tornando
a mendicare più di prima quando nella
sua tasca rimase solo il solito cece cui doveva il soprannome (ché il
nome di battesimo neanche lui lo conosceva), e che era l’eredità e il
portafortuna lasciato da quel bravo mendicante di suo padre.
Il suo ritratto non si è più trovato, si
favoleggia invano ancora oggi che sia nascosto in un luogo segreto, non ce n’è
traccia in nessun libro d’arte, non se n’è mai parlato in una scuola.
E
chissà che fine strana gli è capitata in sorte
o che non sia, quel fatto, solo un sogno di quel triste paese, come un
miraggio di un bel momento di gloria che non fu.
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