Come succede nella mia fiaba ma... almeno qui il nostro orologio trova pace!
L’orologio del tempo fermo
Barbara
Cerrone
C’era
un orologio che non aveva fermezza, era agitato, nervoso, sempre in anticipo.
Le lancette, ogni volta che dovevano girare,
tremavano per la tensione, e la casa che lui umilmente serviva da anni,
attaccato a una grigia parete, risentiva di questo suo stato: c’eran crepe dappertutto,
si staccava perfino l’intonaco.
Finché un giorno si udì un gran frastuono, si
pensò fosse “ Il terremotoooo!” ma era lui, con la sua agitazione, che scuoteva
anche i muri oramai, sconquassandoli come un tornado.
Non
parliamo, poi, della famiglia.
“Non
si può continuare così!” disse un giorno il cugino Raniero infossando il suo
corpo robusto nella grande poltrona vermiglia.
“Hai
ragione,” rispose l’Ofelia madre e nonna di quattro nipoti,” “ io non dormo e poi
prendo le gocce: quando mai ? Prima io non ne avevo bisogno. Tutta colpa di quell’orologio!”
“E
a me? Non ci pensi, mammina?” farfugliò la sua bella figliola madre di due
tremendi gemelli, “io non riesco a calmare i bambini che son svegli anche a
mezzanotte.”
“Ehi, ragazzi, io che dovrei dire?” brontolò suo marito Alberto,
“ io lavoro, io ho l’orario, ho lo stress e tanto mi basta. Via quel mostro
dalla nostra casa: è deciso, si butta. È così.”
I
bambini non li consultarono, perché avrebbero detto di no, non buttatelo
quel benedetto che ci fa stare svegli e
pimpanti fino a tardi tutte le sere; si decise all’unanimità di disfarsene una
volta per tutte delle sue lancettacce agitate, di quel suo quadrantaccio
tremante e si disse:
“Sarà
per domani” .
La
sua fine era prossima, ormai.
L’orologio,
che aveva sentito la condanna all’esilio forzato, lì per lì fece finta di
nulla, dormicchiava, sembrava tranquillo; non segnò neanche l’ora precisa, fu,
diciamo, un po’ approssimativo, tanto
che si guardarono in faccia i suoi giudici ancora lì assisi, e si chiesero se
stava male. Poi toccandolo videro che era in gran forma, e tornarono ai loro
affari.
“
Che ingrati! Prima chiedono di esser
svegliati, di andare al lavoro in orario e a scuola puntuali, precisi, poi ti accusano di esser frenetico e ti gettano
come immondizia. Ma che colpa ne ho io
se il tempo è tiranno e mi pressa, mi pressa, mi pressa? “ pensò quel poverino singhiozzando
a lancette spiegate.
Gli
sembrava di vedere la scena: fatto a pezzi, in discarica, via! O donato alla
signora Pina, la più isterica del condominio, che correva anche mentre dormiva.
“Lei è troppo perfino per me, “disse mentre
contava i secondi per scoccare il minuto preciso, “ non potrei starle dietro davvero, tirerei le lancette in
un giorno.”
Giunse
infine a una conclusione: non restava che darsi alla fuga, il problema era il
modo e il momento.
L’occasione
arrivò il giorno dopo, proprio all’ora della colazione: i gemelli a raccolta in
cucina, nonna e madre a spalmar marmellata, padre in bagno a cantar nella
doccia.
“Questi
qui quando mangiano sono ciechi e non guardano mai il sottoscritto. Ora o mai:
me ne vado, ma come? Questo è il guaio, io non ho le gambe!”
E
anche qui la fortuna arrivò a soccorrerlo come una manna.
Antonino,
una peste di bimbo, non voleva fare colazione e la mamma gli disse:
“Ecco
qua, se ora mangi pane e marmellata puoi giocare col vecchio orologio, tanto
oggi noi lo butteremo”.
Il
bambino non si fece pregare, addentò il suo pane alla svelta, prese in mano
l’orologio agitato per andar quatto quatto in giardino a tirargli via le sue lancette.
Proprio
allora passava di lì con la madre un suo amico di nome Guglielmo.
“Ciao,
“ gli disse, “ che bell’orologio! Ma perché lo distruggi così?”
“Perché
oggi noi lo butteremo, non importa se ora lo rompo.”
“Lo
buttate? Ma allora lo prendo e lo attacco in camera mia.”
“Vabbè,
prendi pure e ciao. Oh, ma vieni a giocare stasera? Dopo i compiti, verso le
tre.”
“Vengo,
vengo e grazie dell’orologio.”
Detto
fatto se lo portò via e per strada, vicino alla scuola, si fermò un istante
soltanto per allacciarsi le scarpe e adagiò l’orologio su un muro: se la madre
l’avesse guardato, se non fosse arrivata la Gina che si mise a parlare del
tempo...ma arrivò, e la madre non vide che suo figlio se l’era scordato sul muretto dov’era appoggiato.
Fu
così che il nostro orologio restò solo e pensò:
“Beh,
dai, ce l’ho fatta: ora non mi potranno buttare ma mi chiedo che sarà di me”.
Ne
passarono almeno due o tre di quelle ore di prima mattina, l’orologio era sempre agitato e in anticipo
per non tardare.
“Ma per chi?”disse, “”ora son solo, e nessuno
ha bisogno di me.”
Tutt’a
un tratto gli venne un magone, una triste tristezza improvvisa; stava già per versare
due lacrime, quando vide una donna vicino.
“Uh,
che bell’orologio, che bello! Non ce l’ho. Me lo prendo perché se lo hanno
lasciato vuol dire che non gliene importava un bel niente.”
L’Adalgisa
non aveva una casa, vivacchiava in una capanna, raccattando un po’ quel che trovava, e quel giorno trovò l’orologio.
Lo
raccolse come una reliquia, se lo mise nella borsa di tela e contenta tornò
alla capanna.
“Fa
eleganza, questo bell’oggetto, “ cinguettò attaccandolo al muro, “ così sì che
è una casa, la mia. Oh mio bell’orologio! Ora so che ore sono, e così anch’io
sono nel mondo.”
Da
quel giorno il nostro orologio si sentì come fosse rinato e la fretta lo
abbandonò, buttò via anche le vecchie lancette: lì non c’era da svegliar
nessuno, lì nessuno correva ogni giorno per andare di qua e di là; l’Adalgisa
andava pian piano, i suoi giorni non
eran scanditi dagli orari e dalle scadenze.
Tutto
il tempo era suo, lo tirava come fosse un’elastica molla,
allungandolo, fino all’eternità.
Nessun commento:
Posta un commento