Oggi ci sono fior di laureati in pedagogia con attitudine alla scrittura creativa che sono autori di piccoli capolavori con una valenza psicologico - educativa importante.
Mi piacciono queste fiabe ma quella popolare non è da meno, anzi, personalmente continuo a preferirla a tutte le altre. La saggezza contenuta in queste storie, il sapere antico ed eterno che incarnano e, soprattutto, la poesia restano per me, insuperati. Lo so, ne ho già parlato ma mi piace ribadire il concetto.
Come vorrei che anche le mie contenessero tanta sapienza!
Comunque il sapere nuovo, "scientifico" ed evoluto non lo disdegno, questo no. Solo che...il primo amore non si scorda davvero mai, e gli si resta fedeli.
Buone fiabe, quelle che preferite, a tutti voi.
Modulo di contatto
lunedì 28 maggio 2018
L'orologio del tempo fermo
Frenesia del tempo che corre spietato, e noi gli andiamo dietro, affannati, tentando inutilmente di afferrarlo.
Come succede nella mia fiaba ma... almeno qui il nostro orologio trova pace!
L’orologio del tempo fermo
Come succede nella mia fiaba ma... almeno qui il nostro orologio trova pace!
L’orologio del tempo fermo
Barbara
Cerrone
C’era
un orologio che non aveva fermezza, era agitato, nervoso, sempre in anticipo.
Le lancette, ogni volta che dovevano girare,
tremavano per la tensione, e la casa che lui umilmente serviva da anni,
attaccato a una grigia parete, risentiva di questo suo stato: c’eran crepe dappertutto,
si staccava perfino l’intonaco.
Finché un giorno si udì un gran frastuono, si
pensò fosse “ Il terremotoooo!” ma era lui, con la sua agitazione, che scuoteva
anche i muri oramai, sconquassandoli come un tornado.
Non
parliamo, poi, della famiglia.
“Non
si può continuare così!” disse un giorno il cugino Raniero infossando il suo
corpo robusto nella grande poltrona vermiglia.
“Hai
ragione,” rispose l’Ofelia madre e nonna di quattro nipoti,” “ io non dormo e poi
prendo le gocce: quando mai ? Prima io non ne avevo bisogno. Tutta colpa di quell’orologio!”
“E
a me? Non ci pensi, mammina?” farfugliò la sua bella figliola madre di due
tremendi gemelli, “io non riesco a calmare i bambini che son svegli anche a
mezzanotte.”
“Ehi, ragazzi, io che dovrei dire?” brontolò suo marito Alberto,
“ io lavoro, io ho l’orario, ho lo stress e tanto mi basta. Via quel mostro
dalla nostra casa: è deciso, si butta. È così.”
I
bambini non li consultarono, perché avrebbero detto di no, non buttatelo
quel benedetto che ci fa stare svegli e
pimpanti fino a tardi tutte le sere; si decise all’unanimità di disfarsene una
volta per tutte delle sue lancettacce agitate, di quel suo quadrantaccio
tremante e si disse:
“Sarà
per domani” .
La
sua fine era prossima, ormai.
L’orologio,
che aveva sentito la condanna all’esilio forzato, lì per lì fece finta di
nulla, dormicchiava, sembrava tranquillo; non segnò neanche l’ora precisa, fu,
diciamo, un po’ approssimativo, tanto
che si guardarono in faccia i suoi giudici ancora lì assisi, e si chiesero se
stava male. Poi toccandolo videro che era in gran forma, e tornarono ai loro
affari.
“
Che ingrati! Prima chiedono di esser
svegliati, di andare al lavoro in orario e a scuola puntuali, precisi, poi ti accusano di esser frenetico e ti gettano
come immondizia. Ma che colpa ne ho io
se il tempo è tiranno e mi pressa, mi pressa, mi pressa? “ pensò quel poverino singhiozzando
a lancette spiegate.
Gli
sembrava di vedere la scena: fatto a pezzi, in discarica, via! O donato alla
signora Pina, la più isterica del condominio, che correva anche mentre dormiva.
“Lei è troppo perfino per me, “disse mentre
contava i secondi per scoccare il minuto preciso, “ non potrei starle dietro davvero, tirerei le lancette in
un giorno.”
Giunse
infine a una conclusione: non restava che darsi alla fuga, il problema era il
modo e il momento.
L’occasione
arrivò il giorno dopo, proprio all’ora della colazione: i gemelli a raccolta in
cucina, nonna e madre a spalmar marmellata, padre in bagno a cantar nella
doccia.
“Questi
qui quando mangiano sono ciechi e non guardano mai il sottoscritto. Ora o mai:
me ne vado, ma come? Questo è il guaio, io non ho le gambe!”
E
anche qui la fortuna arrivò a soccorrerlo come una manna.
Antonino,
una peste di bimbo, non voleva fare colazione e la mamma gli disse:
“Ecco
qua, se ora mangi pane e marmellata puoi giocare col vecchio orologio, tanto
oggi noi lo butteremo”.
Il
bambino non si fece pregare, addentò il suo pane alla svelta, prese in mano
l’orologio agitato per andar quatto quatto in giardino a tirargli via le sue lancette.
Proprio
allora passava di lì con la madre un suo amico di nome Guglielmo.
“Ciao,
“ gli disse, “ che bell’orologio! Ma perché lo distruggi così?”
“Perché
oggi noi lo butteremo, non importa se ora lo rompo.”
“Lo
buttate? Ma allora lo prendo e lo attacco in camera mia.”
“Vabbè,
prendi pure e ciao. Oh, ma vieni a giocare stasera? Dopo i compiti, verso le
tre.”
“Vengo,
vengo e grazie dell’orologio.”
Detto
fatto se lo portò via e per strada, vicino alla scuola, si fermò un istante
soltanto per allacciarsi le scarpe e adagiò l’orologio su un muro: se la madre
l’avesse guardato, se non fosse arrivata la Gina che si mise a parlare del
tempo...ma arrivò, e la madre non vide che suo figlio se l’era scordato sul muretto dov’era appoggiato.
Fu
così che il nostro orologio restò solo e pensò:
“Beh,
dai, ce l’ho fatta: ora non mi potranno buttare ma mi chiedo che sarà di me”.
Ne
passarono almeno due o tre di quelle ore di prima mattina, l’orologio era sempre agitato e in anticipo
per non tardare.
“Ma per chi?”disse, “”ora son solo, e nessuno
ha bisogno di me.”
Tutt’a
un tratto gli venne un magone, una triste tristezza improvvisa; stava già per versare
due lacrime, quando vide una donna vicino.
“Uh,
che bell’orologio, che bello! Non ce l’ho. Me lo prendo perché se lo hanno
lasciato vuol dire che non gliene importava un bel niente.”
L’Adalgisa
non aveva una casa, vivacchiava in una capanna, raccattando un po’ quel che trovava, e quel giorno trovò l’orologio.
Lo
raccolse come una reliquia, se lo mise nella borsa di tela e contenta tornò
alla capanna.
“Fa
eleganza, questo bell’oggetto, “ cinguettò attaccandolo al muro, “ così sì che
è una casa, la mia. Oh mio bell’orologio! Ora so che ore sono, e così anch’io
sono nel mondo.”
Da
quel giorno il nostro orologio si sentì come fosse rinato e la fretta lo
abbandonò, buttò via anche le vecchie lancette: lì non c’era da svegliar
nessuno, lì nessuno correva ogni giorno per andare di qua e di là; l’Adalgisa
andava pian piano, i suoi giorni non
eran scanditi dagli orari e dalle scadenze.
Tutto
il tempo era suo, lo tirava come fosse un’elastica molla,
allungandolo, fino all’eternità.
mercoledì 23 maggio 2018
I fratelli Grimm: fiabe da paura!
Jacob Ludwig Grimm ( Hanau, 4 gennaio 1785 - Berlino, 20 settembre 1863) e Wilelm Karl Grimm
(Hanau, 24 febbraio 1786 - Berlino, 16 dicembre 1859) ovvero i fratelli Grimm, furono due linguisti e filosofi tedeschi fondatori della germanistica, famosi fuori dai confini tedeschi per aver raccolto e rielaborato le fiabe della tradizione popolare tedesca in opere come Fiabe (1812-1822) e Saghe germaniche (1816-1818).
Tra le più celebri ricordiamo Cenerentola, Cappuccetto Rosso, Biancaneve, divenute ormai dei classici.
In questa affascinante impresa sono stati coadiuvati da Clemens Brentano, di cui abbiamo già parlato qualche post fa, e Achim Von Arnim: comune intento, in una Germania ancora frammentata all'inizio del XIX secolo e unita solo dalla lingua, oltre alla valorizzazione del patrimonio letterario e folkloristico tedesco, era quello di contribuire alla nascita di un'identità germanica.
Ciò che caratterizza questi racconti, secondo i Grimm non nati specificamente per i bambini, è la ricchezza di particolari realistici, spesso cruenti, dei quali Jacob rivendica la necessità opponendosi ad una eventuale epurazione delle parti più scabrose, come testimonia una sua lettera pubblicata nel volume Principessa Pel di Topo e altri 41 racconti da scoprire ( Donzelli Editore, Roma 2012) della quale riporto uno stralcio:
« La differenza tra le fiabe per bambini e quelle del focolare e il
rimprovero che ci viene mosso di avere utilizzato questa combinazione nel
nostro titolo è più una questione di lana caprina che di sostanza. Altrimenti
bisognerebbe letteralmente allontanare i bambini dal focolare dove sono sempre
stati e confinarli in una stanza. Le fiabe per bambini sono mai state concepite
e inventate per bambini? Io non lo credo affatto e non sottoscrivo il principio
generale che si debba creare qualcosa di specifico appositamente per loro. Ciò
che fa parte delle cognizioni e dei precetti tradizionali da tutti condivisi
viene accettato da grandi e piccoli, e quello che i bambini non afferrano e che
scivola via dalla loro mente, lo capiranno in seguito quando saranno pronti ad
apprenderlo. È così che avviene con ogni vero insegnamento che innesca e
illumina tutto ciò che era già presente e noto, a differenza degli insegnamenti
che richiedono l'apporto della legna e al contempo della fiamma. »
Oggi conosciamo queste fiabe in una versione decisamente edulcorata rispetto all'originale, lascio a voi la riflessione se ciò sia un bene o un male.
Io, pur riconoscendone il valore letterario, rimango affezionata alla fiaba popolare italiana, e a quelle altrettanti affascinanti rielaborate da Perrault. Questione di gusti. O no?
mercoledì 16 maggio 2018
Italo Calvino - Ancora un tributo
Italo Calvino, nella sua bellissima
introduzione a “Fiabe italiane”, dice che la nostra fiaba sviluppa atteggiamenti che la
differenziano dalla tradizione germanica, più sanguinaria e truculenta, ed è “...percorsa da una continua e sofferta trepidazione
d’amore”.
Bellissima immagine. Mi piace. Molto.
Calvino... che altro c’è da dire su uno scrittore così grande? Si è già scritto tanto, e
autorevolmente, su di lui, non potrò certo aggiungere niente di originale; un
tributo, questo sì, che ho già fatto in parte scrivendo una raccolta di racconti
ispirati alla fiaba popolare, alcuni dei quali pubblicati anche su
questo blog.
Nel
volume dedicato al novecento della sua *Storia
della Letteratura Italiana, Giulio Ferroni scrive:
“
Calvino era dotato di una spontanea curiosità per le forme narrative
originarie, di una singolare disposizione ad abbandonarsi al fiabesco, a
giocare con le situazioni del racconto, a trovare combinazioni di tipo comico o
fantastico...”
Ed
è questa propensione al fiabesco, probabilmente, ad averlo condotto sulla
strada tanto impegnativa quanto affascinante dell’indagine sulla tradizione
delle fiabe italiane: due anni di ricerca che nel 1956 hanno dato come frutto
la famosa raccolta di duecento Fiabe
italiane, tratte da diverse tradizioni regionali e trascritte in una lingua semplice e piana, anticipando
l’interesse per la fiaba che più tardi sarebbe stato al centro di importanti
ricerche sulla narrazione.
Italo Calvino,
con questo lavoro, si è confrontato con figure e schemi legati al meccanismo
del narrare, ciò che si è rivelato per lui un formidabile esercizio di stile, e la sua lingua, dice sempre il Ferroni, ha
raggiunto “...un’eccezionale capacità di combinare meccanismi narrativi, di
isolarne le strutture essenziali , eliminando al massimo ridondanze, residui
espressionistici, pause liriche o sentimentali.”
In omaggio a lui, ancora una fiaba tratta dalla mia raccolta.
Buona lettura.
*Giulio Ferroni, Storia della letteratura italiana, Mondadori Education S.p.A, Milano 1991
Il
ritratto di Cece
Barbara Cerrone
Cece
di mestiere faceva il mendicante. Nel suo lavoro Cece era il migliore: come
mendicava lui, con quegli occhi che diventavano umidi non appena un qualsiasi
gaglioffo con l’aria di aver qualche soldo in tasca gli si parava davanti, e
quell’aria di vittima innocente che conquistava anche il più avaro degli avari
infognato nella sua spilorceria, non mendicava nessuno.
Di solito pigolava la sua miseria all’ingresso
della chiesa, nei giorni di festa consacrata, gli altri invece li passava nella piazza del paese,
seduto per terra, col sudicio cappello in mano e la lacrima sempre pronta.
Di senno ne aveva poco e per questo lo chiamavano Cece lo sciocco, ma un giorno gli capitò un fatto che ancora si
ricordano in paese e chi c’era lo racconta a chi non era nato e lo tramanda
come una filastrocca.
Piombò
dal nulla un uomo alla locanda, un forestiero pieno di boria che tutti
battezzarono il signore.
Costui,
gran sacca sulla spalla e baffi da sparviero, alto e robusto come uno che
mangiava tutti i giorni e perciò strano in quel luogo sperduto dove si digiunava due giorni su tre, parlava una lingua sconosciuta agli abitanti del
villaggio che a dire il vero non conoscevano bene nessuna lingua e parlavano
come potevano.
“Un
boccale di quello buono” urlò in una specie di francese come un vero signore anche se urlare in quel modo non è certo usanza da signori, “portalo presto che ho da correr
via come una lepre.”
“Sissignore,” rispose il locandiere, grasso
come si conviene ad uno del suo nobile mestiere,” vi servo subito.”
Il
vino, come sempre, era di quello cattivo che più cattivo non si poteva avere ma
il forestiero non se ne avvide: altro segno che proprio signore e avvezzo al
bere buono non era, ma nessuno se ne poteva accorgere in quel paese di morti di
fame e passò in cavalleria come l’urlo spropositato.
“E
ora che mi hai dissetato,” riprese l’ospite , “fammi mangiare. Che c’è di buono?” “Fagioli, signor mio e un certo
stufatino che ho messo via per i clienti di riguardo.”
“Via, non m’imbrogliare… io di riguardo! Son
di passaggio e casomai un pollo da spennare, eh? Ma basta: dammi quel che hai,
ho fame e pochi vezzi per la testa.”
Subito
gli portò, quel cuoco sopraffino, ciò che la sera prima aveva arrangiato per se
stesso, pensando a quanto glielo poteva
far pagare in più del dovuto, dato che
quello era forestiero, ricco e senza tanti grilli.
In
quel momento delicato, però, fece il suo ingresso il Cece, inusitato ospite,
perché soldi non ne aveva di certo, gente disposta a fargli l’elemosina lì non
ce n’era mai e il locandiere non lo teneva in grande simpatia.
“Cece,
tu qui?” fece quest’ultimo, piuttosto contrariato. “Ma che vuoi mai qui dentro?
Non è il posto tuo. Vattene.”
“Lascialo,
invece,”disse il forestiero, col boccone in bocca, “ che venga qui e si sieda
accanto me.”
“Come volete. Vieni, Cece, mettiti qui col
signore…ma badate voi che è uno stolto come pochi e vi darà il tormento.”
“Vedremo. Tu fallo venir qui, poi si vedrà”.
Cece
si accomodò accanto a quello sconosciuto, e non si pose domande né cavilli:
c’era un pasto da mangiare come un cristiano, seduto come un uomo che ha
denari, e lui felicemente si adattò.
“Che
prendete, buon uomo?” gli chiese il commensale.
“Un po’ di pane, se non è troppo, e se c’è il
lardo, una fettina appena.”
“Bene.
Portatene un bel po’. E che bevete? Non acqua, spero.”
“No, piuttosto, se ce n’è ancora, di quel buon
vino che bevete voi.”
“Ah, bravo! Tenete, eccone un bicchiere!”
Andarono
così avanti un bel pezzo, finché quel locandiere, stanco per l’ora tarda, non se ne uscì col dire che chiudeva e che il
buon Cece si doveva accomodare nel suo solito posto, cioè per strada.
La
cosa piacque poco al forestiero che però si dovette rassegnare davanti al viso storto del padrone.
“E sia,” disse,”andiamo a letto. “
E
qui venne il bello, con tutti i suoi
legati.
Il
forestiero, tutto ad un tratto, si mise a fissare il mendicante come se
l’avesse visto in quel momento: gli girò e rigirò il viso controluce non so più
quante volte, poi, come se niente fosse, aprì la sacca e tirò fuori pennelli e
tavolozza.
“Ti voglio fare un bel ritratto, corpo di
mille anguille!” disse al Cece imbambolato. “Ti renderò famoso se stai buonino e fermo, e tu lascialo qui e vai pure a letto, noi
restiamo ancora un po’, il tempo di dipingere questo bel soggetto. Finché
reggono l’estro e la candela. Costui è mio ospite, fino alla fine del lavoro,
perciò ti pago doppio, stai tranquillo, ma s’ha da far così o me ne vado.”
Figuratevi la sorpresa di quel locandiere
campagnolo nel sapere di aver per cliente una tal specie umana, talmente rara
da quelle parti da doverla quasi studiare come certuni studiano gli insetti o
le piante esotiche. Non fece una piega, questo è chiaro, ma si assicurò di non
lasciar denari in giro né cose che avessero un valore, ché tal genia era famosa
anche per non esser tanto delicata se si trattava di far bricconate e fidarsi
non era né pratico né sano.
Andò
avanti fin quasi al mattino, il buon pittore, poi, stanco e senz’altra fantasia
se non quella di ficcarsi sotto le coperte “A
dormire, ora!” disse a Cece. “ Sono
stanco e tu dormi in piedi. Vieni, andiamo nella stanza, che è piccola ma ci arrangeremo in qualche
modo.”
Cece
insistette per sdraiarsi a terra e a malincuore il pittore accettò, voleva
dargli una certa poltrona, polverosa, sì, ma comoda in apparenza, che almeno
non dormisse come un cane! Ma Cece, che un po’ cane quasi lo era o lo era
diventato, non ne volle sapere e su quel pavimento non accettò di stendere
neanche una coperta.
“Sono abituato al lastricato” disse con un
sorriso al suo compagno e giù! Si accoccolò, contento di mantener la
consuetudine.
Passarono giorni e giorni, il ritratto procedeva
bene nonostante il modello non fosse dei più disciplinati, si grattava, si
girava, rideva…un inferno per il pittore, era tutto un dirgli: “Fermo, Cece,
non muoverti!” “Cece, ora basta, la posizione…”
Sembrava
di parlare a un sordo, e Cece poi, dal canto suo non capiva la necessità di
mantenere quella posa strana e sempre a sera fatta: perché dipinger la notte a
lume di una candela risicata?
Ma il suo
pittore gli dava vitto e alloggio e gli aveva anche promesso qualche
soldo, perciò lasciava le domande e ogni
questione semplicemente al loro bel
destino.
Intanto
si era sparsa nel paese, a macchia d’olio la notizia del ritratto, e c’era chi
rideva a crepapelle dicendo: “E’ un pittore delle pulci”, e chi giurava di aver visto il dipinto e che si trattava di un capolavoro; chi,
ancora, si diceva certo che era uno
scherzo per il pezzente Cece, e un
buontempone quel pittore che si voleva solo divertire.
Fra
tutte queste voci discordanti, una sola si levò sopra le altre, con
l’autorevolezza di una certa cultura: fu
quella dell’onorato sagrestano che a malapena sapeva leggere e scrivere ,
(
grazie al prete che lo aveva raccolto ancora in fasce ai piedi del confessionale, lasciato lì da una povera
donna che aveva già nove figli da
sfamare e per il decimo proprio non c’era posto) ma per quel paese, dove nessuno sapeva da che parte prendere la penna, era già un’elevata
istruzione.
E
disse, quel cultore delle lettere, che col pittore lui ci aveva ben parlato e,
indagato quale ne fosse il nome, si era meravigliato non poco di vederlo in tale buco di paese perché l'artista era di
quelli famosi assai e Cece era fortunato a fargli da modello, che cercassero
di assicurarselo il dipinto, perché avrebbe avuto un grande valore, ecc., ecc.
Ma
chi poteva mai comprare un dipinto, e
per di più di così gran valore, in quel paese di morti di fame? Così, quando il
pittore ebbe finito, il ritratto se ne partì con lui e non se n’ebbe più notizia alcuna.
Ci
fu, a dire il vero, chi raccontò di
averlo visto nella città vicina, venduto a caro prezzo ad uno ricco, chi
disse invece che aveva preso il mare
insieme ad una nave di pirati, e via seguendo con mille e più leggende, mai più
smentite, mai più confermate.
Cece, dal canto suo, dopo aver visto quel viso
sulla tela, non si capacitò che fosse il suo, nonostante non avesse mai avuto
l’agio di specchiarsi perché uno specchio non se l’era mai trovato in
tasca e il viso suo lo conoscesse
poco, pur tuttavia gli sembrava troppo brutto quel tipaccio che
lo guardava di sottecchi a lume di
candela. Quei soldi, però, erano più di quanti
ne avesse visti mai nella sua vita, così si tenne questo dubbio e zitto zitto prese i suoi denari e se li fece bastare giusto un mese, tornando
a mendicare più di prima quando nella
sua tasca rimase solo il solito cece cui doveva il soprannome (ché il
nome di battesimo neanche lui lo conosceva), e che era l’eredità e il
portafortuna lasciato da quel bravo mendicante di suo padre.
Il suo ritratto non si è più trovato, si
favoleggia invano ancora oggi che sia nascosto in un luogo segreto, non ce n’è
traccia in nessun libro d’arte, non se n’è mai parlato in una scuola.
E
chissà che fine strana gli è capitata in sorte
o che non sia, quel fatto, solo un sogno di quel triste paese, come un
miraggio di un bel momento di gloria che non fu.
lunedì 14 maggio 2018
Le apparenze ingannano:Orco Balordo e Orchessa Mangiamangia
Ecco due orchi: potevo scordare questi frequentatori assidui del mondo fiabesco?
I due orcacci protagonisti della mia fiaba tentano di darsi un'aria innocua per ingannare tanti poveri bambini e all'inizio ci riescono ma...leggete e saprete!
I due orcacci protagonisti della mia fiaba tentano di darsi un'aria innocua per ingannare tanti poveri bambini e all'inizio ci riescono ma...leggete e saprete!
L’orco
Balordo e l’orchessa Mangiamangia
Barbara Cerrone
L’orco Balordo era triste.
“Nemmeno un umanuccio da divorare oggi, un bambinuccio magrolino, magari. Niente.” diceva piangendo
alla moglie, l’orchessa Mangiamangia.
“Eh, pazienza!” rispondeva lei.” Qualcuno passerà dal bosco, e noi lo
prenderemo. Piuttosto, mettiamo bene in ordine la casa, in modo che sia
accogliente e possa attirare i polli che passano di qui.”
“Ma io non voglio polli!” gridò Balordo che era un tonto patentato e non
capiva molto più di nulla.
“E’ un modo di dire, uffa! I polli sono gli umani sciocchi che cadono
nella trappola, ma per caderci bisogna che la casa sia invitante: una
catapecchia li farebbe fuggire a gambe levate, una casa graziosa invece può
attirarli come mosche il miele e poi...zac! Noi li prendiamo e ne facciamo un
sol boccone.”
“Sì, sì, un sol boccone. Mi piace, mi piace! Vado subito a mettere i
fiori sul davanzale”.
Balordo corse a sistemare i gerani
alla finestra mentre l’orchessa Mangiamangia lucidava a specchio porte e vetri,
e spargeva caramelle sulla soglia, nel
caso passasse di lì un bambino che si fosse smarrito.
E il bambino passò, infatti.
Il giorno dopo un bel bambino dagli occhi scuri e il ciuffo ancor più
scuro bussò alla porta degli orchi.
Era uscito con la sua mamma che
lungo la strada si era fermata a
parlare con un’amica; dato che lui si annoiava quando la mamma si metteva a
parlare con le amiche, tentò prima di portarla via tirandola per la manica del
vestito e poi , visto che non si muoveva, decise di muoversi lui.
Per passare il tempo noioso prese
a rincorrere una farfalla; correndo correndo si ritrovò nel bosco e la strada
era bella che smarrita.
Piangeva, il bambino, piangeva e chiamava la mamma che non poteva
sentirlo, allora lui piangeva ancora di più e ancora di più si allontanava.
Quando vide la bella casetta degli orchi e tutte quelle caramelle sulla
soglia il nostro amico si rallegrò.
“Finalmente!” disse.”Qui c’è una casa, potrò chiedere aiuto e farmi riaccompagnare
dalla mamma. E quante caramelle! Ne mangio subito un paio”.
Poveretto. Di certo non immaginava cosa lo aspettava là dentro.
Bussò piano piano alla porta, l’orchessa Mangiamangia stava spolverando
il salotto e aveva un bel fazzolettone rosso in testa: sembrava proprio una
brava massaia.
“Oh, chi si vede?” esclamò quando
aprì la porta.”Un bambino che si è smarrito! Balordo, vieni. Qui c’è un bel bambino che ha perso la strada. Entra,
piccolo, che qui troverai ciò che cerchi.”
Il piccolo, che si chiamava Paolo, entrò tutto allegro e quasi cantava
per la gioia.
“Grazie, signora...” disse tendendole la mano.
“ Man...Manfreda” rispose l’orchessa che non voleva dire il suo vero nome
perché Mangiamangia lo poteva far insospettire.
“...signora Manfreda, piacere! Ho perso la strada, la mia mamma stava
parlando con un’amica e io mi annoiavo, così mi sono messo a giocare con una farfalla
ed eccomi qua. Mi può’ accompagnare dalla mamma?”
“Ma certamente, vero Balordo?” rispose l’orchessa strizzando l’occhio al
marito.
“Balordo? Che strano nome” disse il bambino.
“Vero? Eh, ma è un soprannome scherzoso. Il vero nome è Bernardo, non è
così, maritino mio?” disse Mangiamangia strizzando di nuovo l’occhio.
“Sì, sì, Bernardo,” confermò Balordo,” detto Balordo per scherzo. Vieni, bambino, prima di andare dalla
mamma prendi una tazza di cioccolata con noi, per farti passare lo spavento.”
“Uh, cioccolata? Volentieri! Ma poi andiamo subito dalla mamma, eh?”
“Senz'altro, piccolino. Subitissimo”.
Paolo non era ancora entrato in cucina dove una tazza fumante di
cioccolata stava lì, sul tavolo, a dirgli Bevimi, bevimi! che i due orcacci lo avevano già messo in un sacco e buttato
nella dispensa, insieme a tanti altri
bambini catturati dai due mascalzoni.
“Così mi piace,” gongolò Balordo,”
ora abbiamo una riserva di carne che ci
basterà per tutto l’inverno. Mangeremo come signori, moglie mia”.
Figuratevi quei poveri bambini ! Sentendo le parole dell’orco non stavano
più nella pelle dalla paura, volevano scappare, gridavano: “Aiuto, aiuto!” ma
nessuno poteva sentirli nella casa degli orchi, in pieno bosco scuro.
Sembrava una situazione senza via d’uscita, ma per fortuna questa è una
fiaba e nelle fiabe la via d’uscita si trova sempre.
L’orchessa Mangiamangia stava raccogliendo erbe aromatiche nell'orchesco
orto dietro casa, servivano per l’arrosto di bambino che intendeva preparare
per cena; canticchiando e ballonzolando raccoglieva e metteva via il raccolto dentro una
sporta di tela massiccia.
Proprio in quel momento messer Logatto stava facendo un giretto di ricognizione da
quelle parti; cercava topolini di giornata, oppure un po’ più stagionati, purché fossero teneri e grassi da mangiarsi anche senza
posate.
Si guardava intorno con grande attenzione, il nostro messere, e quando
vide l’orchessa Mangiamangia tutta intenta
a raccogliere erbette si fermò a far due chiacchiere con lei, così,
tanto per passare il tempo e per avere informazioni di prima mano sulla
circolazione topesca da quelle parti: sapeva, infatti, che spesso i due orchi mangiavano topolini
allo spiedo come stuzzichini prima dei pasti.
“Buongiorno, madama Mangiamangia. Che si dice da queste parti? Come va la
vita?”
“Benone, messere. Ci stiamo preparando
a una grande mangiata.”
“Oh, beati voi! Io invece non riesco a trovare nemmeno l’ombra di un
topo. Per caso se n’è visto qualcuno qui
intorno?”
“Non saprei, non bado ai topi. A meno che non rubino il mio cibo.”
“Uh, che peccato! Be’, come non detto. Tanti saluti all'orco Balordo,
allora, io riprendo la mia caccia”.
Messer Logatto stava per andar via quando sentì dei lamenti venire dalla casa dell’orchessa.
“Oh, oh, cosa succede? Qualcuno piange” disse Logatto.
“Macché! Sono solo quei bambinelli che non vogliono esser mangiati,
testardi che sono! Ma dico io, a che serve un bambino se non ad esser
mangiato?”
“Bambini? A me sembrava come uno squittio...”
“Quale squittio e squittio? “disse l’orchessa indispettita.” Solo i topi squittiscono e qui
non ci sono topi, solo bambini.”
“Sarà, ma a me sembrano proprio
topolini! Mangiamangia non me la racconta giusta” pensò messer Logatto ma non volle insistere: l’orchessa se contrariata poteva diventare
assai pericolosa, ne sapeva qualcosa un suo lontano cugino che per voler mantenere il punto a tutti i costi era stato arrostito da Balordo e Mangiamangia, e poi offerto come cena prelibata alla festa degli
orchi scapoli.
Messer Logatto, allora, fece finta di allontanarsi e si nascose dietro un
albero; attese che Mangiamangia si allontanasse e poi quatto quatto si
infilò nella casa degli orchi dalla porta di servizio.
L’orchessa e suo marito erano seduti davanti al caminetto, Mangiamangia
lavorava a maglia e Balordo si puliva le unghie col rastrello.
“Bene, sono distratti” pensò Logatto, e si diresse verso la cucina.
“Se sono fortunato quei due bugiardi hanno preso un bel po’ di topolini, io li scoverò e glieli porterò via. Parola di messer
Logatto”.
In queste situazioni, si capisce, non c’è mai il tempo di verificare: si rischia di esser sorpresi se si indugia. Messer Logatto
entrò sinuoso in cucina, e poiché questa era buia e i piccoli erano tutti chiusi dentro un gran sacco e
questo sacco era nascosto dentro la
dispensa, non fece altro che aprire lo sportello e caricarsi quel sacco sulle spalle senza guardare cosa c’era
dentro.
“Accidenti come pesa!” diceva mentre correva come una lepre fuori di casa.
Corse finché non fu al sicuro, chilometri e chilometri lontano dall'orchesca
dimora.
Quando giudicò di essere abbastanza lontano si fermò, si sdraiò
sull'erbetta fresca, e quando ebbe
riprese le forze aprì il sacco.
Immaginatevi la sorpresa, e la delusione, quando vide sbucar fuori uno
dopo l’altro dieci, cento, mille bambini!
“E voi che fate qui dentro?” chiese Messer Logatto inviperito.” Dovevate
esser topi! E adesso? Che ne è della mia cena?”
“Oh, povero gatto!” esclamarono in coro quei piccini.” Ci dispiace ma non
è colpa nostra, sono stati gli orchi a chiuderci qui, volevano mangiarci. Noi
ti ringraziamo per averci liberati e più di noi ti ringrazieranno i nostri
genitori. Accompagnaci a casa, vedrai che sarai ricompensato”.
Messer Logatto, che a dire il vero era un buon gatto e aveva un cuore
generoso, non si fece pregare troppo, rimise i bambini nel sacco per
trasportarli meglio e uno a uno li ricondusse a casa.
Ben presto in tutto il regno si seppe della buona azione che aveva fatto messer
Logatto e il re in persona volle dargli
un premio per la sua bontà.
“Messer Logatto, “disse il sovrano,”
per aver salvato i bambini del regno dalle grinfie di quei due orchi ti conferisco l’ordine di Acchiappatopi reale. Sarai tu, d’ora
innanzi, l’unico gatto autorizzato a catturare i topi del mio palazzo e come
acchiappatopi del re vivrai a palazzo, avrai pesce a volontà e una cuccia calda e comoda vicino alla mia
stanza”.
Messer Logatto raggiunse l’apice della felicità e subito, senza far tante
storie, fece i bagagli e si trasferì a palazzo dove si dice viva ancora,
anziano e benvoluto.
E i due orchi? Per la gran rabbia diventarono vegetariani, e si tennero ben lontani
dai gatti e dai bambini per il resto della loro vita.
domenica 13 maggio 2018
Bianca e Bianco - astuzia bambina
Bianca e Bianco, bambini vincenti: sul male, sulla stupidità, sulle trappole dei disonesti.
A voi la mia fiaba.
A voi la mia fiaba.
Dunque...c’era una volta...non me lo ricordo!
Io non c’ero, me l’hanno raccontato,
forse è per questo che l’ho già scordato.
Pensa e rifletti, ho deciso adesso
che se lo invento in fondo fa lo stesso.
Bianca e
Bianco
Barbara
Cerrone
C’erano una volta un fratello e una sorella, lei si chiamava Bianca e lui
si chiamava Bianco.
Bianca e Bianco un giorno
andarono al mercato con la mamma.
“Bianca, Bianco,” disse la mamma,” state sempre vicini a me e non
lasciate mai la mia mano, altrimenti
potreste perdervi”.
I due bambini promisero di
comportarsi bene e la mamma si tranquillizzò.
“Devo comprare le uova per farvi una bella frittata a pranzo. Venite,
fermiamoci qui” disse ancora la mamma
fermandosi davanti al banco di un’anziana donna.
“Sei uova fresche per i miei bambini, prego” chiese.
“Ecco, “rispose la donna,” queste sono le più fresche che ho“.
La mamma prese le uova, pagò il
dovuto e fece per allontanarsi ma una forza invincibile la bloccò proprio lì,
davanti alla venditrice di uova.
Bianco e Bianca, allora, cominciarono a spazientirsi.
“Mamma, mamma, che fai?Andiamo a casa”.
Inutile, la mamma non si muoveva,
e non poteva nemmeno parlare poveretta! In poche parole era come impietrita,
nemmeno gli occhi riusciva a girare di qua e di là: sembrava proprio una
statua.
“Bianco, la mamma è morta” piagnucolò Bianca.
“Ma che dici? Se fosse morta sarebbe caduta giù, per terra. No, si
dev'essere addormentata. Ora la sveglio io.”
“ No, è morta, è morta.”
“Né morta né addormentata, bambinucci miei,” gracchiò l’anziana donna,”
avete mai sentito parlare degli incantesimi? Gliene ho fatto uno bello bello proprio ora.
La vostra mamma fate finta che non ci sia, in compenso ci sono io, e vi porto
via con me”.
Aveva appena finito di parlare quando una nuvola di polvere nera catturò i due fratelli e li depositò davanti a una casaccia cadente e scura, dove
la venditrice li aspettava.
“Eccovi qua, bambinucci miei,” disse,” ora nessuna mamma potrà mai
aiutarvi. Sarete al mio servizio finché mi piacerà”.
Bianca e Bianco erano disperati: dov'era finita la loro mamma? E chi era
quella strana donna?
“Mamma, mamma, dove sei?” piangeva Bianca
“Mamma, mamma, vieni a prenderci!” urlava Bianco
La venditrice invece rideva a squarciagola mentre li trascinava verso
il cortile dietro casa.
Nel cortile c’era un grande pollaio pieno di galline che razzolavano
beccandosi fra loro, mentre un gallo
piuttosto spennacchiato starnazzava ora
contro l’una, ora contro l’altra; la
venditrice prese i due bambini e ce li spinse dentro.
“Ecco,” disse,” questa sarà la vostra stanza d’ora in avanti. Dormirete insieme alle mie
galline e mangerete quello che mangiano loro. Quando avrò bisogno di voi verrò
a prendervi”.
Detto questo se ne andò tutta soddisfatta, lasciando i due piccoli nella
più nera disperazione.
Intanto le galline intorno a loro si guardavano l’un l’altra e i loro
sguardi erano così tristi e vivi da sembrare quasi umani. Bianca se ne accorse.
“Bianco, fratello mio, non ti sembrano strane queste galline? Hanno uno
sguardo...non so, come se fossero persone.”
“Ma che dici sorella? La disperazione ti ha fatto impazzire. Sono galline,
e hanno lo sguardo da galline”.
Bianca non era molto convinta ma non volle contraddire il fratello e non aggiunse
altro. Dato che era stanca, si
guardò intorno per vedere se c’era un angolino dove sedersi; notò una grossa
pietra in un angolo che sembrava quasi una poltrona: si tolse il cappottino, lo appallottolò e lo sistemò alla meglio
sulla pietra, poi ci si sedette sopra
e cadde subito in un sonno profondo.
Bianco invece non aveva sonno,
pensava solo al modo per scappar via da quel posto. Dapprima cercò di
scardinare la porta sgangherata del pollaio ma si dimostrò robusta come quella
di una fortezza.
Provò allora a fare una buca sotto la rete scavando con le mani e con le
unghie ma sotto il primo strato di terra trovò la pietra e di certo non si
poteva scavare. Infine tentò di
arrampicarsi in cima al reticolato per scavalcarlo ma questo era scivoloso come
se fosse stato spalmato di sapone e più
Bianco saliva più tornava indietro.
“Niente da fare, qui non c’è modo di scappare” esclamò il povero bambino
con le lacrime agli occhi.
Le galline, intanto, lo guardavano e chicchiriavano e coccodeavano fra di
loro, come tante comari a commentare l’accaduto.
“Che avete da guardare, eh?” gridò Bianco arrabbiato.” Pensate di esser
più brave di me? Avanti, forza: fatemi vedere!”
A questo punto, il gallo, che aveva nome Chiriché, si avvicinò piano piano fissando gli occhietti tondi in
quelli del bambino.
“Che c’è? Che vuoi , sciocco di un gallo?” chiese Bianco fra le lacrime.
“Non siamo sciocchi, siamo come te” disse una vocina acuta.
“Chi è? Chi ha parlato?”
“Sono io, il gallo Chiriché. Un
tempo ero un bambino uguale a te, andavo a scuola, facevo i compiti, giocavo.
Tutto uguale a te.”
“Cosa, cosa, cosa? Non ci credo, questo è un sogno e tu sei un mostro del
sogno. Mamma, voglio la mamma!”
“Non vedrai più la tua mamma, presto anche tu sarai una gallina, proprio
come loro. E’ così che la strega Tempesta trasforma i bambini.”
“Chi è la strega Tempesta?”
“E’ la donna che vi ha rapito. Lei non vi lascerà mai tornare a casa,
rassegnati, e preparati a razzolare.”
“Io non razzolo, e non diventerò mai una gallina” gridò Bianco.
“Forse preferiresti essere un
gallo? Per ora ci sono io, ma se dovesse uccidermi...prova a chiederle se vorrà
fare di te il nuovo gallo.”
“Né gallo, né gallina. Voglio restare quel che sono.”
“Un modo ci sarebbe per evitare il cambiamento ma è una cosa davvero difficile, quasi
impossibile: non dovresti addormentarti mai. E’ nel sonno che avviene la
trasformazione, ma nessuno finora ci è riuscito. Si addormentano tutti, prima o
poi.”
“Se non è che questo...vedrai che io non mi addormenterò. Anzi, vado
subito a svegliare la mia sorellina prima che sia troppo tardi”.
Ma ecco arrivare la strega
Tempesta, accompagnata dal fido
domestico Pestapiedi , un tipo alto e ossuto che sembrava oscillare ad ogni
soffio d’aria per quanto era magro.
“Eccoci qua, “disse gongolando la
stregaccia,” Pestapiedi, vai subito a vedere se le mie gallinelle hanno fatto
l’uovo.”
Pestapiedi entrò nel pollaio e trovò ben cinque uova fresche.
“Brave le mie gallinelle!” esclamò la strega arraffandole. ” Ora con
queste belle uova farò un dolce per il pranzo dei maghi di domani”.
E se ne andò, seguita dal dondolante Pestapiedi.
Bianco, che si era fermato vedendo arrivare Tempesta, appena questa se ne ne andò corse a svegliare la sorella, ma appena le fu vicino si accorse
con sua grande disperazione che aveva le braccia e le gambe coperte di piume.
“Bianca, sorellina mia, che ti succede? Svegliati, per carità,
altrimenti diventerai una gallina!”
Bianca, però, non si svegliava e intanto le sue mani erano diventate zampe.
“Bianca, Bianca, svegliati o sarà troppo tardi.”
Niente, Bianca non si svegliava. Il suo viso si era già riempito di piume e al centro, dove prima
c’era la bocca, un robusto becco si apriva e si chiudeva ad ogni suo respiro.
“Bianca, Bianca, svegliati o dovrai razzolare.”
Nemmeno per sogno. Bianca dormiva saporitamente e in pochi attimi diventò
una bella gallinella, con gran dolore del fratellino Bianco.
“Bianca, Bianca...oh, è troppo tardi! Io però non mi addormenterò, te lo
giuro, e troverò il modo di farti tornare come prima”.
Bianco cominciò a riflettere e a riflettere, con tanto impegno che alla
fine aveva il mal di testa.
Finalmente dopo tanto pensare ebbe un’idea ma non disse niente a nessuno,
nemmeno alla sorella, e si mise in un
angolo fermo e buono ad aspettare la nuova visita della strega.
La mattina dopo ecco arrivare la
strega Tempesta accompagnata da
Pestapiedi.
“Le mie belle gallinelle! Pestapiedi,
vai a vedere se ci sono uova.”
Pestapiedi entrò e trovò due uova fresche fresche.
“Uhm, bene, “ disse Tempesta, “ ma cosa vedo? C’è ancora un bambino, qui?
Come mai non è un pennuto?”
“Eh, non dorme quello lì,” rispose Pestapiedi,” non dorme mai.”
“Cosa, cosa? Non dormi? Questa sì che è bella, figliolo! Tutti devono
dormire, e i bambini più di tutti. Prima o poi cascherai dal sonno. Vedrai.”
“Niente da fare, strega, se non c’è chi mi legge una fiaba io non dormo.”
“Fiaba? Che fiaba?”
“Fiaba, fiaba. Non sai cosa sono le fiabe? Hai presente Cappuccetto Rosso? E Cenerentola?”
“Ah, robaccia. Insomma non vuoi dormire senza quelle stupidaggini?
Pestapiedi non sa leggere perciò dovrò farlo io, accidenti! Non abbiamo libri in
casa, dovrò prima procuramene uno. Pestapiedi andrà a cercarlo, tu aspetta qui:
faremo presto”.
La strega si allontanò, seguita da Pestapiedi che si mise subito
all'opera.
Intanto la sera stava scendendo e Bianca piagnucolava perché voleva la mamma.
“Stai calma, sorellina, rivedrai presto la mamma se la mia idea è buona.
Il guaio è che anche se riusciremo a scappare non so come farti tornare uguale a prima” disse Bianco accarezzandole
le ali.
La notte passò, venne il mattino e arrivò anche la strega Tempesta.
“Eccomi qua, Pestapiedi ha fatto un buon lavoro: mi ha portato quattro
libri. C’è l’imbarazzo della scelta, ragazzino. Dunque, quale fiaba vuoi che ti
legga?” disse Tempesta entrando nel pollaio.
“Vorrei tanto sentire Il gatto con
gli stivali “ rispose Bianco.
“Il Gatto con gli stivali, eh?
Certamente, certamente. Ecco qua...”
Tempesta si sedette per terra e cominciò a leggere la fiaba.
Man mano che leggeva i suoi occhi si facevano sempre più piccoli, finché
si chiusero del tutto e Tempesta cominciò a russare come un orso in letargo.
“Dorme, finalmente” disse Bianco che, invece, non dormiva affatto.
Sfilò piano piano la chiave della porta dalla cintura della strega, poi chiamò a
raccolta tutte le galline e il gallo, prese Bianca e tutti insieme uscirono dal pollaio chiudendoci dentro Tempesta addormentata.
“Ma come ti è venuta questa bella idea? “ gli chiese il gallo dopo che
furono usciti.
“E’ semplice, ho pensato alla mamma. Ogni volta che mi legge una storia
per farmi dormire si addormenta insieme a me. Crolla così: paf! Allora mi sono
detto che forse anche Tempesta poteva far lo stesso.”
“Sei un genio, fratellino” esclamò Bianca mettendogli le braccia al
collo.
Braccia? Sììì!
“Oh, amico mi ero scordato di dirti che il sortilegio funziona solo
dentro al pollaio. Appena si esce, si ritorna come prima” disse Chiriché che
ora aveva le sembianze di un bel bambino dai capelli rossi .
“Bianca, sorella, siamo salvi, ora si torna a casa!” gridò Bianco e poi,
uno alla volta, abbracciò tutti i bambini.
Quando ebbero finito di farsi i complimenti, presero ognuno la via di
casa.
Mentre andavano cantavano canzoni e filastrocche per la gran felicità.
Mentre andavano cantavano canzoni e filastrocche per la gran felicità.
L’unica che non fu felice affatto fu Tempesta che quando si svegliò si trovò
chiusa nel pollaio, da sola. Chiamò più
volte il fido Pestapiedi ma quel disgraziato,
nel frattempo, temendo la sua ira era scappato
a cercar fortuna più lontano che poteva.
Aveva un bel gridare, la stregaccia: “Pestapiedi, figlio di un rospo,
vieni a liberarmi!”
Nessuno la sentiva, e anche se qualcuno l'avesse sentita mai e poi mai l'avrebbe liberata.
mercoledì 9 maggio 2018
Progetti da fiaba - La rinascita della montagna
Conciliare
rispetto per la terra e lavoro per l’uomo.
Una sfida dei nostri tempi, una necessità se vogliamo salvare l’ambiente e darci un futuro.
Una sfida dei nostri tempi, una necessità se vogliamo salvare l’ambiente e darci un futuro.
Nel
post di oggi Paolo Cognetti parla proprio di questo, e lancia la sua proposta
che passa dalla formazione e da un programma culturale e sociale per la
montagna che porti al suo ripopolamento e al suo rilancio, senza sacrificare l’ambiente
e le sue risorse naturali.
Non
più solo “parco dei divertimenti, dunque, ma luogo d’incontro e scambio, con
uno sguardo a quella città che a questo scopo tende la mano e aiuta la montagna con i
suoi strumenti.
Se
nel post precedente Cognetti esaltava, nel bosco nato fra l’asfalto e gli
scheletri dell’archeologia industriale della Bovisa, il verde, la campagna che
si riappropria della città e la “contamina” con foglie e radici ridandole vita,
ora ci racconta invece di una città che si fa alleata della montagna e la sostiene nel tentativo di rinascere conservando il suo patrimonio verde.
Bellissimo
progetto, non posso che fare tantissimi “fiabeschi” auguri a Cognetti.
Leggete il post: come
sempre, ne vale la pena.
lunedì 7 maggio 2018
Il diavolo e il contadino - omaggio alla fiaba popolare italiana
Il mondo contadino, così come ce lo hanno raccontato, da noi è scomparso.
Ma le radici non si devono negare né recidere, perché fanno parte di noi, di quel che siamo, nonostante la tecnologia e il benessere che sembrano contraddistinguere la nostra epoca.
In omaggio a quelle radici, dunque, e alla fiaba popolare italiana che spesso ha per protagonisti i coltivatori della terra, ecco la mia piccola storia.
Il diavolo e il contadino
Barbara Cerrone
Un giorno un contadino, mentre zappava nel
campo, fu avvicinato da un uomo tutto vestito da gran signore che gli parlò
così:
“Buongiorno, come state buon uomo? Vi rende
questa terra?”
“Così, così, signor mio. Si campa a stento.”
“Eh, vi capisco, ma oggi è il vostro
giorno fortunato.”
“E perché mai?” disse il contadino fermandosi
a squadrarlo bene. “Che giorno è oggi che porta fortuna a un contadino?”
“E’ il giorno in cui mi avete incontrato e
con me vien la fortuna.”
“Ah, e chi siete? Un mago?” rispose lo
zappaterra col riso che gli increspava tutto il viso.
“Un mago no, ma ci siete vicino…ho dei poteri
che neanche immaginate. Se non credete prendete questo germoglio e piantatelo
subito: vi cresceranno dei meli che faranno mele d’oro e in capo a un anno
sarete ricco più del conte che vive nel castello.”
“Sì, ci credo, “fece il contadino, “ce n’è di
gente che crede di imbrogliare noi villici pensando d’esser più furba e noi dei
tonti!”
“No, caro mio, è proprio perché vi so una
gran mente che vi propongo ora quest’affare. Certo, c’è un prezzo da pagare, ma
si sa che nulla è regalato nella vita.”
“Ah, c’è la gabola…dicevo io! E quale sarebbe
questo prezzo, il mio signore? Volete fare a metà o vi prendete tutto?”
“No, niente di tutto questo, son ricco più
del re, non ho bisogno. Io sono un cercatore.”
“Di che? D’oro, per caso?”
“D’anime belle e pure, figlio mio, son quelle
che catturo.”
“D’anime, dite? Oh, non sarete mica…”
“Sissignore, vedo che hai capito: son proprio
lui, quello che il prete odia più di tutto.”
“E mica solo il prete, pure io vi odio e vi
scaccio senza meno.”
“E la ricchezza? E l’oro?”
“Camperò come son sempre campato. Andate via,
brutto mostro, e non ricomparite o v’infilo da parte a parte col forcone”.
Il diavolo, perché era proprio lui, vista la
mala parata se ne andò tutto storto, col proposito di rifarsi all'occasione.
Il giorno dopo mentre il contadino zappava
ancora nel suo campicello ecco che ritorna quel satanasso, a cavallo di un
destriero tutto nero, come l’animaccia sua.
“Eh, dura la terra, contadino, vero?” fece
quel demonio tutto baldanzoso. “Ma se tu mi dessi retta in poco tempo ti
scorderesti la zappa e anche la terra.”
“Un contadino non si scorda mai la terra,”
rispose il contadino, “siamo un tutt'uno io e lei, è come se fosse la mia sposa. Lasciami, infame, che con me
non hai da far nulla!”
“Dici così, ora, ma aspetta che ti arrivi fra
capo e collo una bella carestia e poi ne parliamo, zotico sciocco. Stammi bene,
per quel che puoi” disse ridendo il mostro, e se ne andò.
Passa un altro giorno e torna il diavolaccio, questa volta in carrozza.
Si ferma, vede il contadino come sempre chino sulle zolle e dice:
Si ferma, vede il contadino come sempre chino sulle zolle e dice:
”Olà,
pezzo d’idiota, ti annuncio presto presto gran disgrazie, grandine, poi
siccità, poi le locuste, poi anche la fame nera e se mi va anche la peste.
Preparati, tu che facevi tanto il sostenuto, e sappimi dire, quando tornerò, se
ancora mi disprezzi o accetti il patto”.
Il contadino gli fece segno di andare al
posto suo, cioè al diavolo, poi tornò a lavorar la terra e fece come se non
esistesse. Il demoniaccio fuggì ancora ma nella testa aveva gran vendetta.
Passa un altro giorno ancora e viene Belzebù
con tre carrozze, guidate ciascuna da un bello scheletrino fresco fresco di
cimitero.
“Buongiorno, schiavo della terra! Senti, che
ne pensi se smettiamo le polemiche e diventiamo amici? Non ti manderò né peste
né carestia, ti prometto una grande eredità. Terra feconda a iosa, tanta da non
poterla più lavorare da solo, sarai un gran signore e caverai tante di quelle
messi dalla terra da sfamarci tutto il paese e quelli più vicini. Dimmi che
mi dai l’anima e sarà tutto fatto.”
“La terra è buona se non è rubata o maledetta,
“ rispose il contadino, “ la tua puzza di zolfo e fa le messi amare. Buona
giornata a te e a quei poveretti che ti porti dietro”.
Anche questa volta quel dannato restò deluso
e con le corna rotte, ma diavolo era diavolo e non sapeva rinunciare al suo
sporco bottino, così tornò alla carica il giorno che seguì. “‘Eccoti,
poveretto: com'è oggi il tuo sudore? Sa più di sale o sa d’amaro? Via, rifletti
su ciò che ti conviene.”
“Ho riflettuto, bestiaccia che sei, e ora
penso di essermi anche troppo divertito: ecco la mia riflessione e buon pro ti
faccia” e nel dir così tirò fuori un crocefisso tutto intriso d’acqua
benedetta e glielo mise dritto davanti a quegli occhiacci neri.
“Ahi! Ohi! Uhi!”
Che lamenti si levarono verso il cielo! Ma
erano del demonio e ricaddero subito come piombo sopra la terra e poi giù nel
profondo, in quell'inferno da dove era venuto e dove si conobbe la misura del
suo fallimento.
Fu relegato a compiti umilianti, quel diavolo sciocco e presuntuoso.
Fu relegato a compiti umilianti, quel diavolo sciocco e presuntuoso.
Dal canto suo, il contadino riprese subito a
lavorar la terra, guardando il cielo per indovinar la pioggia.
Iscriviti a:
Post (Atom)